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Autore: Curly_crush    22/01/2013    3 recensioni
Iniziare a vivere in una città grande e sconosciuta e, perlopiù, da soli, può essere un'impresa davvero difficile per una ragazza giovane. Ma può anche essere l'occasione per cominciare a vivere una vera e propria favola!
"Mai avrei pensato che potesse succedere a me. Eppure ero lì, a perdermi nell’incredibile verde dei suoi occhi. Non poteva essere vero, doveva essere per forza un sogno, ma il tocco caldo delle sue mani sul mio viso mi confermò quella bellissima realtà. Le mie labbra si aprirono in un sorriso quasi ebete, credo, dato che lui scoppiò in una risata fragorosa."
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aprii la porta dell’appartamento di Londra, in cui avrei dovuto vivere per i sei mesi seguenti, appoggiai le valigie a terra e mi richiusi la porta alle spalle. Avevo tentato di non piangere per tutta la durata del viaggio, e ci ero riuscita, ma ora il groppo in gola si fece prepotente, ed io non riuscii più a trattenere le lacrime e i singhiozzi. Ero fatta così, la lontananza da casa, da tutto ciò che conoscevo bene, da tutti quelli che amavo, mi faceva questo effetto. Mi consolai, pensando che almeno questa volta ero riuscita a sbloccarmi e a decidere di partire da sola; non che avessi altra scelta, comunque. La mia università, infatti, prevedeva sei mesi obbligatori all’estero, quindi la mia decisione era caduta sull’Inghilterra, in particolare Londra. Mi resi conto di essere patetica, perciò, non senza difficoltà, smisi di piangere, e decisi di sistemare le mie cose e poi di uscire in esplorazione.
L’appartamento non era grande, ma per una persona, cioè io, sarebbe andato benissimo: c’era una camera da letto, una piccola cucina che faceva anche da sala da pranzo, un bagno ed un ripostiglio; l’intera abitazione era di un colore indefinito, una specie di giallo pallido tendente al verde acido, ma, fortunatamente, mi piaceva. Era uno di quegli appartamenti già arredati, perciò l’affitto veniva a costarmi parecchio, ma perlomeno non dovevo preoccuparmi di comprare mobili di cui, alla fine dei sei mesi, non avrei saputo che farmene. Inoltre, era molto luminoso, il numero delle finestre era normale, non erano né troppe né troppo poche, ma evidentemente l’appartamento si trovava in una buona posizione per quanto riguardava la luce. Per raggiungerlo, avevo dovuto salire ben cinque rampe di scale, impresa difficoltosa con le valigie, poiché l’ascensore del condominio in cui era situato era –stranamente- bloccato. Poco male, avrei rassodato glutei e gambe!
Sistemati tutti i miei indumenti negli armadi e nei cassetti, decisi di uscire. Mi detti un’occhiata veloce allo specchio, e mi sorpresi di vedermi in uno stato anche abbastanza presentabile; optai comunque per una rinfrescata, ed in dieci minuti ero pronta a conquistare Londra.
Il mio appartamento si trovava poco lontano dal centro, così in una ventina di minuti ero già in Oxford Street ad ammirare l’infinità di negozi lì presente. C’era veramente di tutto: elettronica, vestiti, scarpe, accessori, divertimento … Non sapevo veramente da che parte guardare! La mia attenzione fu però attirata da un piccolo cartello bianco, appeso alla vetrata di un pub: “Cercasi aiutante barista per il pomeriggio”. Doveva essere il mio giorno fortunato. Infatti, a Londra avrei dovuto frequentare una scuola d’Inglese il mattino, mentre avevo il pomeriggio libero. Ma non era mia intenzione stare con le mani in mano, poiché dovevo pagare l’affitto e, soprattutto, imparare bene l’Inglese; quindi, quale miglior modo per farlo, se non quello di stare in mezzo alla gente? Essendo domenica, il pub era chiuso, ma decisi di trascrivermi l’indirizzo e tornarvi il giorno dopo.
Proseguii la mia passeggiata, entrando in qualche negozio e passando attraverso un piccolo parco, dove gli scoiattoli la facevano da padroni. Dopo un po’ cominciai a sentire la stanchezza del viaggio, e decisi così di tornare a casa; questa volta però presi la metro, avevo già camminato abbastanza e avrei potuto addormentarmi in piedi.
Pensai a cosa prepararmi per cena e, incapace ancora per il momento di abbandonare il cibo italiano, optai per una semplice pasta con panna e prosciutto. Quello era l’unico legame con l’Italia che potevo permettermi, non c’erano altre maniere; quindi qualche sano cibo italiano ogni tanto sarebbe andato benissimo! Dopo cena mi sedetti sul divano e guardai un po’ di tv inglese e mi sorpresi della mia capacità di comprensione: non riuscivo a captare ogni singola parola, ma almeno il senso del discorso c’era. Mi rallegrai all’idea che il giorno dopo avrei capito ciò che mi avrebbero detto sia a scuola, sia al pub. Quando mi accorsi che dovevo sforzarmi per tenere aperti gli occhi, mi decisi ad alzarmi dal divano e a spostarmi direttamente nel letto, senza altre deviazioni.

Fu una notte tranquilla, di sonno profondo e ristoratore, proprio quello di cui avevo bisogno. Appena sentii il suono della sveglia mi alzai, non scattante, ma decisa a rendere la mia prima giornata inglese perfetta. Mi feci una doccia, poi una colazione abbondante, preparai la borsa e scelsi l’abbigliamento: un paio di pantaloni beige, un maglioncino color panna sopra una camicetta marrone e delle ballerine in tinta con quest’ultima. Poi passai al trucco: decisi di fare una cosa semplice, ma seria. Una filo di eyeliner marrone, mascara e lucidalabbra rosa. Indossai il mio nuovo cappottino comprato apposta per Londra, chiusi a chiave ed uscii. Salutai il portiere con un sorriso e mi diressi verso la scuola.
L’edificio era vecchio all’esterno, ma dentro gli ambienti erano stati completamente rinnovati ed erano accoglienti. Chiesi informazioni su dove dovessi recarmi alla signora che stava all’entrata e questa mi rispose gentilmente che il mio corso si svolgeva al primo piano, nell’aula H. Appena la trovai, entrai e notai che c’erano già parecchie persone, di età e nazionalità diverse, che parlavano tra loro. Quando mi notarono, mi salutarono e cominciarono a farmi le solite domande di rito che si fanno ai nuovi arrivati; ero leggermente imbarazzata, ma riuscii a rispondere più o meno decentemente a tutti. Erano tutte persone cordiali e sorridenti, il mio ideale: pensai che andare a scuola non sarebbe stato così terribile, in fondo. C’era una ragazza portoghese, Ana, che si offrì di accompagnarmi nel mio primo giorno in quell’istituto, ed io accettai molto volentieri, ero contenta di avere già una mezza amica in questa grande città in cui non conoscevo nessuno.
Alla fine delle lezioni io e Ana andammo a mangiare insieme da McDonald, tanto per cominciare subito a stare sane … Poi lei mi disse che lavorava in un negozio di abbigliamento a Piccadilly Circus, così le riferii la mia idea di chiedere per quel posto al pub. “Beh, se vuoi lavorare a Londra, cominciare da un pub è l’ideale, secondo me”, mi rispose. Poco dopo ci salutammo, e, mentre lei andava verso il suo lavoro, io mi incamminai per trovarne uno.

“Ciao!”, salutai entrando al pub. L’ambiente che mi si presentò davanti era quello tipico dei pub inglesi: luce soffusa, un lungo bancone di legno a cui erano seduti alcuni ragazzi, sopra ai classici sgabelli da bar. Fui sollevata dal fatto che la clientela fosse giovane, se mi avessero presa avrei avuto meno difficoltà a relazionarmi con i clienti. Intravidi una ragazza, probabilmente una cameriera, la raggiunsi e le chiesi: “Sono qui per l’annuncio di lavoro che è appeso sulla vetrata del pub. Che devo fare per avere il lavoro?”. Lei mi rispose: “Oh, io non ne so molto, è stato Jake a mettere l’annuncio. È quel ragazzo dietro il bancone, parla con lui.”. La ringraziai e mi diressi verso Jake. Ok, volevo decisamente avere quel posto! Jake era alto, slanciato, con dei folti capelli biondi, due occhi tra il verde e l’azzurro leggermente allungati, naso e bocca regolari. Portava una camicia a quadri aperta sopra una maglietta grigia a tinta unita e dei jeans blu stretti. Era davvero molto carino.
“Ciao, ti serve qualcosa?”, mi chiese improvvisamente. Mi ero talmente incantata a guardarlo da non accorgermi che si era avvicinato al punto del bancone in cui mi trovavo, così quando capii che stava parlando con me, mi sentii avvampare. “Cominciamo bene”, pensai, “Dai, forza Gioia, non è tutto perduto!”.
“Ciao, mi chiamo Gioia. Ho visto il cartello che c’è fuori e sarei interessata al posto, se non avete già trovato qualcuno…” spiegai. Jake, immediatamente rispose: “No, in realtà sei la prima che si presenta, anche se il cartello è fuori da qualche settimana ormai… Mah, evidentemente nessuno ha bisogno di lavorare, qui.” Sorrise, tra l’ironico e il rassegnato; io presi la palla al balzo: “Beh, io ne ho bisogno invece. Sono italiana, devo restare qui a Londra per sei mesi per imparare meglio la vostra lingua, ma non posso studiare e basta, avendo un affitto da pagare e tutto il resto. Quindi…”. Lui mi guardò un attimo, poi disse: “Quindi sei in prova. Il tuo inglese non è proprio spaventoso, perciò quello sarà il problema minore. Vediamo come te la cavi con vassoi e boccali, adesso.”. Mi stava sfidando, lo vedevo nel suo sguardo e lo sentivo nel suo tono. D’accordo, sarà anche stato simpatico, ma le persone che mi prendono sottogamba non mi sono mai piaciute; gli avrei fatto vedere di cos’ero capace. Sfida accettata. Lo guardai fisso e gli risposi: “D’accordo. Comincio subito?”; lui rise, divertito dalla mia determinazione, e mi rispose: “No, stai tranquilla, puoi cominciare domani, così hai tempo di organizzarti. Il turno va dalle 15.00 alle 20.00, e, mi raccomando, sii puntuale!”. Cominciavo a detestarlo seriamente. “Sarò puntualissima. Ci vediamo domani allora. Ciao e grazie.”, salutai ed uscii dal pub. Ero molto nervosa, non potevo crederci, ma con quale diritto Jake aveva potuto essere così strafottente? Non mi conosceva nemmeno! Se pensava che avrei rinunciato a quel posto a causa sua, beh se lo poteva scordare. Avevo bisogno di un lavoro e avrei lottato contro qualsiasi cosa per averlo, anche contro di lui. Il nervosismo mi accompagnò per tutta la giornata, così quando finalmente venne l’ora di dormire ero mentalmente esausta e mi addormentai subito.
La mattinata del giorno dopo passò velocemente, o forse ero io che scalpitavo per prendermi la rivincita in quel dannato pub; avevo raccontato ad Ana l’intera storia e lei, dapprima, aveva tentato di convincermi che forse mi ero sbagliata, che Jake non voleva comportarsi come aveva fatto ed era stata tutta una mia impressione, ma quando vide che non c’era modo di farmi cambiare idea, mi consigliò di fare del mio meglio per farlo ricredere sulle mie capacità. Presi in seria considerazione il suo consiglio e cominciai ad elaborare mentalmente mille strategie per mettermi in buona luce. Finita la lezione mattutina, andai a pranzo con Ana come il giorno prima e poi mi diressi verso il pub. Quando arrivai ero addirittura in anticipo. Entrai sorridendo, decisa a non far vedere a Jake che ero infuriata, ma, appena mi vide, mi salutò con un sorriso sincero ed esclamò: “Oh, ecco qui il nostro nuovo acquisto!”. Ma cosa stava dicendo? Il giorno prima mi aveva detto che ero in prova e sappiamo bene con che tono; oggi invece sembrava volesse essere addirittura gentile e simpatico. Lo guardai, confusa. “Credo di non averti fatto una buona impressione ieri. Sai, ci ho pensato quando te ne sei andata, e mi sono reso conto che ti ho trattata davvero male; non sono sempre così, te lo assicuro, ma ieri è stata una giornata davvero pesante e così mi sono sfogato su di te… Scusami.”. Fantastico. Un lunatico. Non potevo chiedere di meglio. Lui continuò a scusarsi: “Però sono felice che tu sia venuta, vuol dire che sei una che non si arrende facilmente, neanche davanti ad un capo scorbutico!”, sorrise, e decisi di lasciar passare questo piccolo malinteso. “Tranquillo, non fa niente, a me interessa troppo questo posto per perderlo così.”, gli risposi. Lui rise ( non era male quando era di buonumore ) e propose: “Dai, ti offro qualcosa per farmi perdonare! Cosa vuoi? Qui abbiamo di tutto…”. In effetti ero assetata, così chiesi se potevo avere un succo all’arancia e lo ringraziai. Dato che ormai ero lì, pensai fosse una buona idea mettermi a lavorare, così chiesi al “capo”: “Allora, spiegami cosa devo fare in questo pub, che comincio ad organizzarmi.”, tentando di essere un po’ spiritosa, cosi che capisse che non ce l’avevo più con lui. “Beh, per il momento mi servirebbe una cameriera, se non ti dispiace. Vai dai clienti, prendi le ordinazioni, le porti a me e poi li servi al tavolo.”, “D’accordo capo!”, e cominciai la mia prima giornata-prova di lavoro.
Quando finii il turno ero semplicemente distrutta: ero andata su e giù per il pub tutto il pomeriggio, cercando di essere gentile e carina con tutti i clienti, per convincere ancora di più Jake sul mio conto; inoltre, lo avevo aiutato a scaricare un furgoncino, poiché non aveva nessun altro che potesse farlo al posto mio, quindi mi facevano male tutti i muscoli delle braccia. Mi stavo preparando per tornare a casa, quando Jake mi raggiunse nel retro e mi chiese: “Allora, come ti sembra sia andata?”; risposi: “Beh, dipende da te. Io sono soddisfatta di quello che ho fatto e come l’ho fatto, ma qui il capo sei tu.”. Mi sorrise: “Parole sante!” e rise di gusto, “Secondo me hai fatto un buonissimo lavoro, sei gentile e i clienti se ne sono accorti. Quindi, non ha più senso tenerti sulle spine. Se vuoi il posto, è tuo!”. Ce l’avevo fatta. Avevo trovato un lavoro due giorni dopo essere arrivata nella City. Ora non poteva fermarmi più nessuno. Ero talmente felice che l’avrei abbracciato, ma non avevo ancora tutta quella confidenza, così mi limitai ad un sorriso a trentadue denti e lo ringraziai circa una ventina di volte. Poi lo salutai e me ne tornai a casa, esausta, ma soddisfatta e felice.

Mi trovavo a Londra ormai da un mese e tutto sembrava procedere a gonfie vele: avevo un lavoro che mi piaceva, il mio capo era simpatico e carino, la paga era buona, a scuola avevo fatto amicizia anche con altre persone, conoscevo bene la lingua e riuscivo ad orientarmi decentemente. Non potevo chiedere di meglio! Quel giorno Jake mi aveva chiesto di arrivare al pub un po’ prima per aprire perché lui aveva un impegno, e mi aveva lasciato le chiavi. Pioveva ( l’unica cosa che ancora non sopportavo) e c’era molto vento: non per niente era novembre. Avevo dimenticato a casa l’ombrello, così ero costretta a camminare a testa bassa e, oltretutto, avevo alcuni libri in mano che non ero riuscita a mettere nella borsa. La giornata sembrava aver preso una brutta piega. Stavo attraversando una piazza, quando improvvisamente mi ritrovai a terra. Non avevo ancora realizzato che qualcuno mi era venuto addosso violentemente, ma vidi i miei libri sparsi sul cemento; poi, lentamente, sollevai la testa, e vidi che c’era un ragazzo proprio di fronte a me che  mi fissava dall’alto. “Ma tu non guardi dove vai quando cammini?”, mi chiese, scocciato. Ero incredula. “Non so se hai notato, ma piove e sono senza ombrello, quindi l’acqua mi entra negli occhi. Non posso fare altro che guardare a terra, scusami tanto, eh!”, gli risposi a tono. La giornata stava decisamente andando per il peggio. Lui sembrava inquieto: “Dai, veloce, raccogli le tue cose. Muoviti, che la gente sta cominciando a fermarsi a vedere cos’è successo.”. Ero senza parole; mi alzai, pensando che fosse tutto un sogno assurdo: “Ma …”. Non riuscii ad aggiungere altro, perché lui mi interruppe subito: “Dai, ma guarda che sei lenta!”, ovviamente senza muovere un muscolo per aiutarmi. Lo guardai fisso. Avevo già sentito quella voce, mi era familiare: leggermente roca, ma calma e lenta e come parlata. Non riuscivo a vedere il suo viso: la sciarpa lo copriva fin sopra il naso, e in testa aveva un cappello calato sulla fronte. L’unica parte scoperta erano gli occhi. Avevo già visto anche quelli. Due occhi verdi. Estremamente belli. Facevano luce, anche se non era possibile, con quella pioggia. Erano leggermente arrossati e lucidi, e pensai fosse a causa del vento. Improvvisamente realizzai. Lo riconobbi. Fino a quel momento l’avevo visto sempre e solo in tv, sui giornali, in Internet. Ora ce l’avevo davanti. E ci ero appena andata a sbattere contro. Mi ero scontrata con Harry Styles. Uno dei One Direction. Il mio preferito, ad essere sincera. Merda. Non sapevo cosa fare, né cosa dire. Provai a parlare, e ne uscì un tremolante “Ma … Tu … Sei …”. Lui capì che l’avevo riconosciuto, e mi disse, svelto: “Sì, sì, sono io. Non metterti ad urlare, per favore. Dio, non si può neanche uscire a fare una passeggiata che qualcuno ti viene addosso e ti fa saltare la copertura!”. Era davvero arrabbiato e maleducato. Non riuscivo a crederci: era stato lui a venirmi addosso in realtà! Glielo dissi, ma lui ribatté subito che ero io quella che camminava cercando le formiche. Mi stava anche prendendo in giro. Non mi lasciò il tempo di rispondere, si voltò e se ne andò, sparendo nella pioggia. Mi resi conto di essere in ritardo per l’apertura del pub, così decisi di lasciar perdere e mi diressi al lavoro. Mentre camminavo, rivedevo la scena nella mia testa e i peggiori improperi si facevano largo tra i pensieri. “E’ una celebrità, che pensavi? Che fosse simpatico e gentile? È un montato, come tutti gli altri. Non mi farò mai più illusioni su nessuna di quelle persone.”
  
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