Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Luna_R    17/01/2013    0 recensioni
“Andrà tutto bene.” Mia gli strinse le braccia attorno ai fianchi. “Prega quanto vuoi. Nessuno più di te merita quel trono.”
“Sento la sua presenza Mia.” Guardò la compagna. “Zeus. Tuo padre. Il mio. Chi può dirlo. Ma io sento qualcosa!”
“Prega per loro e lasciali andare. I morti sono solo morti e gli Dei sono solo Dei.” Gli accarezzò la guancia. “Tu sei un Re oggi e sarai un Re domani!”. L’uomo sospirò soffiando nella mano che lenta ridiscendeva sulle sue mandibole serrate; il tocco di una mano gentile, sicura, gli occhi di una donna che lo amava, le parole di chi aveva creduto sempre in lui.
Si commosse ma girò il capo primo che una lacrima bagnasse quella mano.
*seguito della fanfiction "La leggenda di Ippodamia" ispirata al mito di Pelope e Ippodamia.
La mia fantasia, a volte, non si pone limiti.
Spero vi piaccia.
Genere: Avventura, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il destino dei Re

 

“Ninfa.” Capitolo nono.

 

“Allora, come sta?!”

 

Il medico di corte uscì dalla stanza con viso cupo. Sua Maestà la regina non stava bene.

Da quando il Generale Apyos era stato impiccato nella piazza della città, rifiutava il cibo spesso e il bel viso roseo si era fatto cianotico; si diceva soffrisse di incubi che la tenevano sveglia la notte riempiendo di urla strazianti i corridoi, che scostasse le persone e persino la vicinanza del suo amato Pelope la infastidiva. Neanche le dolci risate di Melibea, riuscivano a distogliere i suoi occhi dai pensieri che le annebbiavano la mente.

I suoi figli erano l’unica cosa che rubava al suo viso il sorriso; ma Atreo venne fatto allontanare dalla madre per iniziarlo alle pratiche di combattimento corporale, agli studi e all’educazione di Re. Il piccolo Tieste cresceva a vista d’occhio, ma le sue poppate contribuivano a svuotarle il corpo già scarno e per questo si trovò una balia che sostituisse la madre.

L’unica presenza che richiedeva con ostinazione era Alaya, la sguattera dalla mano monca.

La giovane si era rilevata con grande sorpresa servizievole e amorevole nei confronti della donna che l’aveva condannata, a vita, all’umiliazione di servire la corte con una sola mano, per questo Pelope non si fidava di lei e gradiva assai poco l’assidua presenza accanto alla regina.

Inoltre era dotata di una grande sapienza sulle arti magiche e questo la rendeva deliziosa agli occhi di Sua Maestà la Regina, ma una megera agli occhi di Sua Maestà il Re.

 

“Sua Maestà ha un male che non può essere curato con i miei preparati.”

“Di che male si tratta medico, non tirarla per le lunghe.”

“Ha il male dell’anima, Maestà. Ha subito un forte choc, dobbiamo darle il tempo di riprendersi.”

“Quanto tempo?!”

“Giorni, mesi, anni.. nessuno sa con certezza quando si smette di stare male.”

Il Re abbassò lo sguardo disperato. “Non ho mesi davanti, tanto meno anni!”

“Mio Re, farò tutto ciò che ho in mio possesso per aiutarla, posso garantirlo.”

“Che sia così, medico.”

 

E se andò frusciando la clamide.

Ippodamia era stesa a letto, in un sonno artificiale. Si avvicinò alla coppa accanto a lei e l’annusò; latte di papavero, l’elisir del dolce sonno.

Non la svegliò, ma prese la sua mano esile come un giunco e la strinse forte nella sua; doveva riprendersi, era giovane, forte e bella.. ed era la Regina di Pisa, chi avrebbe vegliato su di lei quando sarebbe partito per la guerra?!

 

“Mio Re..” sussurrò dopo qualche ora, aprendo gli occhi; Pelope alzò il capo dalle loro mani intrecciate e le sorrise.

“Vegliavo sul tuo sonno.. e tu hai preso il mio!”

“Non dovresti stare qui, i tuoi doveri ti richiedono presente.”

“Prima la tua salute e poi i miei doveri.”

“Vorrei che fosse così..” Guardò lontano, verso la finestra; il sole era alto e c’era molta luce. Aveva confuso le notti con i giorni e non aveva più coscienza ormai di quanto avesse dormito. “Non fraintendere, sei un uomo premuroso, ma presto le tue guerre ti porteranno via da me e a quel punto la mia salute, le mie nubi, i miei pensieri saranno lontani da te.”

“Mi rechi offesa a pensar questo, mia Regina.” La guardò contrito, lasciando andare le sue mani. “Quando le prese si assesteranno e i venti saranno più tranquilli, tu mi raggiungerai. Avevo già pensato a questo, te ne avrei parlato.”

“E il regno?! Chi baderà al regno?! E i tuoi figli?!” Tirò le coperte fra le mani strette a pugno. “Noi non combattiamo più per la stessa guerra Pelope, la nostra l’abbiamo già vinta!”

“Non farmi questo Ippodamia, non chiedermi di scegliere fra te e il mio destino. Vinceresti tu. Tu sei più importante di tutto il resto, ma il mio destino è stato scritto e tu eri fiera di compierlo insieme a me. Sapevi cosa ci attendeva, cosa è cambiato?! Sono io che ti chiedo di non lasciarmi solo, adesso. Ciò che sono diventato lo devo a te e al tuo coraggio. Ti prego combatti ancora con me, sostienimi perché io non sono niente senza di te.”

Gli occhi della donna si velarono. “Lasciami riposare adesso, ti prego va via.”

“Ma..” Ippodamia scosse il capo e Pelope capì, fece riverenza e sparì. Oltre le mura, per i corridoi, la sentì singhiozzare.

 

“Pazienta mio Re.” Alaya passò svelta con un anfora tracotante d’acqua bollente, ma si fermò non appena lo vide. “La regina è forte. Guarirà.”

 

*

“Assomigli molto alla mia balia, Alaya. Anche lei aveva occhi come i tuoi.” Il moncherino della serva urtava la schiena di sua maestà, ogni qualvolta l’altra mano si faceva spazio sulla pelle morbida. La sguattera era guarita, a sostituire l’orribile mutilazione le era stato messo una coppa d’oro piccola e rigirata. Era quasi graziosa, se non fosse che l’ordine di sfregiarla lo aveva dato lei. “Quanti anni hai?!”

“Credo abbiamo la stessa età, sua maestà.” E aggiunse abbassando il capo, “non ho mai conosciuto mia madre.”

“La mia è morta prima che ricordassi. Non c’è vergogna in questo.” Le sorrise, facendosi avvolgere in un lungo telo di lana. Apyos ha fatto il tuo nome prima di morire.” La serva tremò, facendo scivolare fra le mani la veste pulita.

“M-mi dispiace sua Maestà. Ne prendo subito un’altra.” E scappò verso le ceste con gli abiti freschi.

“Non devi avere paura Alaya, io mantengo la parola data. Non ti verrà fatto più alcun male.” La stoffa calò lungo il corpo, rappresa in vita da un cordino rosso e oro. “Ma a me piace la verità, qualunque essa sia non dovrai avere riserve con la tua Regina.”

 

Dagli occhi della ragazza scesero due lacrime. “Era mio padre.”

 

Mia soffiò triste fra le labbra contrite. “Triste è la giustizia del Re, perchè nelle sue mani è il potere.”

 

*

“Come sta la nostra Regina?!” Atreo e Nikandrios erano nella sala del concilio insieme a sua maestà; si andavano assestando le prime strategie che li avrebbero portati al di là della terra d’Elide, sul continente Asiatico a riconquistar terre e tesori perduti. Prima di tale passaggio era nei desideri di Pelope assoggettare tutta la penisola Morea al suo comando, formando agglomerati come Olimpia, dove il tempo trascorreva fra i ricchi mercati e la divinazione degli Dei. Il Re sognava in grande e lo faceva quanto bastava per tutti gli altri.

“Nessuna novità a riguardo, aimè.” Si accomodò sullo scranno e indicò le pergamene sul tavolo. “Generale Nikandrios, illustrami i tracciati ed elencami nuovamente il numero di volontari che hai a tua disposizione.”

“Attraverseremo l’Elide con cinquecento uomini verso sud in Messenia e Laconia risalendo per l’Argolide e tagliando di netto la penisola passando per Tegea, in Arcadia. A quel punto risaliremo verso la costa in Acaia e faremo saggiare la nostra la lama a Patrasso, se occorrerà, dopo di che dritti per Corinto a est dove ci attenderanno le navi che la porteranno nelle terre che le spettano per diritto e nascita, mio Re.”

“Un messaggero fa sapere da Tebe che tuo cognato è disposto ad affiancarti un plotone di rinforzo.” Atreo li interruppe armeggiando con i primi accenni di una folta barba che avrebbe preso posto sul suo viso terreo. “Ti aspetterebbe a Corinto, prima di prendere il largo.”

“Ringrazialo, ma declina il suo aiuto.” Pelope si mosse nervoso sullo scranno. “Non voglio render merito a nessuno dei miei successi.”

“Duecento uomini Pelope, fossi in te ci penserei almeno un po’.”

“Duecento uomini da buttare via e mia sorella giace pietrificata in una valle di nessuno perché il Re di Tebe non interferisce con la giustizia divina! Dovrei ucciderlo con queste mie mani!” Triste era la storia di Niobe e nessuno aveva voglia di ricordare quanto ella dall’alto della superbia della sua casata, si vantò di esser bella e feconda più della Dea Latona, invitando il popolo a venerare lei anziché una donna capace di dar al mondo due soli figli. Due soli figli il cui sangue però era lo stesso di Zeus e che gli avevano annientato la bella prole per punizione, trasformando lei in una roccia di pietra, tanta la paura della loro crudeltà.

 

“Era anche mia sorella.” Ma Atreo lo tenne per sé. Questa era la guerra di Pelope. Il destino di Pelope.

Lo avrebbe affiancato e avrebbe combattuto le sue battaglie, ma il solo ruolo che gli spettasse era quello di tener caldo un finto trono nelle remote terre che diedero i natali ai loro progenitori.

La gloria, quella fatta dell’eterno riecheggiare di nomi, beh quella gloria, spettava solo ed unicamente a Pelope.

 

Alla fine del giorno il Re si sentiva il capo dolere, dal peso della corona e dal peso delle responsabilità.

Annegò i suoi pensieri in una coppa di vino, nelle sale private dove la moglie giaceva a letto in compagnia della sua schiava e dei suoi unguenti per calmarle il sonno; si sentiva frustrato e incompreso da quella donna ora ostinata e attaccata alle regole antiche della sua casa.

Che ne era stato di sua moglie?! Dove era finita la donna che mosse il coraggio con tanta astuzia e vigore da farlo salire al trono?!

Non aveva risposte. Solo domande. Gettò la coppa lontano, in un moto di rabbia; il vino lo aveva reso d’un tratto più ansioso.

 

Ma non era tutto.

 

Sentiva il suo nome sussurrato da una voce ovattata e flebile, un richiamo alla sua attenzione.

Una voce interna o forse il troppo vino, convenne, ma troppo chiara per essere solo immaginazione.

Si alzò dunque, portandosi alle grandi finestre della stanza; la vista impeccabile dava sui boschi di Pisa.

Un lampo di luce sferzò nel buio. Non era una stella; acuì la vista e si stupì nel notare che la luce aveva la forma di un corpo flessuoso e dorato.

Il guizzo sembrava giocasse, attorcigliandosi ai tronchi deli alberi, impaziente; era chiaro, doveva uscire e scoprire cosa fosse.

Sentì le donne dalle pareti attigue ridere e bisbigliare e ne approfittò per dileguarsi; coperto il volto dalla clamide, deviò i percorsi protetti dalle guardie e imboccando un vicolo che ridiscendeva nei cunicoli della città, si ritrovò fuori dalle mura del palazzo. Superò silenziosamente la piazza principale e le case più ricche nate dopo la ricostruzione e si avviò verso la radura; il bagliore gli fece strada, ed avvicinandosi si mostrò dai contorni più tremolanti e quasi impercettibile, tanto da farlo dubitare, ma proseguì.

Qualcosa di attraente rifulgeva in quella luce. Un richiamo, la delizia del calore e il mistero del luccichio.

 

“Chi sei? Fatti vedere!” Bisbigliò agli alberi, la dove l’aveva vista; tutto era tornato fermo e statico, con il suo sopraggiungere.

Una risata e il fruscio di foglie gli rispose. “Non voglio farti del male, fatti vedere.” Si addentrò nel bosco seguendo i sospiri e quando si girò attirato dal rumore secco di ramo spezzato, notò che aveva percorso un netto tratto di strada e che dal sottofondo si udiva lo scorrere delle acque placide dell’Alfeo; temette di esser stato sciocco e infantile, impugnando con diffidenza l’elsa della spada.

 

“Non hai bisogno di quella.” Una voce cristallina arrivò alle sue spalle e nel voltarsi percepì lo spostamento fulmineo di un ombra lattea e informe; si piegò sulle ginocchia, come attendesse che quel qualcosa gli piombasse improvvisamente addosso. “Ti aspettavo.” Fu tutto ciò che arrivò.

Restò calmo, per nulla spaventato. “Mostrami chi sei.. e fatti capire.”

“Ciò che vedrai potrà recarti molta sorpresa. Potresti non aver più voglia di tornare.”

“Lascia a me giudicare.”

 

Non percepì il suo arrivo, solo una folata d’aria che gli annegò i polmoni; quando riaprì gli occhi si trovò dinnanzi una creatura dalle fattezze umane e.. perfette. L’aspetto era quella di una donna, dalla pelle traslucida rifulgente di bagliori argentei, il volto squisitamente armonico e di porcellana, due occhi che al buio sembravano brillare. Mosse le labbra impercettibilmente, ma non udì alcun suono dapprima, solo dopo alcuni istanti percepì la voce umana e che la sua attenzione era stata catturata a tal punto da non averla sentita parlare.

Arretrò di un passo, un po’ scosso, ma non troppo, da quel corpo che emanava un calore rassicurante e al contempo freschezza; quella rise, ristabilendo la distanza. “Il Re ha perso la parola.” Era quasi vicina, la sua aurea più del corpo di carne e poteva sentirla, addosso, come se braccia invisibili l’avessero avvolto. “Ma non temere, presto tutto sarà più chiaro e capirai.”

“Parli per enigmi, strana creatura.. non avvicinarti.” Arretrò di nuovo e quella restò ferma, ubbidiente.

“Non devi avere paura di me.”

“Paura?! La paura non mi appartiene.” Sputò in terra. ”Come sai chi sono?!”

“So molte cose di te, Pelope. Del passato e del tuo futuro. Ed è soprattutto questo che mi interessa di più.” Graziosamente provò a muovere qualche passo, sicura quando non vide nei suoi occhi il ripudio. “Il nostro incontro è stato scritto per volere degli Dei, sono stata mandata qui per salvarti.”

“Salvarmi da cosa?!”

“L’oblio della tua stirpe. Morirai Pelope, angustiato e pieno di dolore.” Gli soffiò sul viso alito caldo. “Ma se mi seguirai, la tua vita sarà serena e lontano dalle ombre.” Gli toccò la mano, ma il Re la ritirò accompagnando il gesto ad una risata amara.

“Il mio destino è dominare.” Fece per voltarsi ma la guardò ancora una volta. “Sono nato per combattere, nel dolore e negli angusti.. non sai niente di me, strana creatura. La spada e la terra sono il mio regno, non i boschi e luci fatue. Questo.. è il volere degli Dei!”

E se ne andò, non voltandosi più.

 

Corse alla volta del castello impaziente e quando fu nel dormitorio reale, destò la serva da quello che era il suo posto e la sbattè fuori; Ippodamia aprì lentamente gli occhi, odorava di rosa e la pelle del volto alla luce delle fiaccole rifulgeva di un colore che non le apparteneva.

 

“Ti voglio.” E le fu sopra, senza attendere il consenso o il permesso.. lasciandosi guidare, però, da mani ben contente di riaverlo a casa.

Quando le loro carni si unirono i gemiti della regina riempirono la stanza e un urlo squassante, fuori, volò libero dalla boscaglia.

Pelope rabbrividì; le parole della creatura gli bucarono la mente.

E’ solo un lupo, pensò.

Dagli spettri delle sue paure lo raccolse Ippodamia, che stringendolo al collo, gli sussurrò supplichevolmente di non lasciarla.

Di non lasciarla mai. Di ritornare sempre. Di amarla comunque.

 

Non ti lascio.” E solo alle prime luci dell’alba, spossato, lasciò che la donna accucciasse il capo al suo petto.

 

*

Si sentiva meravigliosamente bene.

Tanto da ordinare alla serva le vesti più sontuose e i gioielli più preziosi.

Pelope la salutò dopo la colazione, porgendole una carezza e un bacio lieve sulle labbra.

Dopo il bagno si sedette dinnanzi allo specchio e mentre i capelli venivano spazzolati con pettine d’onice, alzò inni per la Dea Afrodite; le servette l’ascoltarono estasiate, rapite dalla voce soave. Risolini e altre voci bianche si unirono alla sua formando un coro deliziosamente fatato.

I canti si fermarono di colpo; girando la guancia, nascosta alla fine dello zigomo e verso l’orecchio, una lunga scia di polvere dorata brillava sulla sue pelle come un trito finissimo di diamanti alla luce del sole.

Si toccò istintivamente quella meraviglia, ricordando che Pelope nella notte passata e prima di congedarsi, vi aveva appoggiato la mano; rabbrividì, spaventata ed estasiata al tempo stesso.

 

Alaya!” Urlò e le servette minori si dileguarono dalla sua vista.

La donna accorse tutta trafelata, afferrandole il volto. “Polvere di fata.” L’ispezionò, annusandola. “Trucchi da ninfa dei boschi, sua maestà. Come ve la siete procurata?!” La guardò ingenuamente.

“E’ male o è bene?!”

“Male, Sua mestà.” Sbarrò gli occhi, rendendosi conto dell’errore. “Sono considerate le sirene di terra. Adescano gli uomini con la loro luce melliflua e incantatrice e li costringono a seguirli.”

“E cosa succede loro, dopo?!”

“Morte mia regina. Lenta, agognata, morte.”

“Come lo sai?!”

“Mia potente Regina siete nata dalle viscere di una cacciatrice, dovreste sapere che non tutte le creature del bosco sono perfette.”

 

Ippodamia annuì, afflosciandosi sulla seduta.

D’un tratto il viso disteso e sereno diventò una maschera contratta di paure e domande. “Portami del vino caldo. E una soluzione.”

 

Fine capitolo nono.

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Luna_R