Libri > Harry Potter
Segui la storia  |      
Autore: Sacrilega Ma Non Troppo    11/08/2007    12 recensioni
ATTENZIONE SPOILER
Abbiamo cercato di costruire un mondo in cui tu potessi vivere una vita più felice.
Raccolta di dichiarazioni, spiegazioni e sfoghi di chi non c'è più a chi è rimasto. Pensato per contenere 3 episodi.
Introduzione modificata per presenza di doppio tag br, vietato dal regolamento.
Charlie_2702, assistente amministratrice
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Che eri in arrivo lo seppi intorno a luglio, poco dopo aver recuperato Harry Potter dalla casa dei suoi zii.
Non fu come pensavo che fosse. Niente conati di vomito, ne svenimenti, o qualche semplice giramento di testa.
Me ne accorsi a causa dei repentini cambiamenti di umore che avevo in quei giorni, e che mi portavano dalle reali preoccupazioni circa la contaminazione del Ministero agli assurdi dubbi sul tipo di vestito e sul colore dei capelli che avrei dovuto sfoggiare al matrimonio di Bill Weasley e Fleur Delacour.
Quando capii quel che stava succedendo ne fui così felice che piansi e risi contemporaneamente per un lasso di tempo non ben definibile. Remus era così preoccupato…
Mi ero chiusa in camera con mamma, e piansi talmente tanto – davvero così tanto, Teddy, così contenta e così scossa – che per molto tempo non riuscii a spiccicare parola. Era tutto un singhiozzo, e una risata, e un “Oh mamma”, e ogni tanto si sentiva Remus, dall’altra parte della porta, poggiare i palmi sul legno, senza sapere che fare, come aiutare, mormorando preoccupati “’Dora, che cosa c’è?” “’Dora, stai male?” “’Dora, lascia che entri, per l’amor del cielo”.
La mamma, quando glielo dissi, rimase senza parole per un lungo, lunghissimo attimo, poi mi si buttò al collo, coccolandomi come se avessi avuto sette anni.
«Cielo, ‘Dora, come sono contenta»
Quando uscii di lì avevo occhi rossi e lucidi, gonfi come due palline da golf; e Remus – che era crollato sul divano con la testa tra le mani – nell’udire la porta aprirsi scattò in piedi come se gli avessero dato una scossa elettrica.
«’Dora, ma cosa è successo?» fu tutto quello che si azzardò a mormorare, confuso nel vedermi sorridere, la sua mano che un po’ tremava, sospesa a mezz’aria poco distante dalla mia guancia, che non si azzardava a toccarmi.
«C’è un altro Remus, Remus» sussurrai io, incapace di reprimere quel largo sorriso involontario.
Lui parve smarrito, e credo avesse seriamente frainteso la situazione, sicché mi spicciai a fare chiarezza.
«Aspettiamo un bambino, J.»
La prima espressione è quella che conta, lo pensai davvero, perché – in fondo in fondo – avevo paura della reazione che avrebbe avuto. Tuo papà, Teddy, è sempre stato pieno di scrupoli sul benestare altrui.
e fu un sorriso, un sorriso vero, la sua prima espressione; ma poi fui quasi pronta a giurare che me la fossi sognata, tanto fu rapido il cambiamento. Poi ci fu un abbraccio tiepido, un bacio a fior di labbra e silenzio, uno di quelli scomodi, che durò per ore. Forse erano giorni, ma io smisi presto di farci attenzione, perché non volevo che tutta quella felicità che avevo addosso andasse sprecata, e pensavo a te, Teddy, a te soltanto.
Verso fine estate i Mangiamorte piombarono in casa di mamma e papà, e li torturarono entrambi per farsi dire dove avessero nascosto Harry. E fu la prima volta che tutta quella felicità venne momentaneamente messa da parte.
Mamma era molto scossa, papà era braccato. Fu un’idea di Remus: così, mentre tuo nonno Ted si separava da noi per nascondersi chissà dove, io e tuo padre ci trasferimmo da mamma.
E io divisi con lei parte di tutta quella felicità.
Era lei che accarezzava la mia pancia – appena appena visibile sotto la camicia – tutte le volte che mi passava accanto, lei che mi preparava le tisane “che mi facevano bene”, lei che fantasticava con me su quale sfumatura avrebbero avuto i tuoi capelli, se fossi stato un maschietto o una femminuccia.
Con Remus non era facile come con la mamma.
«Ti piace Abhram?» di queste domande gliene avevo già fatte un paio di volte, avendo come unica risposta un distante ”Non è un po’ presto per pensarci?” e un sorriso traballante, tipico di chi ha voglia di cambiare discorso.
Quella volta se ne stava sdraiato sul letto, gli occhi fissi sul soffitto, la fetta di luce che cadeva nella camera - dalla porta semichiusa sul corridoio – a spolverargli di paglia un ciuffo di capelli argentini. E io, su un fianco accanto a lui, a disegnare ghirigori con l’indice sul coprimaterasso azzurrino.
«Non so, ‘Dora, come vuoi» fu un sussurro flebile il suo, ma non tanto lontano da farmi desistere.
«Oh! E se fosse John, come il tuo papà? Oh! E Godric? Che ne dici di Godric?»
Quando non mi rispose non potei far altro che avvicinarmi e appoggiargli una mano sul petto. Fu forse la prima volta che realizzai veramente che Remus vacillava, per qualche motivo che non ero ancora in grado di capire.
«C’è qualcosa che non va?»
«Tutto ok, ‘Dora, tranquilla»
Sorrisi appena, poi forzai quel sorriso finché non divenne un ghigno.
«Ho capito sai» esclamai allegramente «Hai paura che abbia un aspetto strano! Magari nasce col becco» e il mio viso si contorse fino ad assomigliare a quello di un uccello «O con uno strano naso a proboscide!»
Remus rideva quando facevo questo genere di cose. Di solito.
Fu quando scostò la mia mano e si girò dall’altra parte con un ”Dormi ‘Dora, basta giocare” che ebbi veramente paura.
Non dormii, e penso che neanche Remus lo fece. Restammo lì per più di sei ore, fermi immobili, ognuno sul suo lato, ognuno sul suo margine di materasso per non toccare – nemmeno sfiorare – l’altro, schiena rivolta verso schiena, l’unico rumore quello dei nostri respiri, dei nostri pensieri.
Verso le cinque e mezza della mattina lo sentii alzarsi da letto, vestirsi in fretta, uscire.
E non tornò. Non tornò per due giorni, Teddy, ed ero così preoccupata, così terribilmente spaventata. Furono i due giorni più lunghi di tutta la mia vita, e mi sembrò che tuo padre mancasse da settimane, mesi.
Mamma mi cullò per tutta la seconda notte, e al mattino, quando non mi era rimasta nemmeno una lacrima da spendere per lui, Remus ritornò, annunciato da il rumore sordo di oggetti che cadevano per terra.
Ero già lì, sulla soglia della mia camera – della nostra camera – quando lui si chinò per raccogliere i cocci di quello che aveva fatto cadere, dandomi null’altro che la schiena.
«Dov’eri» la mia voce uscì gelida, così fredda da lasciarmi una strana sensazione in gola. E quando la ripetei, la domanda s’incrinò appena sul punto interrogativo, e sul suo nome «Dov’eri, Remus?»
Nessun tempo per rispondere.
Lo picchiai; lo picchiai con tutta la forza che mi era rimasta dopo aver pianto tanto, dopo averlo creduto morto, dopo averti creduto orfano di padre prima ancora che nascessi. Lo picchiai più per sincerarmi che fosse lì veramente, sano e salvo davanti ai miei occhi, che per vera rabbia. Lo picchiai più per paura che per risentimento.
«Dove sei stato, Remus? Cosa ti è successo?»
Lui aveva finito per tagliarsi un dito con i cocci del vaso, e si era rialzato a fatica, barcollando, impacciato sotto tutti quegli schiaffi e quei pugni che stavo rovesciandogli addosso, sulla schiena, sulle braccia sul petto.
«Dov’eri? DOV’ERI FINITO?!»
«’Dora io…» faticava quasi a parlare, tanto era preso ad evitare i miei colpi, a farsi scudo con le mani «basta…no…’Dora, smettila…»
«Perché te ne sei andato via così?! Non era l’Ordine, io lo so che non era l’Ordine!»
«Basta ‘Dora, basta»
«Perché ci hai lasciati soli?! Perché non mi hai detto che te ne andavi? Non era l’Ordine! REMUS, RISPONDIMI!»
La sua mano grondava sangue – assurdo come un taglietto così piccolo possa sanguinare a quel modo – e macchiò la mia camicia da notte quando respinse il mio ultimo schiaffo con un gesto del braccio.
«SMETTILA!»
Tuo padre non urlava, Teddy; mai. Fu per questo che mi tirai indietro come un topolino spaventato, una mano a tappare la bocca, come se temessi che un mio unico respiro sarebbe bastato a farlo esplodere.
I suoi occhi, stranamente selvatici su quel suo viso buono, erano fissi sui miei, che erano enormi, tondi come quelli di un pesciolino.
Fu un attimo: lui spiò dentro di me e io spiai dentro di lui, ci provammo, poi vidi accadere quello che era l’espressione di ciò che non avevo ancora capito.
Remus cadde per terra, sulle sue ginocchia magre, tutte ossa e pelle, come una marionetta a cui recidono i fili. I palmi della sue mani sbatterono rumorosamente per terra, e lasciò che i capelli – grigi e bisognosi di un taglio, secondo mamma – gli cadessero davanti al viso. Era silenzioso, come lo era il lupo che gli dormiva dentro, e i singhiozzi non si sentivano, ma si vedevano.
«Mi dispiace ‘Dora» mormorò tra le lacrime, la sua spina dorsale – visibile anche sotto il mantello da viaggio – che saliva aritmicamente su e giù, scossa da tutta quell’angustia «Mi d-dispiace»
Ted, che voce che aveva, in quel momento! Avrebbe potuto avere undici, dodici anni al massimo.
«Perdonami ‘Dora…perdonami»
E come avrei potuto non farlo?
Come avrei potuto non inginocchiarmi accanto a lui, non accarezzargli i capelli, non tirarlo verso di me come se, piuttosto che mio marito, fosse stato mio figlio, un tuo fratello molto più grande, più grande perfino di me?
Lo cullai come Andromeda aveva cullato me, gli asciugai gli occhi e aspettai che tornassero a riempirsi di lacrime per asciugarglieli ancora. Ed era così chiaro, adesso, il perché fosse stato così lontano da noi in questo periodo. Il suo turno per piangere durò un’eternità, ma non fu scomodo sedere lì per terra e abbracciarlo stretto, senza cercare di farlo smettere, aspettando solo che si svuotasse di tutta quell’angustia.
«Oh, ma guardati» sussurrai una volta che i suoi occhi, gonfi e arrossati, ormai esausti, guardando verso l’alto incrociarono i miei, lassù, così come ci era permesso guardarci con lui che se ne stava mezzo disteso sulle mie ginocchia piegate, e io che, curva su di lui, lo amavo in quel momento più di quanto avessi mai fatto prima «sei così tenero»
E il mio viso divenne simile a quello di un orsacchiotto, e Remus fu scosso ancora una volta da tremiti, che erano risa questa volta, seppur discrete.
Sai Teddy? Ringraziai per mesi per quella fuga di due giorni di tuo padre. Niente era mai andato così bene, seppure fossimo in un periodo difficile, decisamente poco felice. La gente veniva braccata, cacciata come se fosse selvaggina, torturata e uccisa. Di papà non avemmo più notizie per mesi, l’Ordine andava via via sperdendosi, nessuno aveva la più pallida idea di dove Harry Potter, colui che sopravvisse, fosse finito.
Ma c’eri tu, Teddy, e non ce la facevamo proprio a non pensare a te.
E tutta quella felicità la dividemmo in tre, e bastò per tutti.
Sentire qualcuno che ti sboccia dentro è una delle cose più strane che si possano immaginare. Nessun incantesimo, nessuna magia è comparabile a quello sfarfallio, quel battito d’ali che si sente quando qualcuno, dentro di te, si sveglia.
Remus rimase impressionato nel vedere, intorno ai cinque mesi, un minuscolo pulsare sulla mia pancia – un paio di pollici sopra l’ombelico, a destra – , segno inconfondibile che sì, c’era un piccoletto dentro quel ventre che andava via via ingrossandosi, che forse avrebbe avuto i miei occhi da pesciolino e il suo viso buono. Nessuno di noi parlò mai di licantropia, perché era un fantasma che avevamo combattuto, prima soli poi insieme, durante quei due giorni di separazione.
Remus passò tutto il mese di febbraio – compatibilmente con i suoi turni - con l’orecchio sul mio pancione, mentre mamma sferruzzava un completino di lana azzurra – “può sempre diventare rosa, ‘Dora” rispose quando le feci notare che potevi anche nascere femminuccia – e io giocherellavo con i capelli grigi del tuo papà.
«Ha parlato!» esclamò una volta Remus, guardandomi con occhi grossi.
Non volevo davvero scoppiargli a ridere in faccia, ma lo feci, e lui mi lanciò un’occhiata offesa, tornando alla sua postazione di ascoltatore.
«Non senti questi gorgoglii, ‘Dora?» insistette con zelo «Sembra quasi che parli»
«Quello è il mio stomaco, Remus, non il bambino» scherzai, tirandogli un buffetto sullo zigomo.
«Quanto sei pratica, ‘Dora» borbottò lui.
«Non sono pratica, sono solo…oh! Ehi no, aspetta un attimo…l’ho sentito!»
Come Remus alzò gli occhi verso di me, fiducioso, misi un po’ più di entusiasmo nella voce.
«Sì sì, è stato lui, sono sicura! E…oh! Come dici?» mi chinai appena in avanti, come a voler davvero sentirti parlare «Oh! Vuoi che papà vada a prendere una fetta di torta di mele per la mamma?»
«’Dora!»
«Come come? Ah! Vuoi che papà prepari una torta di mele per la mamma!»
La nonna rideva molto quando succedeva questo tipo di cose.
Ma forse la scorta di risate non era sufficiente per affrontare quello che dovemmo affrontare.
Papà, alla fine, aveva lasciato una traccia, la più terribile che potessimo paventare. L’avevano preso, alla fine, ed era caduto combattendo, senza lasciare che i due Mangiamorte suoi assassini lo privassero della sua fedele bacchetta.
Non mi ricordo quasi niente del giorno in cui ce lo dissero, so solo che per un momento, per un lungo momento, mi scordai di te. Mi ricordo che Remus mi sorresse quando mi cedettero le gambe, e che la mamma si unì al mio urlo disperato, e lo stesso Remus pianse, come se si fosse trattato di suo padre.
In quel periodo cominciò a non esserci più tempo. Remus prese a stare sempre più fuori casa, e litigavamo perché io volevo seguirlo, volevo stargli vicino, come se pensassi che, con una donna gravida da portarsi dietro, sarebbe stato più al sicuro.
Nell’ultimo periodo cominciai a diventare insofferente. Mamma era triste, tanto triste, e aspettava Remus con la stessa trepidazione con cui lo aspettavo io.
Le contrazioni furono ad aprile. E un mese e due giorni dopo la morte di papà, finalmente arrivasti, Teddy.
Con quella tua testolina spelacchiata, un ciuffetto di pochi e morbidissimi capelli color ebano, quegli occhi da pesciolino, ma così simile a Remus! Quanto ti aspettammo, e quanto ci riempì di gioia il poterti avere finalmente tra le braccia!
Remus era felice come mai l’avevo visto prima. Sembrava più giovane, riposato, e i suoi occhi selvatici brillavano così tanto che avrei voluto prepararti un fratellino già da subito.
Sembrava un bambino davanti alla cosa più meravigliosa della terra.
«’Dora, ‘Dora!» esclamava entusiasta, mentre lo osservava appena nato, avvolto negli asciugamani, ancora in braccio a mia madre «È bellissimo ‘Dora! È un maschietto! Il futuro campione di quiddich di Grifondoro!»
Ridevo, anche se un po’ stanca, perché c’eri, ma anche perché non avevo mai visto il tuo papà così esaltato. E non mi era mai parso che gli importasse qualcosa di quiddich.
«È uguale a te» disse poi, quando ti prese in braccio «Ted è uguale a te»
Non avevamo più discusso seriamente sul tuo nome. Ma Remus lo disse con una naturalezza tale che fu come se fosse già stato tutto deciso, come se fossi nato così, fossi nato Ted.
«Ha cambiato colore!» eri tra le mie braccia quando i tuoi capelli divennero rossi «Guarda Remus, guarda!»
Remus corse a dare la buona nuova a Bill e chi era ospite in casa sua, e tornò che avevi già un padrino: Harry Potter. Ma questo lo sai bene…
Il tuo papà ti fece così tante foto che non sapevamo più dove metterle. Ogni volta che i tuoi capelli cambiavano colore sembrava che accadesse uno dei fenomeni più strani al mondo, e lui immortalava immancabilmente il momento.
E ti coccolava tantissimo. Non mi sarei mai immaginata quanto spirito paterno potesse effettivamente avere il mio Remus. Eravamo felici, Ted, ed era per colpa tua.
L’epilogo di tutta quella felicità fu a maggio, con la Grande Battaglia, la Battaglia di Hogwarts.
Non volevo ci andasse. Non volevo che Remus ci andasse.
Glielo dissi, ”Ti prego, resta. Proprio adesso devi andare? Non mi dai una mano con Teddy?”, quando tu eri lì nella tua culla, il tuo ciuffo di capelli turchesi che ti disegnava un tirabacio sulla fronte bianca, gli occhi a pesciolino chiusi.
«È per Teddy, ‘Dora, lo sai» mormorò lui, carezzandomi una guancia «Perché il mondo in cui vivrà sia diverso da questo…Saremo felici, una volta che sarà tutto finito, felicissimi»
«Noi siamo già felici, Remus» cercai di protestare, ma lo sapevo perfettamente che aveva ragione, che la causa era colossale e dannatamente importante, che lo faceva per te, per me, per noi.
«Non piangere, ‘Dora» era dolce quando ti voleva consolare, il tuo papà, e lo sentivi nel suo tono di voce che non voleva vederti così, triste e sconfitta ancor prima di prender parte alla battaglia «Non piangere, ti prego…lo sai che m’imbarazzo, se piangi»
Ridacchiai, scossa dall’acquoso magone del pianto, mentre lui mi asciugava un’unica lacrima, ancora prima che quella avesse il tempo di ruzzolarmi giù sulla guancia.
«Tornerò che sarà tutto finito, d’accordo? Magari avrò qualche taglietto da medicare, però…»
Cercai di soffocare i singhiozzi nascondendomi contro il suo petto, stringendolo come se avessi paura che, allentando un po’ l’abbraccio, potesse svanire, e lui mi baciò i capelli e restò lì fin quando non mi fui un pelo calmata.
Poi mi salutò, e salutò te, Teddy; dopodiché parve che andarsene di casa fosse diventata la cosa più spossante della terra.
Però sai, Teddy, la tua mamma era strana, lo è sempre stata: forse perché ero troppo innamorata di Remus, o forse perché ero un Auror – e i cattivi vizi non si perdono, Ted, e si coltivano sotto forma di deformazione professionale - alla fine lo seguii.
Quando arrivai al castello ero determinata a combattere, a vincere e a tornare a casa da te, magari sorreggendo Remus, che sicuramente si sarebbe procurato qualche graffio sul campo.
Ti giuro, Ted, era una promessa che avevo fatto a me stessa. Torna a casa da Ted.
Ma, amore, non sempre la buona volontà basta, lo sai…
Là fuori, sul terreno di Hogwarts, scoccata la mezzanotte, era un delirio. Urlavano, urlavano tutti, e le loro urla di confondevano con il tuonare d’incantesimi lanciati a destra e a manca, e lampi di luce verde e rossa che volavano nell’aria, qualche volta al vento, qualche volta a segno.
Te l’ho detto, Ted, mi ero fatta una promessa.
Ma poi mi ci ero ritrovata, in mezzo a quel macello, e mi ero sentita persa. Avevo scordato che ero arrivata fin là per combattere, per cercare di migliorare il tuo mondo, e mi ero messa a cercare Remus.
Non tirai fuori nemmeno la bacchetta.
Corsi come mai avevo fatto prima, tra tutta quella gente, tra tutti quei bagliori, chiamandolo a gran voce, gonfiando i polmoni d’aria fuliginosa per potermi fare sentire meglio, più in alto sopra il trambusto generale.
Poi, Teddy, lo vidi. Urlai il suo nome, ma lui era lì che si batteva, stanco, polveroso, ma per niente rassegnato.
Il lampo di luce verde uscì fuori dalla punta di quella bacchetta nemica così, all’improvviso, ma fu come se tutto si svolgesse al rallentatore.
Corsi, volai per riuscire a raggiungerlo, a sottrarlo a quella Maledizione Senza Perdono fatta apposta per lui, come se fossi convinta che un modo per salvarlo ci fosse.
E mi scordai di pensare a te, in quel momento.
Perdonami, Teddy. Ero così innamorata di tuo padre, e così mortalmente terrorizzata.
Così, quando arrivai vicino a lui – così vicino che riuscimmo a sentirci respirare un’ultima volta – l’Avada Kedavra colpì entrambi, e io ruppi la promessa che mi ero fatta, una volta per tutte.
Quando i nostri corpi toccarono terra – cadendo insieme, quasi abbracciati – io e Remus non eravamo più lì dentro da un pezzo.
Fu così veloce, Ted, che l’unica cosa di cui potemmo renderci conto fu che eravamo lì, insieme, l’uno per l’altra, di nuovo.
Nessuno di noi tornò da te, come mi ero dovuta convincere sarebbe stato. La mamma, pugnalata non due, ma tre volte al petto, si aggrappò a te come se fossi l’unica parte di lei ancora viva, quella da cercare disperatamente di salvare.
E Harry, lo sai, è stato il migliore dei padrini che io e tuo padre potessimo sperare per te.
Perdonaci Ted, perdonami. Lo so che non è semplice. Ho visto i tuoi momenti di rabbia, di tristezza, di angoscia. Ho visto come hai tentato di biasimarci, senza mai riuscirci veramente. Perché lo sai, lo hai dovuto riconoscere tu stesso Ted, che nessuno di noi si sarebbe precipitato a quel modo tra le braccia di Hogwarts quella notte, se non avessimo avuto qualcuno da proteggere veramente. Non saremmo stati così motivati se tu fossi stato, per noi, un bambino e basta. Se non ti avessimo amato da voler dare tutto quello che avevamo per te. Ogni nostra singola forza, ogni goccia del nostro sudore, ogni nostra lacrima. Le nostre vite.
Non ti devi sentire in colpa, mai Ted, e so che lo hai già fatto. Ti ho sentito piangere di rabbia e urlare ”Non avreste dovuto avere un bambino! Non dovevate farlo! Se non fosse stato per me, forse…”
Ma non è così, Ted, non è così, amore. Ci saremmo stati, io e Remus, quella notte ad Hogwarts. Ma non ci saremmo battuti come abbiamo fatto. Non avremmo dato tutto quello che potevamo dare. E tu sei stato la nostra forza, la nostra linfa vitale. L’amore che provavamo per te, Ted, ci ha dato la spinta necessaria per riuscire a ritrovarci.
Abbiamo cercato di costruire un mondo in cui tu potessi vivere una vita più felice.



Nota: Dunque, l'idea mi è venuta dopo esserci rimasta troppo male leggendo della morte di Tonks e Lupin. Mi avevano fatto una gran tenerezza (soprattutto Remus, con tutti i suoi dubbi) e vederli morire lasciando un bambino di un mese mi ha fatto stare malissimo. Così l'ho scritta, per consolarmi, diciamo. Lo so, forse è un po' troppo mieloso e enfatico in certi punti, ma volevo che arrivasse l'immagine tenera che ho avuto di Remus e quella di 'Dora, che non saprei nemmeno come definirla. Spero abbiate gradito. Il prossimo episodio dovrebbe riguardare Fred...

Edit: episodio revisionato e corretto.
  
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Sacrilega Ma Non Troppo