Il destino dei Re
“Ninfa.” Capitolo nono.
“Allora, come sta?!”
Il medico di corte uscì
dalla stanza con viso cupo. Sua Maestà la regina non stava bene.
Da quando il Generale Apyos era stato impiccato nella piazza della città,
rifiutava il cibo spesso e il bel viso roseo si era fatto cianotico; si diceva
soffrisse di incubi che la tenevano sveglia la notte riempiendo di urla
strazianti i corridoi, che scostasse le persone e persino la vicinanza del suo
amato Pelope la infastidiva. Neanche le dolci risate di Melibea,
riuscivano a distogliere i suoi occhi dai pensieri che le annebbiavano la
mente.
I suoi figli erano
l’unica cosa che rubava al suo viso il sorriso; ma Atreo venne fatto
allontanare dalla madre per iniziarlo alle pratiche di combattimento corporale,
agli studi e all’educazione di Re. Il piccolo Tieste cresceva a vista d’occhio,
ma le sue poppate contribuivano a svuotarle il corpo già scarno e per questo si
trovò una balia che sostituisse la madre.
L’unica presenza che
richiedeva con ostinazione era Alaya, la sguattera
dalla mano monca.
La giovane si era
rilevata con grande sorpresa servizievole e amorevole nei confronti della donna
che l’aveva condannata, a vita, all’umiliazione di servire la corte con una
sola mano, per questo Pelope non si fidava di lei e gradiva assai poco l’assidua
presenza accanto alla regina.
Inoltre era dotata di
una grande sapienza sulle arti magiche e questo la rendeva deliziosa agli occhi
di Sua Maestà la Regina, ma una megera agli occhi di Sua Maestà il Re.
“Sua Maestà ha un male che non può essere curato con
i miei preparati.”
“Di che male si tratta medico, non tirarla per le
lunghe.”
“Ha il male dell’anima, Maestà. Ha subito un forte
choc, dobbiamo darle il tempo di riprendersi.”
“Quanto tempo?!”
“Giorni, mesi, anni.. nessuno sa con certezza quando
si smette di stare male.”
Il Re abbassò lo
sguardo disperato. “Non ho mesi
davanti, tanto meno anni!”
“Mio Re, farò tutto ciò che ho in mio possesso per
aiutarla, posso garantirlo.”
“Che sia così, medico.”
E se andò frusciando la
clamide.
Ippodamia era stesa
a letto, in un sonno artificiale. Si avvicinò alla coppa accanto a lei e
l’annusò; latte di papavero, l’elisir del dolce sonno.
Non la svegliò, ma
prese la sua mano esile come un giunco e la strinse forte nella sua; doveva
riprendersi, era giovane, forte e bella.. ed era la Regina di Pisa, chi avrebbe
vegliato su di lei quando sarebbe partito per la guerra?!
“Mio Re..”
sussurrò dopo qualche ora, aprendo
gli occhi; Pelope alzò il capo dalle loro mani intrecciate e le sorrise.
“Vegliavo sul tuo sonno.. e tu hai preso il mio!”
“Non dovresti stare qui, i tuoi doveri ti richiedono
presente.”
“Prima la tua salute e poi i miei doveri.”
“Vorrei che fosse così..” Guardò lontano, verso la finestra; il sole era alto
e c’era molta luce. Aveva confuso le notti con i giorni e non aveva più coscienza
ormai di quanto avesse dormito. “Non fraintendere, sei un uomo premuroso, ma presto
le tue guerre ti porteranno via da me e a quel punto la mia salute, le mie
nubi, i miei pensieri saranno lontani da te.”
“Mi rechi offesa a pensar questo, mia Regina.” La guardò contrito, lasciando andare le sue mani. “Quando le prese
si assesteranno e i venti saranno più tranquilli, tu mi raggiungerai. Avevo già
pensato a questo, te ne avrei parlato.”
“E il regno?! Chi baderà al regno?! E i tuoi
figli?!” Tirò le coperte fra le
mani strette a pugno. “Noi non combattiamo più per la stessa guerra
Pelope, la nostra l’abbiamo già vinta!”
“Non farmi questo Ippodamia,
non chiedermi di scegliere fra te e il mio destino. Vinceresti tu. Tu sei più
importante di tutto il resto, ma il mio destino è stato scritto e tu eri fiera
di compierlo insieme a me. Sapevi cosa ci attendeva, cosa è cambiato?! Sono io
che ti chiedo di non lasciarmi solo, adesso. Ciò che sono diventato lo devo a
te e al tuo coraggio. Ti prego combatti ancora con me, sostienimi perché io non
sono niente senza di te.”
Gli occhi della donna
si velarono. “Lasciami riposare adesso, ti prego va via.”
“Ma..” Ippodamia
scosse il capo e Pelope capì, fece riverenza e sparì. Oltre le mura, per i
corridoi, la sentì singhiozzare.
“Pazienta mio Re.”
Alaya passò svelta con un anfora tracotante d’acqua
bollente, ma si fermò non appena lo vide. “La regina è forte. Guarirà.”
*
“Assomigli molto alla mia balia, Alaya.
Anche lei aveva occhi come i tuoi.” Il
moncherino della serva urtava la schiena di sua maestà, ogni qualvolta l’altra
mano si faceva spazio sulla pelle morbida. La sguattera era guarita, a
sostituire l’orribile mutilazione le era stato messo una coppa d’oro piccola e
rigirata. Era quasi graziosa, se non fosse che l’ordine di sfregiarla lo aveva
dato lei. “Quanti
anni hai?!”
“Credo abbiamo la stessa età, sua maestà.” E aggiunse abbassando
il capo, “non ho mai conosciuto mia madre.”
“La mia è morta prima che ricordassi. Non c’è
vergogna in questo.” Le sorrise,
facendosi avvolgere in un lungo telo di lana. “Apyos ha fatto il tuo
nome prima di morire.” La serva tremò,
facendo scivolare fra le mani la veste pulita.
“M-mi dispiace sua Maestà. Ne prendo subito
un’altra.” E scappò verso le ceste
con gli abiti freschi.
“Non devi avere paura Alaya,
io mantengo la parola data. Non ti verrà fatto più alcun male.” La stoffa calò lungo il corpo, rappresa in vita da
un cordino rosso e oro. “Ma a me piace la verità, qualunque essa sia non
dovrai avere riserve con la tua Regina.”
Dagli occhi della
ragazza scesero due lacrime. “Era mio padre.”
Mia soffiò triste fra
le labbra contrite. “Triste è la giustizia del Re, perchè
nelle sue mani è il potere.”
*
“Come sta la nostra Regina?!” Atreo e Nikandrios erano
nella sala del concilio insieme a sua maestà; si andavano assestando le prime
strategie che li avrebbero portati al di là della terra d’Elide, sul continente
Asiatico a riconquistar terre e tesori perduti. Prima di tale passaggio era nei
desideri di Pelope assoggettare tutta la penisola Morea
al suo comando, formando agglomerati come Olimpia, dove il tempo trascorreva
fra i ricchi mercati e la divinazione degli Dei. Il Re sognava in grande e lo
faceva quanto bastava per tutti gli altri.
“Nessuna novità a riguardo, aimè.” Si accomodò sullo scranno e indicò le pergamene sul
tavolo. “Generale Nikandrios,
illustrami i tracciati ed elencami nuovamente il numero di volontari che hai a
tua disposizione.”
“Attraverseremo l’Elide con cinquecento uomini verso
sud in Messenia e Laconia
risalendo per l’Argolide e tagliando di netto la
penisola passando per Tegea, in Arcadia. A quel punto risaliremo verso la costa
in Acaia e faremo saggiare la nostra la lama a Patrasso, se occorrerà, dopo di
che dritti per Corinto a est dove ci attenderanno le navi che la porteranno
nelle terre che le spettano per diritto e nascita, mio Re.”
“Un messaggero fa sapere da Tebe che tuo cognato è
disposto ad affiancarti un plotone di rinforzo.” Atreo li interruppe armeggiando con i primi accenni
di una folta barba che avrebbe preso posto sul suo viso terreo. “Ti
aspetterebbe a Corinto, prima di prendere il largo.”
“Ringrazialo, ma declina il suo aiuto.” Pelope si mosse nervoso sullo scranno. “Non voglio render merito a nessuno
dei miei successi.”
“Duecento uomini Pelope, fossi in te ci penserei
almeno un po’.”
“Duecento uomini da buttare via e mia sorella giace
pietrificata in una valle di nessuno perché il Re di Tebe non interferisce con
la giustizia divina! Dovrei ucciderlo con queste mie mani!” Triste era la storia di Niobe e nessuno aveva voglia
di ricordare quanto ella dall’alto della superbia della sua casata, si vantò di
esser bella e feconda più della Dea Latona, invitando
il popolo a venerare lei anziché una donna capace di dar al mondo due soli figli. Due soli figli il cui
sangue però era lo stesso di Zeus e che gli avevano annientato la bella prole
per punizione, trasformando lei in una roccia di pietra, tanta la paura della
loro crudeltà.
“Era anche mia sorella.” Ma Atreo lo tenne per sé. Questa era la guerra di
Pelope. Il destino di Pelope.
Lo avrebbe affiancato e
avrebbe combattuto le sue battaglie, ma il solo ruolo che gli spettasse era
quello di tener caldo un finto trono nelle remote terre che diedero i natali ai
loro progenitori.
La gloria, quella fatta
dell’eterno riecheggiare di nomi, beh quella gloria, spettava solo ed
unicamente a Pelope.
Alla fine del giorno il
Re si sentiva il capo dolere, dal peso della corona e dal peso delle
responsabilità.
Annegò i suoi pensieri
in una coppa di vino, nelle sale private dove la moglie giaceva a letto in
compagnia della sua schiava e dei suoi unguenti per calmarle il sonno; si
sentiva frustrato e incompreso da quella donna ora ostinata e attaccata alle
regole antiche della sua casa.
Che ne era stato di sua
moglie?! Dove era finita la donna che mosse il coraggio con tanta astuzia e
vigore da farlo salire al trono?!
Non aveva risposte.
Solo domande. Gettò la coppa lontano, in un moto di rabbia; il vino lo aveva
reso d’un tratto più ansioso.
Ma non era tutto.
Sentiva il suo nome
sussurrato da una voce ovattata e flebile, un richiamo alla sua attenzione.
Una voce interna o
forse il troppo vino, convenne, ma troppo chiara per essere solo immaginazione.
Si alzò dunque,
portandosi alle grandi finestre della stanza; la vista impeccabile dava sui
boschi di Pisa.
Un lampo di luce sferzò
nel buio. Non era una stella; acuì la vista e si stupì nel notare che la luce
aveva la forma di un corpo flessuoso e dorato.
Il guizzo sembrava
giocasse, attorcigliandosi ai tronchi deli alberi, impaziente; era chiaro,
doveva uscire e scoprire cosa fosse.
Sentì le donne dalle
pareti attigue ridere e bisbigliare e ne approfittò per dileguarsi; coperto il
volto dalla clamide, deviò i percorsi protetti dalle guardie e imboccando un
vicolo che ridiscendeva nei cunicoli della città, si ritrovò fuori dalle mura
del palazzo. Superò silenziosamente la piazza principale e le case più ricche
nate dopo la ricostruzione e si avviò verso la radura; il bagliore gli fece
strada, ed avvicinandosi si mostrò dai contorni più tremolanti e quasi
impercettibile, tanto da farlo dubitare, ma proseguì.
Qualcosa di attraente
rifulgeva in quella luce. Un richiamo, la delizia del calore e il mistero del
luccichio.
“Chi sei? Fatti vedere!” Bisbigliò agli alberi, la dove l’aveva vista; tutto
era tornato fermo e statico, con il suo sopraggiungere.
Una risata e il fruscio
di foglie gli rispose. “Non voglio farti del male, fatti vedere.” Si addentrò nel bosco seguendo i sospiri e quando si
girò attirato dal rumore secco di ramo spezzato, notò che aveva percorso un
netto tratto di strada e che dal sottofondo si udiva lo scorrere delle acque
placide dell’Alfeo; temette di esser
stato sciocco e infantile, impugnando con diffidenza l’elsa della spada.
“Non hai bisogno di quella.” Una voce cristallina arrivò alle sue spalle e nel
voltarsi percepì lo spostamento fulmineo di un ombra lattea e informe; si piegò
sulle ginocchia, come attendesse che quel qualcosa gli piombasse
improvvisamente addosso. “Ti aspettavo.” Fu
tutto ciò che arrivò.
Restò calmo, per nulla
spaventato. “Mostrami chi
sei.. e fatti capire.”
“Ciò che vedrai potrà recarti molta sorpresa.
Potresti non aver più voglia di tornare.”
“Lascia a me giudicare.”
Non percepì il suo
arrivo, solo una folata d’aria che gli annegò i polmoni; quando riaprì gli
occhi si trovò dinnanzi una creatura dalle fattezze umane e.. perfette.
L’aspetto era quella di una donna, dalla pelle traslucida rifulgente di
bagliori argentei, il volto squisitamente armonico e di porcellana, due occhi
che al buio sembravano brillare. Mosse le labbra impercettibilmente, ma non udì
alcun suono dapprima, solo dopo alcuni istanti percepì la voce umana e che la
sua attenzione era stata catturata a tal punto da non averla sentita parlare.
Arretrò di un passo, un
po’ scosso, ma non troppo, da quel corpo che emanava un calore rassicurante e
al contempo freschezza; quella rise, ristabilendo la distanza. “Il Re ha perso
la parola.” Era quasi vicina, la sua aurea più del corpo di
carne e poteva sentirla, addosso, come se braccia invisibili l’avessero
avvolto. “Ma
non temere, presto tutto sarà più chiaro e capirai.”
“Parli per enigmi, strana creatura.. non avvicinarti.”
Arretrò di nuovo e quella restò
ferma, ubbidiente.
“Non devi avere paura di me.”
“Paura?! La paura non mi appartiene.” Sputò in terra. ”Come sai chi sono?!”
“So molte cose di te, Pelope. Del passato e del tuo
futuro. Ed è soprattutto questo che mi interessa di più.” Graziosamente provò a muovere qualche passo, sicura
quando non vide nei suoi occhi il ripudio.
“Il
nostro incontro è stato scritto per volere degli Dei, sono stata mandata qui
per salvarti.”
“Salvarmi da cosa?!”
“L’oblio della tua stirpe. Morirai Pelope, angustiato
e pieno di dolore.” Gli soffiò sul
viso alito caldo. “Ma se mi
seguirai, la tua vita sarà serena e lontano dalle ombre.” Gli toccò la mano, ma il Re la ritirò accompagnando
il gesto ad una risata amara.
“Il mio destino è dominare.” Fece per voltarsi ma la guardò ancora una volta. “Sono nato per combattere, nel
dolore e negli angusti.. non sai niente di me, strana creatura. La spada e la
terra sono il mio regno, non i boschi e luci fatue. Questo.. è il volere degli
Dei!”
E se ne andò, non
voltandosi più.
Corse alla volta del
castello impaziente e quando fu nel dormitorio reale, destò la serva da quello
che era il suo posto e la sbattè fuori; Ippodamia aprì lentamente gli occhi, odorava di rosa e la
pelle del volto alla luce delle fiaccole rifulgeva di un colore che non le
apparteneva.
“Ti voglio.”
E le fu sopra, senza attendere il
consenso o il permesso.. lasciandosi guidare, però, da mani ben contente di
riaverlo a casa.
Quando le loro carni si
unirono i gemiti della regina riempirono la stanza e un urlo squassante, fuori,
volò libero dalla boscaglia.
Pelope rabbrividì; le
parole della creatura gli bucarono la mente.
E’ solo un lupo,
pensò.
Dagli spettri delle sue
paure lo raccolse Ippodamia, che stringendolo al
collo, gli sussurrò supplichevolmente di non lasciarla.
Di non lasciarla mai.
Di ritornare sempre. Di amarla comunque.
“Non ti lascio.” E solo alle
prime luci dell’alba, spossato, lasciò che la donna accucciasse il capo al suo
petto.
*
Si sentiva
meravigliosamente bene.
Tanto da ordinare alla
serva le vesti più sontuose e i gioielli più preziosi.
Pelope la salutò dopo
la colazione, porgendole una carezza e un bacio lieve sulle labbra.
Dopo il bagno si
sedette dinnanzi allo specchio e mentre i capelli venivano spazzolati con
pettine d’onice, alzò inni per la Dea Afrodite; le servette l’ascoltarono
estasiate, rapite dalla voce soave. Risolini e altre voci bianche si unirono
alla sua formando un coro deliziosamente fatato.
I canti si fermarono di
colpo; girando la guancia, nascosta alla fine dello zigomo e verso l’orecchio,
una lunga scia di polvere dorata brillava sulla sue pelle come un trito
finissimo di diamanti alla luce del sole.
Si toccò istintivamente
quella meraviglia, ricordando che Pelope nella notte passata e prima di
congedarsi, vi aveva appoggiato la mano; rabbrividì, spaventata ed estasiata al
tempo stesso.
“Alaya!” Urlò e le
servette minori si dileguarono dalla sua vista.
La donna accorse tutta
trafelata, afferrandole il volto. “Polvere di fata.” L’ispezionò, annusandola. “Trucchi da ninfa
dei boschi, sua maestà. Come ve la siete procurata?!” La guardò ingenuamente.
“E’ male o è bene?!”
“Male, Sua mestà.” Sbarrò gli occhi, rendendosi conto dell’errore. “Sono considerate le sirene di
terra. Adescano gli uomini con la loro luce melliflua e incantatrice e li
costringono a seguirli.”
“E cosa succede loro, dopo?!”
“Morte mia regina. Lenta, agognata, morte.”
“Come lo sai?!”
“Mia potente Regina siete nata dalle viscere di una
cacciatrice, dovreste sapere che non tutte le creature del bosco sono perfette.”
Ippodamia annuì, afflosciandosi sulla seduta.
D’un tratto il viso
disteso e sereno diventò una maschera contratta di paure e domande. “Portami del
vino caldo. E una soluzione.”
Fine capitolo nono.