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Autore: deuxexmycroft    13/01/2013    5 recensioni
Cinque anni dopo aver fatto rinchiudere l'omicida Sherlock Holmes dietro le sbarre, emerge un feroce emulatore. Un riluttante John Watson è costretto a lasciare il suo pensionamento alla ricerca della consulenza dell'unico uomo che possa aiutarlo, un uomo che ha sviluppato per lui un'inquietante ossessione .
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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loss 1

Ecco una gran bella fanfiction che sta riscuotendo moltissimo successo. È attualmente in corso, sono stati scritti finora 4 capitoli su 5.

L’autrice ha specificato che si tratta di un crossover con Red Dragon e Il Silenzio degli Innocenti, ma non essendoci questi titoli nell’archivio di efp devo specificarlo qui.

Per qualche motivo, nonostante la semplicità e la scorrevolezza dello scritto originale, mi ci è voluto parecchio per tradurre il primo capitolo poiché è davvero ricco di particolari ed eventi.

Godetevi il primo capitolo e andate a leggere la storia originale, se potete!

The Loss of Flesh and Soul -> deuxexmycroft

 Traduzione di Yuri, con il consenso dell'autrice.

 

  

 ***

 

 

 

 John Watson suonò il campanello con un dito guantato, fermamente, per circa mezzo secondo. Il volto stanco era difficile da distinguere nel buio della notte, la luce dei lampioni troppo fioca e nebbiosa per risultare d’aiuto, ma il suo profilo poteva comunque essere intuito. Era un uomo minuto, con una buona postura a dispetto della stanchezza, avvolto in un cappotto invernale che avrebbe potuto essere più caldo, e una sciarpa che avrebbe potuto essere meno ispida.

La luce dell’atrio si accese, illuminando il volto di John attraverso il vetro ghiacciato, e dopo un ticchettio di lucchetti aperti, la porta si aprì. Sherlock Holmes stava in piedi all’entrata con una cortese espressione di stupore sul viso, la sua figura slanciata vestita di tutto punto nonostante l’ora tarda. “Ispettore?”

John sentì profumo di caffè e di cena su di lui. Si schiarì la voce. “Mi spiace disturbarti così tardi,” iniziò, ma Sherlock lo interruppe.

“Non è un problema.” Aveva una voce profonda e tranquilla. Agitò vagamente una mano pallida in direzione del salotto. “Ero sveglio, comunque. Vuoi entrare?”

“Se non è un problema.” John spinse un po’ più a fondo le mani nelle tasche. “Voglio solo parlare.”

Gli occhi taglienti di Sherlock di strinsero impercettibilmente. “Ma certo,” disse, e arretrò, tenendo la porta aperta così che John gli passasse accanto allontanandosi dal freddo. La chiuse dietro di lui, ma non a chiave, il suo sguardo non si staccava da John. “Posso prenderti la giacca?”

Appese la sua giacca nell’armadio sotto le scale e scortò John nel salotto. Una stanza abbastanza grande, che Sherlock aveva riempito – e in ciò John riconobbe il suo tipico comportamento da gazza ladra – con oggetti che gli interessavano. Avrebbe dovuto sembrare disordinata, ma al contrario appariva come un incrocio tra una biblioteca e un negozio antico. Il suo computer ronzava sul tavolo da caffè, dove sembrava che Sherlock stesse facendo ricerche sull’aracnofobia.

“Per uno dei miei clienti,” spiegò Sherlock, notando la direzione dell’occhiata di John. Si lasciò cadere sulla poltrona e tirò fuori il suo violino. “Siediti, ora. Cos’è che ti preoccupa?”

“Quanto mi costerà?” scherzò John, appropriandosi della poltrona di fronte.

Sherlock sorrise indulgente. “Considera gratuito ogni beneficio terapeutico che deriverà da questa chiacchierata.” Pizzicò le corde del violino, con gentilezza, per non fare troppo rumore che avrebbe disturbato la conversazione.

“Okay,” disse  John, mettendosi comodo della poltrona. “Bene. Non ci conosciamo molto bene, ma abbiamo lavorato sullo stesso caso per un po’ e ho fiducia nel tuo contributo come psichiatra forense.”

Sherlock sorrise. “Mi onori. Qual è il punto?”

“Credo… che abbiamo commesso un errore,” disse John tranquillamente. “Abbiamo seguito la pista sbagliata per tutto il tempo.”

“Davvero?” rispose Sherlock, senza smettere di picchiettare con le dita.

“Sì. Abbiamo identificato il killer come qualcuno con un risentimento e un’esperienza pratica di anatomia.”

Sherlock mugugnò la sua approvazione, e strinse una delle corde con una precisa torsione delle dita sottili. “Data la sua esperienza nell’estrazione delle parti del corpo che colleziona, sospetterei un medico radiato o magari uno studente di medicina che abbia abbandonato gli studi. Forse anche un dentista, o un professore di biologia umana.” Somministrò a John uno dei suoi inquietanti sorrisi che non raggiungevano gli occhi. “O persino una persona molto abile con una buona conoscenza di Google.”

John avvertì i capelli iniziare a rizzarglisi sulla nuca. Ma non lo diede a vedere a Sherlock e sollevò il mento. “È qui che ci siamo sbagliati,” spiegò con franchezza.

Le labbra di Sherlock si strinsero. “Oh?”

“Non colleziona parti del corpo.”

Sherlock inarcò un sopracciglio. “E allora perché le prende?”

“Credo,” disse John con voce sempre più fioca, “che le mangi.”

La temperatura nella stanza sembrò precipitare e Sherlock ripose con cautela il violino sul piedistallo, la sua poltrona scricchiolò quando si sedette. “Va’ avanti,” disse, unendo tra loro le dita di ciascuna mano sotto al mento.

John emise un respiro nervoso. “È stato mentre la mia ragazza preparava la cena.” Il naso di Sherlock si arricciò leggermente, come succedeva sempre quando John accennava a Sarah. “Stava tagliando il pollo e mi disse: ‘la miglior parte del pollo è il codrione, sui lati del collo’. E a quel punto mi sono ricordato della terza vittima.”

Le palpebre di Sherlock vibrarono al ricordo. Aveva visto le foto del crimine.

Deglutì rumorosamente e lo sguardo di Sherlock si spostò sulla sua gola e poi di nuovo sul viso.

“E allora ho capito.” John si raddrizzò leggermente, mentre Sherlock stava rigido come una statua di fronte a lui. “Fegato, rene, lingua, timo. Quelle che sono state prelevate da ogni vittima sono tutte parti che vengono usate in cucina.

Il volto di Sherlock sembrò illuminarsi. Si sfregò il labbro inferiore, lo sguardo abbassato mentre pensava. “Molto interessante,” mormorò. “Questo… questo cambia tutto.” Lanciò un’occhiata valutativa a John. “Hai condiviso questi pensieri con qualcuno?”

John scosse la testa. “No… volevo parlarne prima con te. Di nuovo, scusa se ti ho rovinato la nottata con questi discorsi sull’omicidio. A me ha impedito di gustarmi la cena di Sarah.”

“Oh, no, non ti scusare,” disse in fretta Sherlock, distogliendo lo sguardo. “Lo trovo affascinante.” E infatti rimase seduto in silenzio per un po’, senza dubbio rimuginando su ogni cosa.

“Alle volte mi domando se dovremmo scambiarci i lavori,” suggerì John, scherzando solo in parte. “Considerato l’interesse che provi per i miei casi.”

“Credo che scoprirai che tutti sono interessati all’omicidio, John,” disse Sherlock con un ghigno. “D’altro canto, sono più interessato alle persone che stanno dietro ai casi.” Fissò nuovamente John con uno sguardo di ghiaccio. “O da entrambi i lati.”

John sorrise educatamente, ma avvertì la propria tensione sul volto.

“Un giorno mi piacerebbe averti sul mio divano,” rifletté Sherlock, quasi tra sé e sé. “Non riesco a immaginare gli orrori che si nascondono nella tua testa. Tutte le cose che hai visto…”

“Non ne sono sicuro. Forse non sei un così bravo psichiatra come credi,” disse John, in un impeto. “Sei considerato il migliore, eppure sei rimasto su questo caso più a lungo di quanto non abbia fatto io, la possibilità che l’assassino fosse un cannibale sembra non averti sfiorato.”

“Che posso dire?” disse Sherlock, separando le mani. “Ho commesso un errore. So che a voi persone piace pensare che ciò che faccio sia magia, ma in tutta onestà io sono umano quanto voi.”

John fece una pausa, incerto. “Non mi sembri qualcuno che commette tanti errori.”

“Odierei perdere la tua piena fiducia, John,” disse Sherlock dolcemente. “Significa molto per me.”

E in quell’istante, John… aveva quasi capito.

Indietreggiò col busto e aggrottò le sopracciglia concentrandosi. Ma il pensiero gli era sfuggito, e improvvisamente si sentì esausto.

“Mi dispiace,” disse John, piegando la testa. “È stato scortese da parte mia accusare…” Si fece scorrere una mano tra i capelli e sospirò. “È tardi. Sono molto stanco e non ho dormito. Scusami.”

Sherlock lo studiò silenziosamente da sopra le dita congiunte. “Vai a casa,” disse infine. “Riposati, e poi torna a farmi visita quando ti sentirai meglio. Possiamo rivedere i rapporti degli omicidi alla luce della tua scoperta. Farò del mio meglio per non commettere altri sbagli. Può andar bene?”

John annuì debolmente. “Ottimo. Grazie, Sherlock. Scusa ancora per –“

“Non dirlo,” lo riprese Sherlock. Si alzò in piedi e agitò la mano verso il basso quando John fece cenno di seguirlo. “No, no. Rimani lì. Ti prendo la giacca.”

Scomparve dalla stanza e lo spazio sembrò improvvisamente più grande ora che lui ne era fuori. John espirò lentamente, sentendosi piccolo. Quando la porta del ripostiglio si aprì all’entrata, John affondò il volto tra le mani. Cosa c’era che non andava, in lui? Sherlock era strano, ma non c’era ragione di…

Il suo sguardo fu catturato, sulla libreria che dominava una delle pareti della stanza, da vari libri di ricette di cucina. Uno di loro era stato aperto di recente.

John si fidò del suo istinto. Se qualcosa lo colpiva, meritava di essere verificato. I suoi passi furono attutiti dal tappeto morbido quando si incamminò, prendendo quasi di riflesso il cellulare per telefonare a Lestrade. Compose il numero con mano ferma mentre faceva scorrere lo sguardo su una sezione del libro di cucina che Sherlock aveva segnato con ‘carne di maiale’.

L’attacco provenne dal nulla.

John si voltò di scatto, allarmato, in tempo per vedere Sherlock incombere su di lui, un bagliore d’acciaio, poi un dolore accecante non appena un coltello si fu fatto strada con forza nel suo stomaco. Avrebbe gridato, ma l’aria gli era stata strappata via dai polmoni, così invece si aggrappò inutilmente alle mani umide di Sherlock.

“Shh,” mormorò Sherlock paziente, premendo la sua mano sulla bocca ansante di John. John tentò di divincolarsi, ma quella mano ossuta era forte come il ferro. “Lascia che accada.”

Ci fu un suono di pelle lacerata, carne strappata quando Sherlock girò il coltello nel corpo di John.

John fissò impotente il pallido volto affascinato sopra di lui, che lo osservava come un gatto osserva un tolo intrappolato sotto le sue zampe. John stava già sudando, troppo sconvolto per lottare, pensando, stupidamente, che dopotutto a lui piaceva quella camicia. Il dolore era tale che le gambe cedettero sotto il peso del suo stesso corpo e Sherlock lasciò scivolare il coltello fuori da lui e lo rigirò come una bambola di pezza, schiacciandolo contro la libreria per mantenerlo dritto con le sue grandi mani su entrambi i fianchi di John, il coltello appoggiato di lato.

John percepiva il calore di Sherlock sulla sua schiena e, sopra ogni altra cosa, la sensazione che il suo stomaco stesse fuoriuscendo. Respirò profondamente e tentò di non singhiozzare quando la parte inferiore del suo corpo perse ogni forza.

“Ah, sì,” disse Sherlock, con un tono stranamente tenero. “Le tue gambe sono andate. Non temere, sono abbastanza forte per entrambi.” Accarezzò i capelli di John, un intimo gesto che gli provocò dei brividi lungo la spina dorsale. “Speravo che non scoprissi il mio coinvolgimento, John, ma sembra che abbia sottovalutato la tua intelligenza. O forse ho dato per scontata la mia. In ogni caso, devi saperlo, non avrei mai voluto farti del male. Ma tu mi hai costretto.”

Il cuore di John gli batteva velocemente nel petto, pompando inutilmente sangue fuori dal suo corpo e mandandolo a spargersi sul tappeto di Sherlock. Si sorprese a domandarsi come diavolo avrebbe fatto Sherlock a ripulire tutto. Avrebbe nascosto il corpo, come con aveva fatto con gli altri? Avrebbe mangiato uno degli organi di John?

La vista gli si stava offuscando ai lati, come durante una sbronza. Sentì le dita di Sherlock strofinare il suo scalpo.

“Sei ammirevole,” sussurrò Sherlock improvvisamente, le labbra vicinissime all’orecchio di John. Il suo respiro graffiante gli arrossò la pelle. “Credo di aver fatto breccia nel tuo cuore.”

“Fermo!”

Attraverso il dolore, John riconobbe quella voce. Sherlock sembrò paralizzarsi attorno a lui, le labbra ancora premute sull’orecchio di John, il suo cervello al lavoro. Come se si fosse teletrasportato dal nulla, il detective ispettore Greg Lestrade aveva la sua pistola puntata alla testa di Sherlock. John avvertì un enorme sollievo.

“Molla il coltello e lascialo andare subito,” ordinò Lestrade.

Il coltello macchiato di sangue cadde e colpì il pavimento con un rumore sordo.

Sherlock respirò lentamente nell’orecchio di John valutando la situazione, completamente immobile, poi leccò il lobo di John con la sua lingua calda, muovendo la bocca in un bacio beffardo, prima di staccarsi e accompagnarlo sul pavimento. Quando John giacque ai suoi piedi, sollevò le mani in segno di resa e sorrise tranquillamente in direzione della canna della pistola.

L’universo di John si oscurò attorno a lui, pezzo per pezzo, mentre rimaneva adagiato sul tappeto morbido, il sangue proveniente dal suo stomaco tingeva gradualmente ogni cosa di rosso.

 

******

 

Greg Lestrade sbirciò il monitor per poter vedere il Dr Sherlock Holmes nella stanza degli interrogatori, circondato da agenti della sicurezza, le mani ammanettate e posate sul tavolo. L’uomo sembrava quasi annoiato, le palpebre calate a metà, la bocca atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Era vestito con la maglietta e i jeans di qualcun altro. I vestiti su misura che indossava quando era arrivato erano macchiati del sangue di John e per di più servivano come prove.

“Gli parlerà, signore?” domandò il detective sergente Donovan, accigliandosi.

Greg si strofinò una mano sulla fronte. “Sono appena tornato dalla visita a John all’ospedale,” disse e l’espressione di Donovan diventò più comprensiva. “Devo parlare a quel maledetto Holmes prima che vada in tribunale. Ho bisogno di capire.”

John era sembrato così piccolo nel letto d’ospedale, appena uscito da un intervento chirurgico d’urgenza con il busto pesantemente fasciato, il volto rilassato ma, per qualche motivo, non pacifico. Diversi tubi entravano e uscivano dal suo corpo, come se fosse una specie di macchina.

Ogni tanto le sue soffici, bionde ciglia avevano tremato sui suoi zigomi e Greg si era domandato se John si stesse svegliando.

Chiaramente era impossibile. John era sprofondato in un coma indotto, a mala pena in grado di sopravvivere. Sherlock lo aveva praticamente sventrato.

“Sembri preoccupato, Ispettore,” disse Sherlock non appena Greg fu entrato, e il bastardo stirò le labbra in un sorriso affettato.

Greg desiderò che la brutalità della polizia non fosse vista così di cattivo occhio. John era a pezzi e Sherlock ne sorrideva, al sicuro da ogni danno. “Sei tu quello che dovrebbe essere preoccupato, Holmes. A meno che tu non possegga un sangue freddo tale che l’omicidio non abbia alcun effetto sulla tua coscienza.”

Gli lanciò quella frase con fierezza, cercando di ferirlo con le parole dove non poteva farlo con i pugni,  ma Sherlock lo fisso semplicemente con i suoi pallidi occhi scintillanti. “Come sta John?” chiese Sherlock, calmo, come se stessero chiacchierando davanti a un caffè.

“Cosa di importa?” gli ritorse Greg, sedendosi di fronte. “Hai cercato di ucciderlo.”

“Non volevo,” disse Sherlock, intrecciando le dita, facendo sfregare le manette contro il tavolo metallico. Aveva uno sguardo distante. “Mi piace John, Ispettore, ma non tanto quanto io piaccio a me stesso.”

Ovviamente no. Sherlock era al centro del suo mondo delirante.

“Come sta John?” ripeté Sherlock, con infinita calma.

“Tu cosa credi?” gridò Greg, ma la suprema imperturbata presenza di Sherlock, in qualche modo, fece apparire la reazione di Greg impetuosa e irragionevole al confronto. “È a un passo dalla morte in un letto d’ospedale. L’hai quasi tagliato in due.”

Sherlock ammiccò lentamente. “Magari gli manderò un biglietto.”

“Non farai niente del genere,” disse Greg a denti stretti.

“È molto intelligente, sai. Più intelligente di te, comunque.” Sherlock sottolineò la frase trascinando il suo sguardo lungo il corpo di Greg. “Credo, tra i due, che il piccolo John sia molto più adatto ad essere Ispettore Capo.”

Greg si irritò e il ghigno sul volto di Sherlock si allargò, increspandogli la pelle attorno agli occhi.

“Dovresti essermi grato. Prevedo che John si ritirerà, dopo tutto questo. E allora tu sarai la scelta più naturale per la promozione.”

Si sentì uno schianto quando Greg balzò in piedi, sbattendo il pugno sul tavolo per impedirsi di colpire la faccia di Sherlock. Le sue spalle si alzarono mentre trangugiava ossigeno, arrossato dalla rabbia, squadrando Sherlock con odio. “Rimarrai rinchiuso per sempre, Holmes,” sputò. “Ti credi così superiore, ma vivrai il resto dei tuoi giorni in una piccola cella, diventando così rabbioso e  deviato che non sarai più una minaccia per nessuno. E John si riprenderà da ciò che gli hai fatto, e ti dimenticherà. Io ti dimenticherò. Ancora qualche anno e nessuno si ricorderà di te.”

I pallidi occhi di Sherlock spazzarono la figura contratta di Greg, come se lo stesse facendo mentalmente a pezzi. “Tu mi penserai, soprattutto quando meno te lo aspetti,” disse lentamente. “Infatti, farai fatica a fidarti di persone nuove per anni a venire, anche se, forse, non realizzerai quanto ciò ti stia limitando. E John?” Sherlock s’interruppe addolcendo il tono. “Ogni fitta di dolore della sua ferita, ogni pillola che prenderà per smettere di soffrire gli farà ricordare di me. E quando gli anni saranno trascorsi e il buco nel suo stomaco si sarà rimarginato in una cicatrice, mi penserà ogni volta che ne scorgerà la forma allo specchio, o la sentirà prudere sotto i vestiti. Non sarà mai in grado di dimenticare. E fintanto che sarà nei paraggi, nemmeno tu.”

“Tu speri-“ protestò Greg, ma Sherlock lo interruppe aggiungendo malizia alla sua voce.

“E allora vedrai John, ti ricorderai delle altre vittime che non hai fatto in tempo a salvare. Penserai alla tua stupidità, a quanto hai fallito a trovare il vero killer. Se solo avessi guardato un po’ più da vicino saresti stato capace di salvare quelle persone. E a quel punto,” gli occhi di Sherlock brillarono, “inizierai a odiare John.

“Sta’ zitto,” scattò Greg, il suo cuore correva troppo veloce nel suo petto.

“Perché John non ha avuto prima la sua rivelazione?” disse Sherlock, il suo piacere selvaggio per la reazione di Greg era visibile nel suo largo ghigno. “Quelle persone non sarebbero morte se John fosse stato  un po’ più veloce, un po’ meno fiducioso. E presto, non sarai più in grado di stargli vicino senza cadere in una spirale di depressione che curerai con l’alcool. Senza successo.”

Greg realizzò tardi che Sherlock se lo stava lavorando, con nessun altro scopo se non il proprio divertimento. Era inorridito per aver consentito a Sherlock di protrarre quella cosa così a lungo. La conversazione era tanto vicina a un coltello rigirato nelle budella quanto le parole potessero essere.

“Ti vedrò in tribunale, Sherlock,” disse Greg, definitivo. Uscì dalla stanza, fin troppo consapevole delle occhiate di Sherlock alle sue spalle, affilate come pugnali.

 

***

 

I giorni trascorsero veloci.

Sherlock fu dichiarato colpevole dopo un processo largamente pubblicizzato e condannato a nove ergastoli consecutivi senza possibilità di appello. Non sarebbe mai più uscito. Per fortuna, forse, John passò l’intero tracollo mediatico nel suo coma indotto.

C’erano l’interminabile copertura del coinvolgimento di Sherlock nella sua stessa indagine, i macabri dettagli del processo, e poiché le affilate caratteristiche di Sherlock risultavano così peculiari sulle stampe in bianco e nero, le sue foto finirono per essere viste ovunque. Aveva un talento per i morsi e i giornalisti amavano odiarlo.

“Cosa ne sarà della tua anima?” aveva gridato una donna esaltata mentre Sherlock usciva dal tribunale, la sua snella figura in completo fiancheggiata dalle guardie. “Dio ti manderà all’infermo per ciò che hai fatto a quella gente!”

“Dio ne ha uccisi a milioni,” aveva risposto Sherlock in tono ragionevole. “Sono sicuro che non mi invidierà per qualche miserabile omicidio.”

In termini più infelici, la notizia mise in luce il Servizio di Polizia Metropolitana per aver mancato di notare che essa aveva indirettamente favorito un omicidio. Non importava che Sherlock avesse alle spalle una carriera senza macchia e impeccabili referenze. Avrebbero dovuto capirlo, e non l’avevano fatto. Fu sottolineato, in particolare, il coinvolgimento di John, dopo che un giornalista scandalistico si fu introdotto in ospedale ed ebbe rubato una foto del suo corpo malridotto dopo un altro intervento. I bastardi lo avevano sbattuto in prima pagina.

Tutto ciò era accaduto prima che John si risvegliasse, ammiccando confusamente con occhi che non vedevano la luce da troppo tempo. Per un istante credette di trovarsi, ancora sanguinante, sul tappeto di Sherlock, ma un’infermiera accorse in fretta a tranquillizzarlo e a spiegargli cos’era accaduto.

E, esattamente come Sherlock aveva predetto, si ritirò presto dalle forze di polizia.

Era disteso sul suo letto d’ospedale quando Greg venne in visita, il suo comodino era sommerso da libri e cartoline, da parte di amici e colleghi, che gli auguravano una pronta guarigione. Secondo i dottori sarebbe stato pronto a tornare a casa in pochi giorni, una notizia che John stava assaporando. Quando Greg entrò, Sarah sedeva di fianco al suo letto, sistemandogli il cuscino; John sorrise coraggiosamente ma i suoi occhi erano velati di tristezza, sebbene fosse contento del nuovo visitatore. Aveva perso molto peso.

Nella stanza regnava un’atmosfera strana e Greg ebbe l’impressione di essere arrivato nel mezzo di una discussione che non si era conclusa.

“Sono… troppo stanco di tutto,” disse pacatamente, dopo che Sarah l’ebbe baciato con gentilezza sulla guancia e fosse tornata al lavoro. “È troppo. Mi conosci, Greg. Per risolvere i casi ho bisogno di mettermi nei panni dei criminali, devo pensare come loro. E il dottor Holmes…” John serrò i denti e la mano vicino al suo stomaco si contrasse. “È più di quanto possa reggere. Mi ucciderò, cercando di catturare queste persone.”

Greg ricordò la dolorosamente accurata predizione di Sherlock e abbassò lo sguardo sulle sue dita. “Credo che tu sia bravo in questo lavoro, John.”

John lo fissò per un po’, poi si allungò verso il comodino ed estrasse un cartolina con un’espressione sconfitta che fece stringere il cuore di Greg. “Guarda,” disse John, quasi supplicando, e le sua mano tremava mentre gli porgeva un biglietto costosamente elegante. “È da parte sua. Sta cercando di tenersi in contatto con me.”

Greg lo prese e la mano di John ricadde al suo fianco. La aprì con cautela, avvertendo la qualità della carta sotto al pollice.

Scusa, aveva scritto Sherlock in linee appuntite di inchiostro nero sopra a un messaggio prestampato. Ti penso spesso. S.

Greg rimise cautamente la cartolina assieme alle altre, lontano dalla vista. “Passerà la vita in prigione, John. Non può farti del male da là.”

Per qualche ragione, per Greg era incredibilmente importante provare che Sherlock aveva torto e far restare John nella polizia. Ma John scosse la testa, come se Greg non riuscisse a capire. Appariva triste. “Quando uscirò da qui mi dimetterò formalmente. Mi dispiace, Greg. Sei un buon amico.” I suoi occhi si mossero a incontrare quelli di Greg. “Spero che ciò non cambi dopo che avremo smesso di lavorare assieme.”

“Ovviamente no,” si affrettò ad assicurare Greg. “Sarai sempre benvenuto ad unirti a noi al pub a fine giornata. Ma John –“

“Greg,” lo interruppe John, scuotendo la testa. Sembrava anni più vecchio e decadi più fragile. “Ti prego.”

Chiacchierarono per circa mezzora prima che Greg tornasse a casa. Lasciò John con i giornali che aveva richiesto e che si era perso, così che potesse rimettersi in pari. John gli fu incredibilmente grato e diede a Greg una scatola intatta di cioccolatini da parte di uno dei suoi amici da condividere con la famiglia di Greg.

“Erano un regalo, ma al momento non posso mangiare cioccolata,” spiegò John. “Ho una dieta molto limitata.”

Greg la ricevette con gratitudine e quando John sporse la mano per una stretta, Greg invece si chinò e lo abbracciò con cautela. Lo sentì più morbido e ossuto di prima.

“Riguardati, John,” gli disse, sincero.

“Anche tu,” rispose John.

 

***

 

Sulla sua cuccetta nella sua prigione di vetro, Sherlock Holmes giaceva prono con un’uniforme bianca, leggendo avidamente il giornale The Herald. La sua pelle, naturalmente pallida prima che venisse rinchiuso, sembrava quasi cadaverica ora, privata del colore per la mancanza di sole e a malapena distinguibile dai suoi vestiti. I suoi occhi guizzarono veloci mentre leggeva e si sfregò pensieroso il labbro inferiore con l’indice, prima di leccarlo per voltare pagina.

La sua storia non era ancora scomparsa dai giornali. L’ultimo risvolto comprendeva il capo del personale dell’istituto psichiatrico, dottor Culverton Smith, e la sua promessa di divulgare le analisi definitive del caso di Sherlock a qualunque pubblico fosse interessato. La sua piccola, compiaciuta fotografia era praticamente su ogni giornale in cui si imbatté, in piena vista delle telecamere. Il dottor Smith doveva sapere che Sherlock non provava altro che disprezzo per lui.

Girò un’altra pagina, e poi un’altra ancora, crogiolandosi e immergendosi nelle informazioni di un mondo in cui non era più ammesso. Le parole crociate erano semplici in maniera deludente e con ciò Sherlock lanciò il giornale da parte e lo lasciò sparpagliarsi sul pavimento, allungandosi sotto il letto per raggiungere il giornale scandalistico che aveva conservato.

Glielo avevano lasciato tenere, per qualche ragione.

Forse, in qualche modo, il dottor Smith stava psicoanalizzando la sua nuova scoperta affezione (o forse ossessione) per l’unica vittima che era sfuggita alle sue grinfie, ma Sherlock non era particolarmente infastidito dalla consapevolezza di essere oggetto di studio. Aveva deciso, tempo addietro, che avrebbe permesso al dottore di interpretare come voleva la sua relazione con il singolare John Watson.

La prima pagina crepitò quando Sherlock fece scivolare un palmo riverente lungo la carta, la mano asciutta, così da non sbavare l’inchiostro. La sua mano indugiò sulla foto in copertina, l’immagine rubata di un John incredibilmente vulnerabile dopo un intervento che gli aveva appena salvato la vita. In bianco e nero, sfortunatamente; cosa non avrebbe fatto Sherlock per una versione a colori.

John appariva orribile, oggettivamente, ma Sherlock trovava quella fotografia bellissima.

La ferita che Sherlock aveva aperto in lui era suturata e ancora fresca sotto le bende attorno alla cintola, e la sua figura minuta sembrava imbottita di tubi. Aveva una sacca per le urine appesa inelegantemente fuori dal suo corpo, dopo che Sherlock aveva danneggiato a tal punto le sue budella. Se non fosse stato per tutta questa tecnologia, John si sarebbe trovato su un tavolo d’autopsia come tutti gli altri. Tecnicamente, Sherlock lo aveva ucciso, eppure lui era ancora lì, vivo.

Era meraviglioso.

Le sue dita danzarono sopra la fotografia, passando sullo stomaco, il petto e infine, delicatamente, sopra i puntini grigi che costituivano il collo di John Watson. Si avvicinò sempre di più finché il suo naso toccò la carta, l’immagine a malapena a fuoco, e non si mosse più per ore.

 

***

 

Cinque anni dopo, Sherlock Holmes si guadagnò un fan.

 

***

 

“Cosa c’è, Greg?” chiese John. Aveva aperto la porta con le maniche della sua camicia blu arrotolate, ora i suoi capelli soffici avevano delle striature grigie e c’era forse qualche ruga in più di quante Greg ricordasse. Nonostante ciò, sembrava più sano che mai. Dimettersi dalla polizia gli aveva fatto benissimo.

“Sembri molto più in forma,” disse Greg davanti a una tazza di tè nella cucina di John.

John picchiettò le dita contro la sua tazza, lo sguardo abbassato. “Mi sento molto meglio,” ammise. “Immagino che si tratti di una specie di processo inverso.” Nonostante la sua apparente allegria, sembrava stare in guardia. Aveva già sospettato il motivo per cui Greg era lì.

“Come sta Sarah?” chiese Greg in un vano tentativo di fare sentire John a suo agio. Era la domanda sbagliata. John rispose squadrando Greg con un’occhiata che conteneva più pietà che disprezzo, prima di prendere con calma un sorso del suo tè e guardare fuori dalla finestra.

Avrebbero dovuto tenersi in contatto.

“So perché sei qui,” disse John piano. “Leggo i giornali.”

Greg decise di lasciar perdere i convenevoli. “Cosa sai?”

“Due donne uccise nelle loro case, due mesi fa. La prima qui a Londra, l’altra a Guildford, nel Surrey.” John bevve un altro sorso di tè. “Le circostanze della morte erano simili.”

“Non simili,” lo corresse Greg. “Le stesse.”

John gli lanciò un’occhiata, incapace di trattenere la curiosità. “Mi sono perso qualcosa?”

Greg scosse la testa. “Stiamo tenendo i media all’oscuro di alcuni dettagli. Non abbiamo nemmeno detto loro che gli omicidi sono collegati tra loro.”

“Quindi c’è una connessione definitiva?” chiese John corrugando la fronte. I loro rispettivi tè si stavano raffreddando su un lato del tavolo, dimenticati.

Greg strinse le labbra e si sforzò di incontrare lo sguardo interrogativo di John. “Le vittime,” disse lentamente, “avevano delle parti del corpo mancanti.”

L’espressione di John cambiò da incuriosita a inorridita in un secondo. “È impossibile,” disse, gli occhi sgranati e le mani serrate attorno al bordo del tavolo. “È rinchiuso, io so che è –”

Aveva controllato più spesso di quanto probabilmente avrebbe fatto una persona sana.

“È un emulatore, John,” lo rassicurò Greg, e John annuì, arrossendo. “Ma posso dirti che le vittime sono state uccise esattamente negli stessi giorni in cui Holmes ha ucciso le sue, con gli stessi organi rimossi. Questo suggerisce che il killer abbia conoscenze che vanno oltre le informazioni che abbiamo divulgato sui giornali.”

“Un emulatore molto ben informato,” disse John debolmente e srotolò le maniche a coprirsi i polsi come se avesse freddo. “È altrettanto bravo chirurgicamente?”

“No,” disse John, parlando mentre estraeva copie dei fascicoli dalla sua borsa. “Ma è migliorato con la seconda vittima. I tagli erano ancora visibilmente fatti da un principiante, ma sapeva quello che c’era da fare, come se stesse seguendo istruzioni.”

John distolse lo sguardo, per un momento le sue palpebre si irrigidirono. “Una buona conoscenza di Google,” mormorò.

“Cosa?” chiese Greg, ma John agitò la mano per farlo continuare, e Greg ubbidì. “Abbiamo la misure delle sue scarpe, un 43, e sappiamo che è un abile scassinatore.”

John impallidì un poco, massaggiandosi un lato della fronte. “Perché? Chiese dopo una pausa prolungata. “Perché copiare gli omicidi di Sherlock così accuratamente?”

“Non lo so,” disse Greg con tatto, spingendo i fascicoli verso John. “Sei tu quello con l’istinto emotivo.”

John rise silenziosamente, poi espirò e si pizzicò la radice del naso. “Non è così che funziona.” Si appoggiò allo schienale sospirando stancamente. “Non voglio farmi coinvolgere.”

Greg lo fissò, infine annuì e si riappropriò controvoglia dei fascicoli. “Capisco.”

John appariva molto più piccolo adesso, l’aria quasi spensierata che aveva quando Greg era arrivato era completamente evaporata. Trascinò più vicino la sua tazza e se la portò con attenzione alle labbra, ma poi la posò nuovamente senza aver preso un solo sorso. Era ormai freddo.

“Senti, John, dobbiamo vederci ogni tanto,” disse Greg, cercando goffamente ti spingere i fascicoli dentro la sua borsa mentre John lo guardava con occhi tristi. “Puoi venire qualche volta e cenare con me e mia moglie.”

Era un gesto privo di significato. Ora John avrebbe annuito, ma poi non avrebbe più telefonato, e Greg non avrebbe dato inizio a nessuna conversazione. Era solo una promessa fatta per mitigare il senso di colpa di Greg, così che potesse dire a se stesso di aver fatto qualcosa dopo essere andato a casa di John e avergli fatto rivivere l’esperienza che lo aveva spezzato.

John lo scortò fino alla porta. C’era una collezione di cartoline di compleanno sul camino in entrata, e Lestrade si bloccò quando le vide. Un’altra cosa che aveva dimenticato.

L’espressione di John era gentile. “È tutto okay, Greg.”

“No, John,” sospirò Greg. Abbassò la testa. “Sono un amico di merda, lo sai.”

“Lo so,” disse John pacatamente, armeggiando con le cartoline. Le sue mani si soffermarono sopra a una blu, le labbra serrate. Si voltò verso Greg. “Ci darò un’occhiata.”

“Davvero?” esclamò Greg, rovistando nella borsa alla ricerca delle carte.

“Sì.” John protese le mani e li prese, lisciando le copertine. “Ho solo bisogno di essere nella giusta predisposizione mentale.”

 

***

 

Greg rimase con lui in salotto, in silenzio, mentre John leggeva la documentazione delle prove. Sedeva raggomitolato sul divano, i piedi sotto di sé, con le carte sparpagliate in grembo, domandando solo occasionalmente chiarimenti a Greg. Ma anche dopo ciò, sembrava perso. Non aveva nuove idee.

“Come hai capito che era stato Holmes?” iniziò Greg, dopo che John aveva di nuovo assunto un’aria sconfitta.

“Non l’ho fatto,” disse John, assente. Poi alzò gli occhi. “Voglio dire, avevo un sospetto, quando ti ho telefonato. Ma sai, probabilmente non avrei fatto nulla se non mi avesse attaccato.” John si corrucciò e guardò qualcosa oltre la spalla di Greg. “Crede che sia più intelligente di quanto effettivamente sia.”

Greg annuì pensieroso, e gli occhi di John si strinsero.

“Cosa?”

“Forse…” iniziò Greg, torcendosi le mani. “Forse è una risorsa che potremmo usare.”

John ammiccò rapidamente, completamente frastornato. “Stai scherzando, vero?” chiese.

“È bravo in questo genere di cose,” protestò Greg. “Mi ha aiutato a risolvere tutti i crimini prima di essere imprigionato.”

L’espressione di John si incupì. “Parlagli tu,” ribatté, rimescolando i fogli per ricomporre i fascicoli.

“Non parlerà con me. Non vuole parlare con nessuno.”

Un muto nessuno tranne te aleggiò nell’aria. John si alzò velocemente e Greg si affrettò a fare lo stesso. “Serviva tutto a questo?” domandò John, quasi incredulo. “Una scusa prolissa per farmi parlare con la tua macchina risolvi-crimini?”

“Non devi farlo per forza.” Avvertiva un’irritante punta di senso di colpa guardando l’espressione contorta di John. “Se ci fosse la possibilità che parlasse con me, lo farei. Ma non c’è, e il prossimo omicidio è programmato tra quattro giorni e sono a corto di opzioni. Ti fidi di me?”

“Certo,” disse John, in un impeto di onestà. “Mi hai salvato la vita.”

Greg annuì, tentando di nascondere la sua sorpresa alla veemente risposta di John.

“Allora fidati quando dico che se esistesse un’altra soluzione non te l’avrei proposto.”

Gli occhi di John brillarono e lui batté le palpebre, si inumidì le labbra, e le sue braccia ricaddero lungo i fianchi. Stava ancora reggendo le cartelle dei casi. Greg capì che stava trattenendo il respiro mentre i secondi passavano.

“Va bene,” disse infine John con voce rotta. “Lo farò.”

 

***

 

Dopo un viaggio di un’ora in treno verso il Berkshire, John si ritrovò nell’ufficio ben decorato del Capo del Personale, seduto di fronte allo stesso. Strisciò la sedia a disagio, il suo sorriso educato svanì quando il dottor Culverton Smith raccontò il passato di Sherlock all’istituto. Era un uomo piccolo e untuoso. John avvertì immediatamente avversione per lui, ma mantenne i suoi gesti il più neutri possibile.

“Ricordo di essere stato emozionato quando entrò qui per la prima volta,” sospirò Culverton. “Non ero mai stato in grado di studiare qualcuno come lui prima. Ma è semplicemente impenetrabile da ogni test.”

“Anche lui è uno psichiatra, dottore,” puntualizzò John. “Probabilmente conosce già i test.”

“Sì,” mormorò Culverton, massaggiandosi la mandibola mentre guardava John. “Li conosce. È questo il problema, vede, è troppo sofisticato per delle vere indagini. E mi odia, ovviamente.” Culverton guardò cupamente la cartella di Sherlock che era abbandonata sul tavolo. “Sottolinea di continuo quanto mi trovi inutile.” Alzò lo sguardo su John. “Ma, è lui quello con la camicia di forza, mh?”

L’autocontrollo di John stava iniziando a vacillare.

“Ora, la sua visita è qualcosa di molto emozionante, davvero,” disse Culverton. “Di certo non si è dimenticato di voi.”

“L’ho notato,” disse John, con attenta calma.

“Sono molto interessato a qualunque effetto lei potrebbe avere sul suo carattere.” Culverton allacciò le dita tra loro e si protese verso John come un cospiratore. “Vede, sto scrivendo un libro –”

“Cerco di non pensare al carattere di Sherlock Holmes, dottore,” lo interruppe John con un sorriso tirato. “Ma mi piacerebbe tornare a casa prima di mezzanotte, e non vedo come tutto ciò possa essermi utile nella mia investigazione.”

Culverton si riappoggiò allo schienale, la sua espressione divenne acida. “Ciò che vorrebbe sapere prima di incontrarlo è che a Sherlock Holmes non importa nulla al di fuori del proprio divertimento.” Iniziò a sfogliare i fascicoli. “Una volta, ha lamentato un dolore al petto, così lo abbiamo mandato a fare un elettrocardiogramma. Stava sdraiato lì, il battito sul monitor mostrava settantadue, e lui afferrò l’infermiera, e le fece questo alla faccia.” Una fotografia fu lanciata attraverso il tavolo e una nausea istintiva strinse lo stomaco di John. Culverton osservò la sua reazione stranamente soddisfatto mentre scivolava indietro. “Per tutto il tempo, il suo polso non è andato oltre gli ottantacinque.”

John deglutì. Si sentiva sudato sotto i vestiti. Le palpebre di Culverton si abbassarono.

“Mi segua, signor Watson.”

John fu condotto attraverso vari corridoi, sentendosi sempre più intrappolato a ogni cancello d’acciaio che si chiudeva con un clangore. Culverton incedeva davanti a lui con passi corti ma veloci, parlando a voce alta mentre camminavano.

“Il signor Holmes si troverà nella sua stanza quando vi incontrerete. È l’unico posto in cui non è completamente immobilizzato e perciò il posto in cui ha più libertà di movimento. C’è una piattaforma scorrevole così che potrete passargli alcune cose, ma solo carta morbida. Non gli passi una penna, ha del carboncino per scrivere nella sua stanza.”

Entrarono in un’area ancora più inquietante. John si guardò attorno. Poteva sentire i rumori lontani dell’ospedale, metallo che sbatteva, ronzii striduli e voci rauche. Massicci inservienti pattugliavano i corridoi e alcuni avevano una mazza, altri pistole di tranquillanti. Guardarono John con interesse, passandogli accanto.

Nell’anticamera, Culverton richiamò un membro del personale, il quale stava guardando i monitor delle celle.

“Dimmock!” abbaiò.

“Sì signore?” disse Dimmock, ruotando sulla sua sedia girevole con gli occhi sgranati.

“Lascia uscire il signor Watson quando avrà finito.” E con un’ultima occhiata a John, la bassa figura di Culverton sparì in fondo al corridoio.

John si rivolse a Dimmock e si presentarono. “Sarà al sicuro,” disse Dimmock con un sorriso accennato, forse percependo la tensione di John. Gesticolò verso uno dei monitor che mostrava una sedia posta fuori da una cella. “Sarò qui a guardare.”

 

***

 

John desiderò di aver indossato le sue scarpe da ginnastica non appena le suole delle sue scarpe eleganti echeggiarono nettamente nel corridoio. Udì un brontolio dai detenuti lungo la fila di celle alla sua sinistra, ma mantenne gli occhi fissi sulla sedia solitaria di fronte a lui e si affrettò a raggiungerla, ma non così veloce da far trapelare panico.

Sherlock Holmes, avevano detto a John, si trovava in una speciale cella in fondo.

Al posto delle sbarre, la parte anteriore era fatta di vetro con buchi per l’aria. Apparentemente, nella sua vecchia cella Sherlock aveva la cattiva abitudine di afferrare il personale attraverso gli spazi tra le sbarre e morderlo, così questa era stata progettata per impedirgli il contatto. Come aveva detto Culverton, c’era una scatola scorrevole vicino all’estremità, così che cose come cibo e giornali potessero essergli passati. Era tutto incredibilmente sicuro, ma l’assenza di una chiara barriera rendeva John nervoso. Da certe angolazioni la cella sembrava non avere nessuna facciata.

Sherlock stava disteso immobile sulla sua cuccetta, la sua testa in direzione della parte anteriore della cella, senza muovere nemmeno un dito quando John si fu seduto sulla sedia e ed ebbe posato il fascicolo del caso sulle ginocchia. Qualcosa che avrebbe suscitato la curiosità di Sherlock.

“Suppongo che Lestrade pensi di essere molto intelligente.” Sherlock sembrava divertito. I suoi occhi erano ancora chiusi. “Mandare te, questo indento. Dimmi, è vero che hanno messo Gregson davanti a lui come Ispettore Capo?”

“È così,” disse John piano.

Sherlock rimuginò su quell’ultimo frammento d’informazione, poi emise un lungo respiro. “Peccato. Era così ambizioso, da giovane,” rifletté. “E quindi, eccoti qui.”

Non lasciarlo entrare nella tua testa, ricordò fermamente John a se stesso, mordendosi il labbro senza rispondere.

Sulla sua cuccetta, la figura snella, vestita di bianco di Sherlock si alzò e si stiracchiò ampollosamente come un gatto, prima di posare i piedi a terra e procedere verso il vetro. Appariva oltremodo in forma per essere un uomo costretto all’immobilità tutto il giorno, con quasi nessuno spazio per muoversi, ma forse lo avevano tenuto in esercizio. O forse Sherlock si era  semplicemente allenato usando il peso del proprio corpo. Gli era sempre piaciuto mantenersi in buono stato.

Gli occhi di Sherlock brillarono quando videro John, ancora tutto intero, la sua prima vera visione di quell’uomo dalla turbolenta fine della loro ultima collaborazione. Si appoggiò con casuale eleganza al vetro della cella, in modo da poter squadrare John dall’alto in basso come una specie di dessert. Il quale, probabilmente, lo era davvero, nella mente contorta di Sherlock.

John mantenne la testa alta e ricambiò lo sguardo.

“Perché non porti quell’apparentemente scomoda sedia un po’ più vicino?” suggerì Sherlock.

“Sto bene dove sono, grazie,” rispose John.

“Mi piace il tuo completo.” Sherlock sbirciò da un po’ più vicino, indugiando sulla gola di John. “Camicia, pantaloni ben coordinati e un cardigan di morbida lana. Sembri quasi inoffensivo.” Il suo sguardo ricadde sulle scarpe di John. “Scarpe stravaganti. Ti ho sentito ticchettare lungo il corridoio. È un appuntamento, John?”

John sostenne a fatica lo sguardo di Sherlock, ammiccando in fretta come se gli bruciassero gli occhi.

“Sei invecchiato a mala pena,” disse Sherlock pacatamente, inclinando la testa. “Sono così felice che tu sia venuto a vedermi. Per lo più vengono a farmi visita psicologi di second’ordine addestrati in università scadenti. Ottusi, idioti dilettanti, la maggior parte di loro.”

“O il dottor Smith,” aggiunse John, e Sherlock soffocò una risata.

“Non è repellente? Nient’altro che la caricatura di uno psichiatra alla ricerca disperata di una reazione come un maiale che annusa alla ricerca di tartufi.” Sherlock strinse gli occhi, non meno taglienti di quanto dovevano essere stati quando era stato rinchiuso per la prima volta. Era addirittura più onniveggente. “Ti ha mostrato la foto dell’infermiera Leighton?”

John inclinò la testa, sentendosi male al ricordo. Sherlock rise.

“La mostra a chiunque. Ama raccontare quella storia. Lo fa sentire importante.”

“Non è lui quello che le ha strappato la faccia a morsi,” scattò John, le sue mani strette a pungo.

Sherlock sorrise, ma non rispose. Inspirò profondamente, sollevando il petto, e chiuse gli occhi. “Il tuo odore è delizioso sotto a quello dello shampoo economico, John. Dimmi, hai ricevuto le mie cartoline di compleanno?”

“Le ho ricevute,” disse John, la voce stretta in gola. “Non c’è bisogno che continui a mandarmele.” Iniziava ad agitarsi. Gli faceva male il petto quando respirava ed gli risultava difficile rimanere calmo con Sherlock che incombeva su di lui da una gabbia di vetro. Non voleva che Sherlock sapesse quanto fosse nervoso, ma dal modo in cui Sherlock lo guardava, John sospettava che leggesse ogni sua mossa come un libro.

“I tuoi palmi sono più soffici, ma hai un callo sulla falangetta del tuo dito medio sinistro,” disse Sherlock, affascinato, i suoi occhi fissi sulle dita di John avvinghiate attorno fascicolo del caso. “Sei uno scrittore, ultimamente, al contrario, le mani allungate sono per i dattilografi.”

John strinse il fascicolo e gli occhi di Sherlock guizzarono sopra di esso. “Voglio che tu mi aiuti con un caso.”

Un sorriso compiaciuto si allargò sul volto di Sherlock. “Ah,” disse, la sua voce era un brontolio soddisfatto. “Già. Il tributo al mio atto.”

John era sorpreso. “Sai già del collegamento?”

“Non essere stupido, John. Certo che lo so.” Sherlock si spinse via dal vetro e iniziò a camminare; le mani sotto al mento. “Avevo i miei sospetti dopo la scoperta del primo corpo. Il secondo li ha confermati.” Si bloccò e fissò John. “Vuoi sapere perché sta scegliendo loro.”

John annuì. “Pensavo che avresti avuto qualche idea.”

Sherlock inclinò la testa di lato. “E perché dovrei dirtelo?”

“Potrei parlare al dottor Smith riguardo al ridarti tutti i privilegi che potresti aver perso,” offrì John. Sherlock sollevò un sopracciglio, e John si protese. “Ti lascerò seguire questo caso e quando sarà finita potrei mandartene alcuni di irrisolti per darti la possibilità di risolverli.”

“Noioso,” sospirò Sherlock, ruotando la testa all’indietro. I suoi capelli scuri gli scoprirono la fronte e John poté scorgere la pallida forma del suo profilo spigoloso.

“C’è qualcos’altro,” aggiunse John, come ripensamento. Lo sguardo di Sherlock si fissò su di lui. “Facendo questo, potrai scoprire se sei più intelligente della persona che stiamo cercando.”

Sherlock lo spianò con il suo sguardo indagatore. “Usando questa logica, tu credi di essere più intelligente di me.”

John scosse la testa, appianando gli angoli del fascicolo con gli occhi bassi. “No,” disse sinceramente. “So di non esserlo.”

Sherlock si appoggiò nuovamente al vetro, scrutandolo intensamente. “Per quanto sia lusinghiero sentirti dire queste cose, John, non credere di potermi persuadere a farti favori appellandoti alla mia vanità intellettuale.”

“Inizio a dubitare di poterti persuadere del tutto,” disse John. Sherlock ricambiò lo sguardo e John si arrovellò inutilmente il cervello. “E se ti raccontassi delle vittime –”

“Io non le conosco,” lo interruppe Sherlock. “Perché dovrebbe importarmi della loro morte? Perché tutti pensano che mi dovrebbe importare del fato di persone che potrebbero anche non esistere, per quanto mi riguarda?” Si immobilizzò, bloccandosi a metà delle proteste, la postura rigida come se gli fosse appena accaduto qualcosa di spiacevole. John lo guardò confuso quando Sherlock iniziò a camminare. “Vittime…” ripeté Sherlock, toccandosi le dita con le labbra. Si fermò e si voltò a fronteggiare John. “Devo chiedertelo,” disse. “Hai considerato il finale del gioco di questo killer?”

John allungò la schiena, insicuro. “Finirà quando lo avremo catturato?”

Se,” lo corresse Sherlock e il suo sguardo distante tornò a scrutarlo. “Potreste non riuscirci. E, ovviamente, ricordi come si è concluso il mio gioco.”

La realizzazione si fece strada in John come un coltello attraverso le sue soffici interiora quando colse ciò che Sherlock stava suggerendo. “Credi che il killer verrà a cercarmi?” esclamò.

“Finire ciò che ho iniziato…” rifletté Sherlock contro le sue dita. “Interessante.”

John si alzò, provocando un raschiare rumoroso quando la sedia strisciò sopra al calcestruzzo. Si voltò per andarsene e Sherlock lo guardò, gli occhi spalancati.

“Aspetta!” Sherlock andò verso la scatola scorrevole e la spinse verso il lato di John con fragore. “Passalo,” ordinò. “Fammi dare un’occhiata e ti dirò cosa ne penso.”

C’era qualcosa che lo agitava. John si fermò, girato a metà, a guardò il volto speranzoso di Sherlock. Non voleva trovarsi lì. Avrebbe preferito essere da qualsiasi altra parte, ma aveva un lavoro da fare. “Devi restituirmelo,” disse e Sherlock ruotò gli occhi e annuì.

“Sì. Ovvio. Ora dammelo.”

John si avvicinò alla cella, tenendo gli occhi fissi su Sherlock. Erano a meno di un metro di distanza, per la prima volta dopo cinque anni, separati soltanto da una lastra di vetro che avrebbe potuto anche non esserci per la sensazione di sicurezza che dava a John. Posizionò il fascicolo nella scatole, conscio dell’occhiata affamata di Sherlock lungo il suo collo.

“Magnifico,” disse Sherlock piano, quasi troppo silenziosamente per le orecchie di John.

John indietreggiò, studiando cautamente Sherlock attraverso il vetro. Sherlock fece scivolare la scatola all’interno della cella e prese il fascicolo, sfogliandolo con le sue agili dita. Passeggiava mentre leggeva, le sopracciglia aggrottate.

John si sentiva più a suo agio quando si trovava fuori dalla sua linea di attenzione tagliente come un rasoio. “Vuoi un po’ di privacy?” chiese, e Sherlock lo guardò per un breve istante.

“Al contrario,” disse, accennando alla sedia. “Siediti. La tua presenza fa meraviglie ai miei processi mentali.”

Leggermente frastornato, John si sedette obbediente, rimuginando su come commentare esattamente mentre Sherlock analizzava ogni più piccola parte del fascicolo del caso come un computer. “Ha preso alcune parti del corpo come hai fatto tu,” disse John mentre Sherlock sfogliava spassionatamente le fotografie. “Infatti, i casi erano fin troppo simili per un normale emulatore. Ha avuto delle informazioni.” Sherlock non diede segno di averlo sentito e dopo qualche minuto John parlò di nuovo. “Credi che anche lui le mangi?”

“Shhh,” brontolò Sherlock. “Parlare non è necessario.” E fece rimare John seduto in silenzio per quasi un’ora.

 

***

 

“Mi piacerebbe parlare delle vittime,” disse Sherlock, facendo sussultare John dal punto dove era sprofondato sulla scomoda sedia.

“Oh?” rispose John, sedendosi dritto. Allungò la schiena e controllò l’orologio. “Credevo che non ti importasse delle –“

“Non delle loro speranze e dei loro sogni e delle famiglie senza volto in lutto, o altro,” lo derise Sherlock. Era rimasto in piedi o aveva camminato durante tutto il tempo, muovendosi così attivamente mentre rifletteva. “Pensare a loro come oggetti inanimati. Voglio parlare del loro significato, in particolare in confronto con le mie.”

“Beh…” iniziò John, la mente vuota. Aggrottò la fronte. “Sono più giovani. E sta prendendo donne, mentre tu uccidevi uomini.”

“Guardale, John!” esclamò Sherlock, sventolando una foto della prima vittima che era stata fornita dalle famiglie. “Sono giovani. Sono bellissime. Sta uccidendo ciò che brama, ciò che desidera. Probabilmente molesta i loro corpi senza vita, anche se non sarebbe così stupido da togliersi i guanti. Mentre io,” fece una pausa, le labbra si contrassero agli angoli. “Io ho buon gusto.”

“Hai detto di aver ucciso degli stupidi senza speranza,” fece notare John.

Sherlock si pulì i denti con l’indice e gli sorrise.

John inghiottì. “Ascolta, è tutto molto interessante, ma ho bisogno di qualcosa di pratico.”

“Queste ragazze non hanno molta conoscenza di computer,” osservò Sherlock, muovendo le dita.

“Sherlock…”

Sherlock richiuse seccamente il fascicolo. Lo gettò nella scatola scorrevole e la rimandò indietro con violenza. John indietreggiò. “Le ragazze sono irrilevanti per il suo messaggio. Sta solo prendendo qualcosa che desidera mentre porta a compimento il suo reale scopo.”

John ammiccò, si alzò in piedi. “L’imitazione è un messaggio?”

“Dei più basilari,” rispose Sherlock, senza nessun’altra spiegazione. “Ti sei chiesto come facesse a sapere che sarebbero state da sole nei loro appartamenti, al momento in cui aveva pianificato di ucciderle? Sole in un preciso giorno?”

“Giusto, perché non c’è motivo di ucciderle in un giorno diverso dal tuo,” disse John, annuendo. “Non ne sono sicuro. Probabilmente va a caso.”

“Che pensiero originale,” osserva Sherlock seccamente, concedendo finalmente riposo ai muscoli delle gambe e rotolando sul letto. Appariva abbastanza rilassato, mentre John era tutto dolorante sulla sedia di plastica.

Raccolse i fogli, tenendo d’occhio la figura allungata di Sherlock. “È tutto qui ciò che hai scoperto?”

“Per adesso,” disse Sherlock. “Credo di averti dato un sacco d’indizi per iniziare. Se mi verranno altre idee te lo farò sapere.” La sua espressione sembrò diventare più tagliente e mostrò un sorriso veloce. “Magari un numero di telefono, cosicché possa contattarti direttamente.”

John sentì stringerglisi lo stomaco. Incontrò lo sguardo di Sherlock. “Vorrei che tu fossi sincero con me, adesso.”

Sherlock rise. “Non ti dirò niente di più preciso, John. E, per carità, sappiamo quanto il tuo cervello abbia bisogno di esercizio dopo la sua pausa forzata.” Sibilò la parola. “Porta più prove appena le trovi.”

“Credi che tornerò?” domandò John.

“Certamente.” Sherlock lo disse con semplicità, come se potesse chiedere a John di fare qualunque cosa volesse. “Se non fosse per te non sarei interessato.”

John si sentì in trappola, una sensazione crescente si faceva strada nel suo petto e un pensiero continuava a ripresentarsi, ancora e ancora. “Perché?”

“Consideralo il mio pagamento.” Sherlock ruotò pigramente la testa di lato, scavando nelle coperte con la punta dei piedi come un gatto. “Non prenderò nient’altro da te, John. Voglio solo la tua compagnia mentre lavoro su questo. Ho sentito dolorosamente la mancanza del tuo viso durante gli ultimi cinque anni.”

“Non posso dire che il sentimento sia reciproco,” disse John piano. Vide Sherlock sorridere.

“Mi piaci, John,” disse, gli occhi chiusi. “Non provi ad analizzarmi.”

“L’unica persona in grado di analizzarti sei tu stesso,” replicò John, e con ciò si allontanò sulle sue scarpe troppo rumorose.

  
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