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Autore: crimsontriforce    04/08/2007    6 recensioni
"Povera anima peccaminosa... ora, nessuno potrà più sconfinare in questo luogo. Se tu fossi vivo... se anche fosse possibile continuare a esistere in queste terre sigillate... un giorno, forse, farai ammenda per quel che hai fatto."
Così fu.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: so che le istruzioni italiane riportano “Wanda” come nome del protagonista e che è stata la traslitterazione ufficiosa del nome per anni, ma le mie, americane, danno “Wander”, che mi fa più cavaliere e meno pesce e soprattutto riprende meglio il riferimento voluto da Ueda…

Ho dovuto digerire il finale per un settimana prima di accettarlo; per più di un anno prima di scriverne. Dopo che il volo del falco ci allontana dall’Ancient Land, che ne è della risorta Mono e del neonato che può essere o non essere Wander? Il gioco tace come suo solito e fa bene, ma anche il fandom anglo-italo-crucco non collabora e quello non fa bene per niente. Inizio a metterci una prima pezza…






Nella terra sigillata





Anu orta veniya, serere krythe
praiar sol torrere solum.
Anu pluvia ire, serere krythe
praiar nebula torrere laimos.
(Anu Orta Veniya, Panzer Dragoon Orta OST)

Al mio Wander, indefesso cacciatore di lucertole RGB





Ad un anno iniziò a ricordare. Dapprima semplici immagini che la sua mente infantile potesse comprendere: sognava grandi montagne vive, camminava su sentieri nell’aria, sentiva attorno a sé una pelliccia ruvida che sapeva di terra.

A due anni si formò in lui l’incrollabile consapevolezza che la sua mamma, la figura abbagliante ed eterea che si prendeva cura di lui, fosse la persona più importante e preziosa del mondo – il fatto che fosse anche l’unica non c’entrava.
Era certo che la sua presenza non fosse scontata, che da un momento all’altro se ne sarebbe potuta andare lasciandolo solo al mondo e lui l’avrebbe cercata ovunque senza trovarla mai più. Quando questo terrore lo prendeva faceva del suo meglio per ricacciare indietro le lacrime: era un bambino silenzioso e tranquillo, che aveva esaurito tutta la sua irruenza troppo tempo prima. Ma la dea che gli stava accanto si accorgeva sempre della sua tristezza e lo prendeva in braccio, cullandolo teneramente. Lui si abbandonava a quegli abbracci e ne assaporava ogni istante di gioia intensissima, sapendo, da qualche parte in fondo alla sua coscienza ancora confusa, che un tempo aveva lottato perché qualcosa di simile potesse accadere di nuovo, lottato e perso. Ma se aveva perso, come potevano entrambi trovarsi lì…?

A quattro anni pronunciò la sua prima parola: “Mono.” Lei non gli parlava quasi mai, incerta sul cosa dire, come dirlo, forse anche timorosa di infrangere il maestoso silenzio di una terra che seppur morta manteneva intatto il suo orgoglio. “Mono”, disse, dopo averla fissata a lungo perso in ricordi più grandi di lui che diventavano più chiari con ogni giorno che passava. “Mono.”
Lei si voltò, incredula e commossa, trovando conferma di ciò che in cuor suo aveva sempre sperato. Si chinò per poterlo guardare negli occhi da pari e, finalmente, seppe come chiamare quello strano bambino con le corna che era nato insieme al suo risveglio: “Tu… sei Wander.”
Quattro anni prima, mentre giaceva immobile sull’altare del tempio, un demone aveva sussurrato al suo orecchio che il suo amato aveva stretto un patto proibito per riportarla al mondo, che una vita richiede una vita in cambio, che presto entrambi sarebbero stati liberi. “No!”, avrebbe voluto gridare, “Non farlo! Torna indietro, vivi!”, ma era morta, e la sua voce di spettro troppo tenue perché lui potesse sentirla.
Non seppe mai cosa fosse andato storto nel piano del demone, ma quando ebbe riaperto gli occhi non trovò né lui né l’amato, solo il fido Agro, azzoppato e sofferente, e un neonato supino al centro di una fonte prosciugata. Mono non era una sacerdotessa né un’incantatrice, ma era chiaro che quel bambino fosse frutto di un intervento divino (o umano? Le era sembrato di sentire degli zoccoli in lontananza, ma poteva essere stato un sogno… che uomo, in fondo, tranne un morto o un folle, si avventura fino alla fine del mondo?).
Che frutto, però? Era un dono per lei, il figlio che non avrebbero mai avuto? O era il suo amore, tornato a nuova vita per scontare la sua colpa? O forse ancora, in un atto di generosità, per permettergli di sfuggire a quella stessa colpa la divinità gli aveva restituito l’innocenza lasciandolo nel suo stato più originario e puro, con le corna a unico monito di quello che aveva compiuto? Non poteva saperlo. Crebbe il bambino con affetto, divise con lui il poco cibo e il primo rifugio precario all’interno del Tempio. Ma i dubbi sulla sua origine le impedivano di instaurare un rapporto più profondo: non aveva neppure osato imporgli un nome, “piccolo mio” lo chiamava, o “tesoro”, né tanto meno gli aveva confidato il suo, e le poche parole che gli rivolgeva sembravano perdersi nell’orizzonte infinito prima ancora di raggiungerlo, così dopo qualche tempo aveva smesso del tutto, limitandosi a cantare quando lavorava e il piccolo le era vicino. Altri l’avrebbero definita una cattiva madre, ma se ‘altri’, dopo lunghi mesi di viaggio e una scalata impossibile, avessero visto un filo di fumo solitario levarsi dal loro riparo e fossero riusciti a raggiungerlo li avrebbero visti serenamente intenti nelle loro faccende serali, schiena contro schiena, e si sarebbero accorti che a loro andava bene così.
“Mono”, disse dunque, dopo quattro anni di silenzio, e la ragazza si chinò e lo abbracciò, senza aggiungere altro – né parole né lacrime – a quel primo riconoscimento sussurrato.
In un altro tempo erano stati compagni di vita, e il loro legame si era dimostrato più forte della morte. Poi, come madre e figlio, erano stati uniti nel silenzio di un rispettoso affetto. Superato anche quello, restava solo l’amore. Non questo o quell’altro amore, non sentimenti creati da e per persone comuni che vivevano vite comuni. Si erano gettati tutto alle spalle: restavano Wander e Mono, al confine del mondo, in una terra sigillata.

A otto anni, però, iniziò a sentire pesante su di sé un senso di sconfitta. Era cresciuto forte e robusto come non era mai stato nella sua prima infanzia, un altro ricordo del tabù infranto: era stato Dormin ad avergli dato forza, e Dormin ancora risiedeva in lui, sopito, sigillato… il bambino, comunque, metteva a buon frutto le sue capacità, qualunque fosse la loro origine, e si gettava anima e corpo in tutto quello che era necessario fare per poter vivere.
Non di rado capitava che finisse le faccende che gli competevano, e qualcuna in più, ben prima del calar del sole, e in quei giorni si accoccolava in un angolo, sul prato, sopra un muretto, e osservava Mono. Restava immobile e zitto come una delle grosse lucertole che amava cacciare, arrivando perfino a trattenere il respiro finché ci riusciva, e a lei ricordava i momenti in cui, quando era più piccolo, abbracciandolo sembrava scacciare ogni sua tristezza. E non a torto, perché i pensieri del piccolo Wander, anche se più coscienti, erano del tutto simili: gioia e pace nel vedere compiuto ciò per cui si è dato tutto, felice di aver pagato un prezzo anche troppo alto.
La pace, però, non era completa. Mentre la ammirava, splendida nella luce intensa del pomeriggio, guardandola tessere o preparare la poca carne che avevano per essiccarla, Wander non poteva fare a meno di pensare: non era quello l’epilogo in cui aveva sperato, quando aveva rubato la spada sacra del suo villaggio e si era messo in viaggio verso l’origine delle leggende.
Non per sé, lui era stato disposto a morire, che fosse contro un Colosso o contro i guerrieri che gliel’avevano portata via, non importava. Era per lei che aveva immaginato sempre una nuova vita, una vita lunga e ricca come quella che le era stata strappata da una profezia ingiusta. Non certo un’esistenza da eremita come quella cui l’aveva involontariamente obbligata. Mono meritava di meglio, meritava il mondo in ginocchio al suo cospetto, pronto ad esaudire ogni suo desiderio… ma Wander si sarebbe accontentato di accompagnarla per mano fino alle porte di un villaggio e darle un ultimo rispettoso abbraccio sullo spiazzo erboso fuori dalle mura. Da allora in avanti si sarebbe limitato ad osservarla dai margini di un bosco, pago della sua serenità quando fosse scesa al fiume assieme alle donne che considerava amiche o si fosse attardata a raccogliere fiori in un prato candido come le vesti che amava portare. Quello gli sarebbe bastato.
In verità nelle sue prime fantasie, quando in sella ad Agro avevano attraversato decine di villaggi l’uno uguale all’altro, al ritorno tutti e tre vi entravano trionfali e iniziavano una nuova vita insieme, e lui e la sua amata infine si sarebbero promessi. Agro però era morto, e nessuna guardia avrebbe lasciato entrare un bambino con le corna. Nessun lieto fine. Ma almeno…

L’idea gli venne in un giorno della stagione fredda in cui stava trasportando dell’argilla dal fiume alla loro casa. Il materiale era appoggiato su di un rudimentale carretto, e Wander lo trainava con una certa lena, bagnandone di tanto in tanto il contenuto. Wander seguiva con lo sguardo i falchi, immaginando di aggrapparsi a uno di loro e farsi portare lontano, e proprio quello che stava seguendo prese una corrente ascensionale nei pressi del fiume e planò verso ovest, le pianure e la costa. La costa che scendeva a picco su un mare rabbioso (ricordò il sibilo del vento, la vertigine, un urlo mai più ripetuto. Poi più nulla), scogli invalicabili, tranne che, forse…
Quando, un tempo, la luce della sua spada aveva indicato l’occidente più lontano, una deviazione sbagliata l’aveva portato in vista di una piccola spiaggia, ed era certo di poter ritrovare la strada. Doveva fare in fretta, prima che per lei diventasse troppo gravoso. Smise di guardare i falchi e si concentrò sulla nuova impresa.
Io ti salverò, si disse.

Quella sera, sorseggiando un brodo bollente, Mono si sentì osservata con maggiore intensità del solito. Rivolse un’occhiata interessata al bambino e, con un cenno della testa, gli chiese se e cosa lo preoccupasse.
“Mono…”, iniziò lui, ma non terminò la frase, e si limitò a risponderle con un sorriso triste. Lei ricambiò il sorriso e non indagò oltre, rispettando qualunque turbamento l’altro stesse provando. Prima o poi si sarebbe deciso a parlargliene, quando il momento fosse stato adatto. Era sempre stato tipico di Wander, nei ventidue anni in cui l’aveva conosciuto, e non l’avrebbe certo cambiato con una domanda in più. Scrollò le spalle, gli strinse forte la mano per dirgli che gli sarebbe sempre stata accanto e tornò al suo brodo.

Nei mesi successivi, quando usciva a fare legna, aveva cura di cercare sempre almeno un tronco dritto e lasciarlo, prima di tornare a casa, in un anfratto vicino al Tempio.
Quando i lavori non lo portavano lontano da Mono, invece, osservava con attenzione ogni movimento delle sue mani per imparare d intrecciare corde robuste.
Se serviva argilla ne teneva da parte un po’ e, di notte, creava vasi rozzi e asimmetrici che riempiva dell’acqua di fiume e portava nel suo posto segreto, assieme alla legna.
Nelle rare volte in cui era Mono ad allontanarsi, prendeva dei pezzi di carne e frutta essiccata dalla loro riserva e correva a metterli in uno dei suoi vasi, il primo, che aveva adibito a quello scopo. In quelle sere mangiava meno, così che il suo furto non ricadesse su entrambi. Si chiedeva sempre se lei notasse quelle piccole sparizioni, e probabilmente era così, ma non gli disse mai nulla, e anzi sembrava sempre rivolgergli un sorriso più radioso del solito.
Quando aveva tempo per sdraiarsi sul prato e lasciar correre l’immaginazione, invece, pensava al giorno sempre più vicino in cui le avrebbe mostrato l’esito delle sue fatiche e sarebbero salpati insieme, sulla piccola zattera che stava costruendo, dirigendosi a nord, verso il mondo. Ogni tanto fantasticava su cosa avrebbero incontrato se fossero andati a sud, oltre la fine… gli sarebbe piaciuto, ma non viaggiava solo, e lo scopo era un altro. Poi si soffermava a guardare le nuvole, soddisfatto di aver così giocato il destino per la seconda volta, e senza infrangere legge alcuna, umana o divina che fosse. Non doveva temere vendette né pericoli, tranne quelli che, da sempre, il mare riserva ai viaggiatori.

Quando ritenne che tutto fosse pronto la stagione era ormai calda, e con un certo timore annunciò a Mono che si sarebbe allontanato per parecchi giorni, accampando la scusa del cercare nuovi terreni di caccia ad ovest. Non erano mai stati separati per più di un giorno o due, e sentì una stretta al cuore al pensiero di lasciarla sola, senza la sua protezione. Dovette forzarsi a seguire quello che gli diceva la mente invece del cuore, perché, pur con tutte le sue ansie, nella loro terra desolata non c’erano davvero pericoli che potessero minacciarla, e la sua protezione non serviva. Si sarebbe dovuto preoccupare solo della tristezza che l’avrebbe colto nel coricarsi a terra, la notte, senza saperla vicina, e niente più. E una simile tristezza era ben poco prezzo per vedere la gioia che si sarebbe dipinta sul suo viso quando avesse visto la chiave per la loro libertà, pensava.

Così, alle prime luci dell’alba, la svegliò con una carezza per salutarla e partì.
Gli servirono quattro giorni solo per trasportare i materiali, poiché la spiaggia distava molte ore di cammino, e, per quanto la sua mente fosse adulta e la sua forza straordinaria, esse risiedevano pur sempre in un corpo che non aveva passato i dieci anni. Almeno altrettanti ne impiegò per costruire la zattera, legando con cura il legno, intagliando un remo, facendo spazio per tutte le provviste. Poi studiò le correnti, per quanto gli fu possibile con i suoi scarsi mezzi e competenze. Infine varò la piccola imbarcazione, con un guizzo di gioia pura nel vedersi galleggiare in mezzo ai flutti. Tirò un sospiro di sollievo e fece qualche prova di navigazione vicino alla spiaggia, poi provò a remare verso il mare aperto e osservò la costa da una nuova prospettiva. Alla sua destra le scogliere che conosceva così bene assumevano tutt’altro aspetto, mentre a sinistra, dove si sarebbero diretti, c’era solo roccia ancor più impenetrabile, montagne a strapiombo sul mare, ma in cuor suo era certo che non sarebbero durate per sempre, e che una volta arrivati a nord dell’inizio del Ponte li avrebbe attesi una spiaggia di sabbia bianca e fine, su cui distendersi e guardare insieme le stelle per un’ultima volta.
Quando fece ritorno dal largo del mare e delle sue fantasie era quasi sera, e assieme alla soddisfazione per l’opera compiuta sentì calare su di sé tutta la stanchezza di quei giorni che l’entusiasmo aveva sempre tenuto a freno. Portò in secca la zattera, lasciandola al riparo di una rupe, e si addormentò senza preoccupazioni né sogni.

Sono tornato, annunciò col rumore dei suoi passi, certo che Mono li avrebbe sentiti. Difatti la vide uscire e attenderlo sull’uscio, sempre splendida agli occhi di Wander, forse ancor più da quando le prime rughe e i capelli bianchi avevano iniziato ad incorniciarle il viso.
Nell’abbraccio che seguì le parve di sentire un’urgenza, un qualche avvenimento importante che il suo cavaliere era restio a comunicarle. Non sembrava triste, però, e decise semplicemente di aspettare mentre tornavano alla loro intesa fatta di silenzi, vicinanza e lavoro comune.

“Mono, vieni con me”, disse infine, poco prima di addormentarsi, con la voce già impastata dal sonno.
“Ti seguirei fino alla fine del mondo e oltre”, rispose lei sorpresa. D’istinto aveva ripreso un loro vecchio modo di dire che apparteneva a un’altra vita, un altro tempo. Anche Wander doveva essersene accorto: lo vedeva sorridere illuminato dalla luna.
“Alla prima ci siamo già”, disse, “e il secondo non mi interessa. Ma domani vieni con me, e porta ciò che ti è caro.”
“Domani verrò con te”, acconsentì prima di cedere al sonno.

Partirono il giorno seguente, come Wander aveva desiderato. Mono scelse di prendere solo acqua e frutta per il viaggio: ciò che le era caro la stava guidando per mano, non c’era rischio di lasciarlo indietro.
Presto superarono quello che era stato il limite delle sue esplorazioni. Non si era mai arrischiata ad allontanarsi troppo con un bambino che dipendeva da lei, e quando lui era stato abbastanza grande gli aveva lasciato volentieri tutte le incombenze che richiedessero dei piccoli viaggi, e che lui sembrava svolgere così volentieri.
Mentre camminavano su prati e colline a lei sconosciuti, la sua guida indicava, di tanto in tanto, dei punti più o meno lontani all’orizzonte. Non diceva altro che poche secche parole che indicassero con maggior precisione il luogo che aveva in mente: “Oltre il burrone”, spiegava, o “Nel lago prosciugato”. Mono dapprima non capiva, ma dall’amarezza nella voce non poteva che riferirsi ai luoghi dove per secoli avevano vissuto i Colossi di cui era così restio a parlare… prima che lui li sterminasse in nome del suo amore. Era giusto che anche lei sapesse e li onorasse. Provò il desiderio di vederli tutti, o quello che ne era rimasto. Uno, l’unico che conosceva, era morto accanto al fiume, e in tutta la sua vita non aveva mai trovato parole per descriverlo.

E un altro ne vide, in una caverna ricoperta di sabbia. Restò attonita ad osservarne i giganteschi resti mentre Wander offriva una preghiera alla sua anima, o a qualunque cosa fosse l’essenza più intima di un sigillo vivente.
“Siamo quasi arrivati”, le disse poi, evitando del tutto l’argomento.

Il ripido sentiero che li attendeva fu la parte più impegnativa del viaggio, ma Mono quasi non ci fece caso, ancora persa nel ricordo dei resti della leggenda che avevano appena visto. Solo il profumo del mare e lo stridio dei falchi la riportarono alla realtà, quando ormai la discesa era quasi finita.
Chiudi gli occhi, ti prego, le chiese con un gesto della mano. Il sole era quasi calato sul mare davanti a loro.
Lei obbedì e si fece guidare docilmente sulla spiaggia, ascoltando il rumore del vento e delle onde. Non lo sentiva da una vita. Era felice.
Quando sentì le dita di Wander carezzarle le palpebre seppe di poterli riaprire e si trovò di fronte a una piccola zattera, meravigliosa nella sua semplicità. Ecco il segreto di quei mesi, e che segreto impegnativo era stato!
“Per te”, disse semplicemente lui, e con il braccio indicò la costa che saliva dritta verso nord-ovest. Per la tua vita. Non fallirò più.
Mono lo abbracciò e lo strinse forte a sé, cercando di trattenere la commozione. Così si spiegava non solo il segreto, ma tutti gli sguardi, le riflessioni, l’ansia che non era mai riuscita a comprendere. Se solo le avesse parlato… Lo stringeva a sé e scuoteva la testa, e Wander, che dapprima aveva interpretato quel gesto come espressione di immensa gioia, si sentì rodere da un dubbio.
“Partiamo domani”, disse per scacciarlo.
No, fece cenno lei con la testa.
“Come? È… è per te…”, rispose lui colto da improvvisa tristezza, quasi panico.
Tu hai le corna, indicò. “Non potremmo stare insieme.” Povero, povero Wander. Tormentarsi così per lei… per nulla.
Ma tu no!, lasciò intendere con lo sguardo. Sei normale, e sei pura. Puoi vivere.
“Io sto vivendo”, rispose a parole per dare maggior forza alla sua posizione.
Stai vivendo in modo ingiusto, e la colpa è mia.
“Wander… io non ho più posto nel mondo che desideri.” Per me, per te, per me come tuo riflesso. “Sono morta una volta,” e non te lo ricorderei se non volessi essere certa che tu mi capisca. Fino in fondo. “Non c’è spazio per i morti nel mondo degli uomini, non più di quanto ce ne sia per i bambini con le corna. La loro vita non è la mia vita, non lo è più. E non per loro scelta… per mia scelta.”
Per tua scelta?
“Del tutto mia. Non sono più parte di quel mondo, il nostro posto è qui. Il tuo gesto d’amore è stato immenso e ti ringrazio, ma… no.”
Wander si fermò a riflettere. Quando si sentì pronto alzò il viso, incrociò il suo sguardo e le sorrise.
“Ti seguirei fino alla fine del mondo.”

Tornarono a casa mano nella mano, al confine del mondo, in una terra sigillata.





Anu Orta Veniya Serere Krythe
Praiar Vont Krystallos Solum
Anu Pluvia Ire Serere Krythe
Praiar Hals Krystallos Kore Hoster


   
 
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