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Autore: Arky    15/01/2013    1 recensioni
Questa storia ha partecipato al concorso sul forum di EFP “La rossa matrioska” indetto da Risa Slytherin Luna1991.
Per il prompt #87 della Maritombola di "maridichallenge" su LJ. Che, per inciso, è la citazione all'inizio XD
“Questo sogno che piace a tanti precisamente ha una forma sferica e tanti colori – quelli delle maglie, delle scarpette, delle fasce da capitano e dei cori in Curva. Questo sogno è un gioco.
Andrea ci ha creduto fino in fondo, a quel sogno, tanto da volerlo mettere da parte quando è riuscito a scorgere il marciume e l’ipocrisia che lentamente l’hanno consumato.
Marco, più semplicemente, ha creduto fino in fondo in Andrea.”
Genere: Fluff, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Angels.

"Le favole sono la cosa più importante della nostra vita. Anche da grandi si scrivono favole."
(Roberto Benigni)


Andrea e Marco sono anni che inseguono lo stesso sogno. Andrea e Marco sono anni che corrono insieme per le stesse vie dello stesso paesino che li ha visti nascere. Andrea e Marco sono anni che sono due banalissimi ragazzini innamorati.
Di cosa? Del loro sogno, appunto. Probabilmente irraggiungibile e dispendioso, ma bellissimo.
E’ uno dei tanti, uno di quelli che prima o poi hanno tutti i bambini dai sei ai dieci anni (qualcuno arriva ai quindici, altri ai trenta addirittura – c’è chi non smette neanche).
Questo sogno che piace a tanti precisamente ha una forma sferica e tanti colori – quelli delle maglie, delle scarpette, delle fasce da capitano e dei cori in Curva. Questo sogno è un gioco.
Andrea ci ha creduto fino in fondo, a quel sogno, tanto da volerlo mettere da parte quando è riuscito a scorgere il marciume e l’ipocrisia che lentamente l’hanno consumato.
Marco, più semplicemente, ha creduto fino in fondo in Andrea.

« Non ci riesco Marco. Non ce la faccio. »
Quel pomeriggio in piazza entrambi non potranno mai dimenticarlo.
Sono loro due seduti su una panchina, i pantaloncini di quando avevano quattordici anni che stringono intorno alle cosce e uno dei tanti palloni che condividono perso in terra accanto a loro. Le magliette sudate, stessi colori e numeri diversi, nomi scritti nella storia sulle spalle. Andrea ha anche la fascia da capitano al braccio, stretta e pesante come la fune a cui è fissata un’ancora. O un macigno.
Ha anche una lettera aperta tra le mani, la scritta fitta e piccola, uno stemma inconfondibile in alto a destra e una firma in fondo che mai pensavano di poter tastare sotto i polpastrelli. Ha gli angoli arrotondati e consumati, in alcuni punti è perfino stropicciata per quante volte è stata letta, nonostante sia arrivata da molto, molto poco. Marco può scorgere perfino una piccola macchia di caffè, in basso a sinistra, ancora fresca del dopo pranzo.
« Andre’. Andrea. Cosa stai dicendo? »
Il tono è calmo, misurato. Sembra che Marco si stia rivolgendo a un pazzo e non al suo migliore amico di sempre, non al finalizzatore di tutti i suoi cross, non al suo Capitano.
Il più grande scuote la testa a quella domanda, sbuffa irritato e lo guarda.
« Andre’! È l’occasione della tua vita. »
« E io non la voglio questa cazzo di occasione allora! Non la voglio! »
Il volto di Marco si chiude in un’espressione atona, le labbra morbide serrate in una linea fine e silenziosa, così diversa dalla dolce curva che le increspa di solito. I suoi occhi grigi sono freddi, duri come il diamante. Sembra trattenere il respiro, tanto è immobile.
Al contrario, Andrea trema incontrollabilmente. Le sue labbra screpolate sono schiuse per cercare di catturare più aria possibile, gli occhi verdi sgranati e disperati fissi nelle pietre dell’amico. Un paio di ricci ribelli, scuri come la cantina in cui si nascondevano da bambini, gli ricadono scompostamente sulla fronte umida.
A un certo punto Andrea non ce la fa più e chiude gli occhi, voltandosi di nuovo verso il centro della piazza e stringendo con forza i lembi di carta tra le sue mani, ancora una volta. Ci si vuole aggrappare, a quella cazzo di carta. Il sogno di una vita è scritto lì, realtà contro ogni più rosea fantasia, nero su bianco. Bianconero.
« Il sogno della tua vita. Della mia vita. Della nostra vita. Lo stai gettando nel cesso. »
« Marco, è già difficile… »
« Col cazzo! Puoi renderlo realtà! E’ tutto ciò che hai sempre desiderato, che desiderano tutti, e vuoi davvero mandarlo a puttane?! »
Adesso anche Marco trema, anche la sua voce risuona piena di rabbia nell’afa agostina che riempie la piazzetta deserta. L’ombra dell’enorme quercia sulle loro teste è l’unica grazia che li protegge dal caldo insopportabile del dopo pranzo. Le pietre che ricoprono il suolo, spettatrici grigie e immobili di quell’ennesimo atto della loro storia, rimandano i pensieri dei due ragazzi a tanti anni prima, quando quella stessa piazza era un po’ meno grigia e un po’ più popolata, l’albero che torreggia su di loro era ancora solo un piccolo insieme di rami sui quali arrampicarsi.
Marco può quasi sentire le risate di un Andrea bambino, sudato e felice, che corre dietro a un pallone con colori diversi in mezzo a ragazzini di due o tre anni più grandi di lui. Riesce a vederla rimbalzare, quella sfera magica che ha indovinato in anticipo il corso delle loro vite.
« Perché? »
Sembra porre la domanda ai fantasmi che sfilano di fronte ai suoi occhi, alle anziane scocciate che li rimproverano, ai vecchietti divertiti che li spronano a cambiare squadra “… ché sei giovane e fai ancora in tempo!”.
Andrea sospira, massaggiandosi le tempie con una mano, ha gli occhi ancora chiusi e sembra tremare meno. Un suo pregio, riflette Marco, è sempre stato l’autocontrollo, il riuscire a tenere domare presto se stesso e le proprie emozioni.
« Non puoi capire. »
Quelle parole colpiscono Marco come un goal al novantesimo, uno di quelli che segnano la fine non solo della partita, ma dell’intero campionato, della speranza. Un risolino amaro e stanco abbandona le sue labbra. Lui, a differenza del compagno, non è mai riuscito a dominarsi fino in fondo.
« Sono diciotto cazzo di anni che viviamo da più che fratelli, Andre’. Ti conosco meglio io di tua madre e mi vieni a dire che non posso capirti? »
Gli trema la voce, mentre pone quella domanda. Gli trema la voce di tristezza, disperazione, delusione.
Paura, anche. Paura di non essere stato mai davvero abbastanza.
Quando anche Andrea si gira e lo guarda, dritto negli occhi e sicuro, determinato, il respiro di entrambi si calma leggermente. Il più grande scuote la testa, ma la sua espressione non accenna al più minimo cambiamento, il suo sguardo resta duro, granitico.
« Va bene allora. Vuoi davvero sapere perché? »
E’ una domanda tanto ovvia che per un secondo a Marco viene voglia di ridere. Quello è un altro talento di Andrea che non riuscirà mai a spiegarsi: la capacità di regalargli, senza neanche accorgersene e magari solo per pochi istanti, la serenità.
Prima di riprendere a parlare fa un respiro profondo, stringe entrambi i pugni ed accartoccia ancora di più la lettera nella sua mano.
« Questo calcio è una merda. Tutto quello che è successo alla Juve è una merda. Io non ci vado in una squadra che sta in mezzo ai complotti. Aspetta fammi finire, chiudi la bocca un secondo. Hai voluto che parlassi e adesso ascolti. Tutte, tutte le squadre, grandi o piccole e di qualsiasi serie, tutte sono in mezzo ai casini. Scommesse di qua, doping di là, pressione e… non voglio averci a che fare. »
La voce è dura e amara, quasi irata. Quando Andrea finisce di parlare, negli occhi di Marco non c’è più traccia di rabbia o risentimento; a riempirli è solo una grande delusione. Il più grande però non si lascia scalfire minimamente, per quanto possa incrinarlo quello sguardo triste: ha preso la sua decisione.
« Era il nostro sogno. E no, non rispondermi che ha smesso di essere il tuo perché lo so che non è vero. Lo so e basta. »
Andrea sospira ancora, allontanando di nuovo gli occhi dall’altro. Marco dovrebbe smetterla di smuovergli le certezze e lo stomaco e creargli in testa domande ed emozioni. Dovrebbe davvero smetterla.
« Lo è ancora, Marco. Davvero. Noi senza questa cazzo di palla non sappiamo stare. »
Ridacchiano entrambi, a questa frase. Occhi verdi e grigi sono adesso persi in lontananza, corrono tra viuzze strette come fili di nylon e banchi di scuola, pietre lanciate sui vetri delle finestre e telefoni cellulari mai usati fino alla quarta superiore. Si immergono in sguardi bambini e urla capricciose e giochi felici. Quando il calcio era ancora solo un divertimento.
« Quindi rifiuti l’offerta e… ? »
Abbandonata anche la delusione (ma l’amarezza resta per quello che si è perso, per lo sport che durante il tragitto si è trasformato da bellezza in falsità) non rimane che fare la domanda fatale, quella che tutti si pongono prima o poi e a cui tutti devono dare una risposta, nonostante i continui rinvii.
A questo punto lo sguardo determinato di Andrea si fa ancora più sicuro e l’accenno di un sorriso fa capolino sulle sue labbra chiare. Si prende un secondo per rispondere, per assaporare la certezza sulla punta della lingua mentre appallottola la carta tra le sue mani.
« Farò l’arbitro. »
Lo dice guardando l’altro negli occhi, nella speranza che colga tutti i sottointesi e le ambizioni di quell’affermazione. Marco, ovviamente, capisce al volo. Aggrotta un sopracciglio e gli dà una spallata amichevole, che lo sposta di pochi centimetri sul legno consumato della “loro” panchina.
« Quanto te la tiri. Tu e i tentativi di cambiare il calcio. »
Scoppiano entrambi a ridere a quell’affermazione, scaricando finalmente la tensione accumulata durante tutta la conversazione. Non è la prima volta che affrontano discorsi del genere – impegnativi e pesanti e chi più ne ha più ne metta – ma preferiscono decisamente alzarsi e iniziare a palleggiare fin quando possono, fin quando la piazzetta è ancora tutta per loro e non ci sono bambini esaltati a urlare dietro a una palla.
Il non-troppo-calciatore e il finto-arbitro che avrebbe dovuto vincere una Champions League.

Marco aveva continuato, dopo quel pomeriggio. Nonostante anche secondo lui il calcio fosse ormai più uno show televisivo che un gioco, un divertimento, un’amicizia; lui aveva continuato.
Era salito e sceso di categoria parecchie volte, mentre gli anni passavano e le squadre cambiavano e Andrea si faceva sentire sempre meno a causa della lontananza. Perché Andrea, a differenza sua, non si era fermato a una mediocre Serie C due; lui era riuscito ad arrivare in alto.
Tra una partita di Champions e una di Campionato, un Mondiale e una Supercoppa Italiana, il tempo chiaramente è limitato. Le chiamate diventavano sempre più sporadiche e le birre insieme quasi un miracolo, un evento eccezionale quanto una finale.
Quelle sere le ricorda tutte, soprattutto le camminate a parlare per ore, perché è lì che si è accorto di guardare troppo le labbra di Andrea, o i suoi fianchi.
E nonostante questo, Marco aveva continuato. E proprio continuando si era reso conto di un piccolo dettaglio che da ragazzino non aveva mai colto: per lui non era il calcio a rendere bello Andrea, era Andrea a rendere bello il calcio.

Ha ventisette anni adesso, ne sono passati quasi dieci da quel pomeriggio sulla panchina e non sente il suo migliore amico – migliore amico? – da troppo tempo. Non lo vede da più di un anno.
Ha ventisette anni, fa il calciatore in Serie C uno dopo l’ennesimo cambio di maglia, è la sera di Natale ed è solo. Ed è triste.
Tornare a casa fa sempre piacere, soprattutto in quel periodo dell’anno in cui le pietre del paese vecchio sono ricoperte di bianco, il rumore dei passi è ovattato e soffice sulla morbida neve e dove la palla rimbalza in terra ci sono impronte schiacciate e lisce.
Sorride al ricordo, mentre risale la via che porta alla chiesetta in cui si sta già celebrando la Veglia di Natale. Le luci sulla sua testa sono colorate quasi quanto quelle appese ai balconi, che sono comunque le più belle, sebbene siano molte meno di quelle che riempivano le strade nelle notti della sua infanzia.
Un po’ di magia l’ha persa anche casa.
Mentre arriva nello spiazzale di fronte alla chiesa, i fiocchi ricominciano a cadere. Gli bagnano i corti capelli chiari, si impigliano tra le pieghe della sciarpa e si sciolgono a contatto del fiato, o sulle sue mani.
« Non è un’idea geniale girare solo in sciarpa e cappotto, con questo freddo. »
Marco continua a camminare, non capisce che la voce di Andrea è diretta a lui. Non capisce la voce di Andrea e basta.
« Marco, sto parlando con te. Oh. »
Quando si volta, quasi scoppia a ridere. Di fronte non ha un cristiano, ma un appendiabiti Ikea, uno di quelli che più roba ci appendi e più ce ne va.
Un sorriso increspa le sue labbra, istintivamente, ma non raggiunge il suo sguardo. « Non mi piace imbacuccarmi. »
Fa spallucce e non lo guarda negli occhi, cerca di concentrare lo sguardo in un punto lontano dietro la sua schiena. Ci riesce per un po’, fin quando Andrea non parla, e allora Marco si concentra sulle sue labbra.
« Lo so. Me lo ricordo. »
Sono screpolate e sempre più chiare, circondate da una barbetta ispida che non porta mai durante le partite, costretto dal regolamento a presentarsi liscio e pulito. È ancora più bello di quanto ricordasse.
Quei silenzi imbarazzati, comunque, non sono da loro, non sono da “Lucignolo e Pinocchio”, come li chiamavano da bambini – non sono cresciuti, Lucignolo e Pinocchio, ma loro sì.
Andrea fa un paio di passi verso l’amico – amico? – e lo guarda, senza alcuna vergogna. Lo squadra dalla punta dei capelli fino all’ultimo centimetro di doposcii. Ridacchia, quando scorge gli scarponi rossi.
« Hai ancora questi cosi? »
Andrea cerca di essere rilassato, ma Marco legge chiaramente la tensione nelle sue poche parole, il tremore leggerissimo del suo labbro inferiore, e il movimento incontrollato delle mani nelle tasche del cappotto pesante. È così poco da Andrea, l’insicurezza.
Fa di nuovo spallucce e tira su col naso, restando in silenzio. Non ha idea di cosa dire, o del motivo per cui l’altro sia tanto inquieto. Da quando sono diventati degli estranei? Bastava un passaggio a capirsi. Restano senza parole, a sciogliere i fiocchi di neve coi reciproci respiri, davanti a quella chiesetta che da piccoli detestavano perché strappava tempo al calcio.
« Come mai da queste parti? »
Marco non riesce neanche ad essere risentito, mentre pone quella domanda. Vorrebbe riuscire a infilare tra quelle parole così tanta amarezza e delusione da renderle più affilate di un coltello e più fredde di quei fiocchi di neve che adesso si stanno posando sulle labbra dell’altro. Ma non ci riesce, e invece incurva le labbra in un sorriso triste. Non può arrabbiarsi con lui, come non ha potuto dieci anni prima. Andrea lo guarda e il suo, di sorriso, svanisce. Sospira pesantemente e poggia la testa su una sua spalla, chiudendo gli occhi. Marco percepisce il suo respiro caldo sopra il cappotto, lo sente attraversare tutti gli strati di stoffa e arrivargli dritto sulla pelle. A questo non riesce a resistere.
Alza un braccio e circonda le spalle dell’altro, mentre anche la sua maschera finalmente si infrange in terra, come le palle di neve quando erano ancora bambini.
« Mi dispiace. »
Andrea sembra liberarsi di un peso, nel dire quelle due semplici parole. Sembra che si tolga dalle spalle anni che non ha e che si è preso addosso nella speranza di risparmiarli a qualcun altro, sembra rimettere insieme solo adesso i pezzi che ha perso per strada, pensando fosse meglio lasciarli lì e andare avanti. Marco in risposta stringe il braccio e gli dà un bacio sul cappello, una cosa che non ha mai fatto prima.
Deglutisce, quando Andrea di scatto si sposta e lo guarda, fisso negli occhi. Marco ricambia, deciso anche lui per una volta.
In quello sguardo vorrebbero riuscire a dirsi dall’inizio alla fine ogni parola che hanno sempre taciuto.
L’invidia e l’ammirazione, la speranza e la paura, la fiducia. Quello sguardo è come un urlo, che squarcia silenzioso la quiete di quella sera fredda e calda insieme. Sono solo loro due, la neve e quello sguardo.
« Lo sai che sono gay? »
Marco sgrana gli occhi, di fronte alla tranquillità con cui Andrea ha parlato.
Eccolo, di nuovo, l’autocontrollo, la sicurezza, la calma.
« Dopo questa scenata di disperazione, tu con tutta la tranquillità del mondo mi annunci di essere omosessuale. »
Andrea lo ha sorpreso, tra tutte le rivelazioni del mondo questa è sicuramente quella che aspettava di meno, quella in cui non ha mai neanche osato sperare.
Lui ha smesso di credere nelle favole dieci anni fa.
E comunque, non ricordava che la sua risata fosse tanto bella.
« Non eri quello che mi conosce meglio di mia mamma? »
Gli occhi di Andrea sono caldi ora, sembrano quasi felici anche con quella punta di sofferenza lì infondo a scolorirli. Potrebbero sembrare, in una remota fantasia, innamorata.
Ma lui non crede nella favole, quindi si limita a sbuffare, fintamente seccato.
« Lo sai, Marco. »
Il tono di Andrea è tranquillo, ma serio. Sta parlando con il suo migliore amico, con la persona di cui più si fida al mondo, non può che essere così. Gli mette una mano sulla spalla e si raddrizza, senza smettere di guardarlo negli occhi.
Marco lo sa, è vero, ma non ci crede. Marco l’ha letto tra le righe e negli spazi, al posto delle virgole e nei punti esclamativi che Andrea non usa. Quelle “scenate di disperazione” Andrea le ha sempre fatte solo con lui, ma prima era troppo inesperto e bambino per coglierne il motivo. Probabilmente neanche Andrea stesso aveva mai compreso appieno cosa fosse, quella sensazione fastidiosa all’entrata dello stomaco.
Probabilmente si stanno leggendo per bene, con gli occhi giusti, solo adesso.
« Cosa devo sapere, Andre’? Dopo un anno e passa ti ripresenti qui e io… sono in crisi. »
Una punta di stizza sfuma la sua voce, ma forse è solo tensione.
Lui non crede nelle favole.
« Aiutami, per favore. »
Andrea lo guarda ancora più intensamente, se possibile. Marco ha capito cosa vuole fare, glielo riesce a leggere negli occhi e nella bocca e nel leggero tremito delle spalle e ovunque. Riesce a leggerlo di nuovo, bene, meglio, adesso.
Senza dire una parola, il più grande si abbassa di quel paio di centimetri che li separano e alza con due dita il mento di Marco, si avvicina tanto che non passano più fiocchi di neve tra i loro visi. Un altro secondo di sguardi, respiri morbidi sulla pelle, e le labbra di Andrea trovano le loro gemelle.

Quella sera hanno ricominciato a credere nelle favole. Marco riesce a sentire ancora le mani di Andrea su di sé, il suo respiro caldo e le promesse. In quella sera di Natale hanno recuperato tutto ciò che avrebbero dovuto fare dieci anni prima, su una panchina in una piazzetta deserta. Magari allora le cose sarebbero andate diversamente, magari si sarebbero risparmiati dieci anni di telefonate sporadiche e birre insieme rare come finali di Champions. O magari avrebbero mandato tutto a puttane.
Ma mentre Andrea si unisce a lui, lo bacia e sussurrail suo nome su un letto che ormai ha il loro odore, solo una cosa riesce a pensare.
Il loro sogno, vincere una Champions, l'hanno realizzato.
Marco e Andrea. Andrea e Marco.
La Champions della vita.
  
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