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Autore: hanabi    24/01/2013    12 recensioni
Lontano, molto lontano, un mondo è pieno di leggende sulla propria origine e la propria storia. E in questo mondo tutto sembra duale: due soli, due continenti, due culture impermeabili, due etnie nemiche. Ma c'è un terzo incomodo, che esiste ed agisce nell'ombra...
Ed è quel terzo incomodo che unisce gli estremi di quel mondo, in una vicenda che sprofonda le radici nel remoto passato, tra intrighi e grandi imprese, sogni e vendette, misteri da svelare e sentimenti contrastanti, ferocia e sensualità. E alla luce di una luna che non è più solo un decoro del cielo, si dipana la storia dei protagonisti... come un gioco dei loro dèi. E di qualcun altro.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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Due sono le forze dell'universo, e uno il Vuoto.

Due sono i soli del mondo, e uno lo Spazio.

Due sono gli dèi, e una il Mistero.

Due sono le razze degli uomini, e una La Perduta.

Due sono i continenti del mondo, e due gli Oceani.

Dodici sono i principi di Kelitha, e due i re di Sayanna.

Uno è il mondo

E uno è il suo gemello che sorge nel cielo,

Luna di Fuoco.

 

 

(Filastrocca kelith) 

 

 

 

 

 

Ran raccolse la lancia che l'aveva reso famoso, controllò un'ultima volta le sue armi, accarezzò gli amuleti che portava al collo, poi uscì di casa.

Non sprecò nemmeno una preghiera per i suoi déi irriconoscenti. Tutti i sacrifici che aveva portato al tempio non erano serviti a portargli fortuna; e le personificazioni divine sulla terra, i re di Sayanna, non avevano esitato un istante a sigillare la sua condanna a morte per diserzione.

Che cosa doveva Ran ai divini Kamoh e Lilia? Niente!

Camminando verso la Grande Casa, passò per la piazza che era semivuota a quell'ora afosa. Nemel e Chat lo videro, e immediatamente voltarono le teste per non doverlo guardare in faccia. Ran sputò a terra, con ostentazione, come per dire: Faccio a meno anche di voi! E quindi fece solennemente finta di non vederli.

Ma dentro di sé digrignava i denti. Vigliacchi! L'avevano abbandonato al suo destino, dopo una burrascosa riunione, ritirando la loro parte della cassa comune.

"Abbiamo fatto male a lasciare Teji per metterci in proprio," aveva dichiarato Chat.

"Teji lo Stitico," aveva corretto Ran, "Così lo chiamano tutti. E la sua squadra? Gli Affamati... dovevamo restare tali per tutta la vita?"

"Che cos'è cambiato, Ran? Eravamo affamati di nome con Teji, ora lo siamo di fatto con te."

"Ma quel poco che abbiamo è tutto nostro."

"Anche la responsabilità!... Di questo passo, prima della fine della stagione dovremo dichiarare bancarotta. No, dobbiamo chiudere, ora, finché siamo in tempo."

"Teji ci ha mandato un messaggio," aveva detto Nemel. "Dice che gli è piaciuta la nostra intraprendenza, e che è pronto a riassumerci tutti..."

"A metà della paga, si intende," aveva concluso Chat. "È chiaro che vuole farcela pagare per averlo piantato."

"E voi cos'avete risposto?!" aveva chiesto Ran, sconvolto.

"Abbiamo accettato."

"Ma siete pazzi?!" aveva urlato lui, alzandosi di scatto.

"Non vogliamo finire in schiavitù per il tuo stupido orgoglio!" aveva esclamato Chat. "Noi ritorneremo con Teji. Meglio poveri, ma liberi. Se vuoi continuare questa tua folle guerra contro tutto e tutti, la farai da solo. Lasciamo l'impresa e ritiriamo la nostra parte di cassa... quella che ci è rimasta!"

Ran si era reso conto che facevano sul serio, il suo tono si era improvvisamente addolcito.

"Via, ragazzi, che discorso è questo?... Certo, non siamo stati molto fortunati in questo periodo, ma le cose andranno meglio, vedrete. Ho in mente un buon colpo..."

"Come l'ultimo?" aveva ribattuto Nemel. "Tra informazione, trasferimento, ritorno precipitoso abbiamo speso un sacco di denaro. E in cambio, niente! Tutti ci hanno riso dietro. Solo noi potevamo andare in tre a cercare di rubare le tasse di un principe kelith!"

"Duecento uomini armati di scorta," ricordò Chat, "la fuga più veloce che abbia mai fatto!"

"È stato un caso, amici miei..."

"No! La verità, Ran, è che tu non hai la stoffa per queste cose. Non potevamo saperlo quando ci siamo messi con te, ma non è nemmeno colpa tua, quindi non te ne vogliamo. Però ascolta il nostro consiglio: molla tutto e torna da Teji con noi."

"Mai! Piuttosto vendo la mia Sacra Membrana in una casa di piacere!"

"È proprio questa la fine che farai." Chat si era alzato, e Nemel con lui. "Noi andiamo alla Grande Casa a cancellare la nostra partecipazione. Buona fortuna, Ran."

E se n'erano andati davvero...

Stupido orgoglio un accidente!, pensò ora, marciando con irruenza.

I mercanti stavano al coperto, sotto le loro verande, sorseggiando bevande fresche. Lo guardarono brevemente, come per misurargli i soldi addosso, quindi tornarono alle loro occupazioni: quel rattoppato razziatore sayanni non aveva certo l'aria abbiente. La sua pelle pigmentata d'azzurro era piuttosto scura, segno che era cotto dai raggi solari; i suoi capelli erano privi di un'adeguata acconciatura; sua unica attrattiva era il corpo possente tipico della sua razza montanara, e la mancanza di tatuaggi matrimoniali che lo indicava ancora vergine...

Sì, ma ancora per quanto?, si chiese Ran con angoscia. Tra i sayanni tutti, maschi e femmine, erano dotati alla nascita di una membrana assai tenace, che pur non ostacolando le altre funzioni corporee impediva validamente l’accoppiamento fino alla sua rimozione. La cultura sayanni aveva visto in ciò un disegno divino e aveva fatto dell’illibatezza un valore assoluto. Solo il matrimonio, unico e indissolubile, giustificava la rimozione dolorosa di quell’impedimento, e ciò avveniva nella massima ritualità. 

Per questo i sayanni vivevano in una società totalmente paritaria, in cui le differenze sessuali erano solo funzionali alla prosecuzione della specie. Di qualsiasi casta fosse, un sayanni era tenuto a mostrarsi integro nel rispetto dell’antico ideale, e integro anche dal punto di vista fisico: non era difficile scoprire un disonorato che avesse perso l’illibatezza al di fuori delle regole, visto che in una cultura dall'erotismo abolito non si dava poi molta importanza alla promiscuità e alla nudità: uomini e donne non sposati si comportavano come individui asessuati e condividevano senza problemi gli stessi luoghi in cui vivere, lavarsi e compiere le proprie necessità fisiologiche.

Ran sapeva che le cose rare interessano più delle usuali, e quindi diventando schiavo avrebbe perso la sua benamata membrana, prodotto assai richiesto da femmine ormai disonorate, e dalla notoria perversione kelith. E Chat aveva avuto ragione, alla schiavitù ci stava andando assai vicino. Non c'era misericordia per chi faceva bancarotta nella Comunità. Il prezzo di ciò era un risarcimento salato a cui in genere non si poteva far fronte; e allora, inesorabilmente, sarebbe stato venduto ogni bene del fallito... compreso il fallito stesso.

Per tutti i demoni! Mi deve sempre andar tutto storto? pensò Ran, rabbiosamente. Ed entrò nella Grande Casa, fresca e silenziosa come sempre.

Passò per l'Atrio delle Informazioni, dove uno dei misteriosi Marjaban dalla pelle nera aspettava i clienti, con l'aria più paziente del mondo. Innumerevoli targhette erano appese alle pareti, con qualche parola, qualche simbolo che elencavano il contenuto: il testo era scritto sul retro, ma per leggerlo bisognava pagare, tanto più salato quanto era buona l'informazione. Erano note degli altri pirati vendute ai Marjaban, con garanzia di veridicità. I Pellenera decidevano il prezzo d'acquisto e di vendita, e non c'era spazio per contrattare. Del resto in genere i prezzi erano onesti, proporzionati alla ricchezza di dettagli delle informazioni. Una volta Ran aveva provato a vendere qualche notizia, ma il Marjaban gli aveva dato solo qualche spicciolo...

"Non è mestiere per te, sayanni. Queste notizie valgono molto poco, e tu rischi tantissimo: se qualcuno più matto di te volesse usarle e non le trovasse giuste, avrebbe tutto il diritto di ucciderti."

Nemmeno come informatore quindi Ran valeva molto. E sapeva benissimo il perché: un guerriero di bassa lega com'era lui, tale per diritto di casta, non aveva la cultura, l'eloquenza e la sapienza necessaria... non per nulla la maggior parte degli informatori di professione apparteneva alla casta dei t'yr, i saggi sayanni; oppure erano mercenari kelith, che erano liberi dai vincoli di casta ed apprendevano il mestiere in una scuola.

In molte cose i kelith erano superiori ai sayanni. Intollerabile! Quei deboli pervertiti pellebianca, dalla forza fisica nemmeno lontanamente paragonabile a quella del popolo azzurro, erano però i loro più mortali nemici. Dove le loro flaccide braccia non arrivavano, giungevano le macchine ingegnose che costruivano. Davano molta importanza alla sapienza, anche se poi la riservavano ai loro aristocratici depravati. Per un solido sayanni di montagna come Ran, essi costituivano nient'altro che una razza di topi...

Doveva essere per quello che lui sceglieva sempre obiettivi kelith: li riteneva più facili. E proprio la sottovalutazione delle sue vittime era la causa principale dei suoi fallimenti.

Ciò nonostante, cocciutamente, si apprestava all'ennesima impresa in Kelitha. Contò le sue monete e comprò un'informazione da poco prezzo: semplicemente la posizione di un grosso incrocio di strade, da cui era probabile intercettare il passaggio di qualche carro di merci. Quindi passò alla sala del Vortice. Non c'era nessuno davanti a lui, quindi il Marjaban di turno lo invitò subito ad entrare ed a mettersi all'interno del Cerchio.

"Dove vuoi andare?"

Ran nominò la posizione. Il Marjaban andò a studiare una gran mappa del mondo, seguendo delle linee con il suo indice nodoso e nero. Annuì, controllò le sue numerose clessidre, fece dei calcoli e quindi sentenziò il prezzo.

Ran deglutì.

"Prelevalo dal mio conto," disse, pregando di aver denaro bastante.

Il Marjaban controllò le sue tavolette, trovò quella di Ran, la contemplò con interesse.

"Hai fondi solo per un'altra missione oltre a questa. Dovrò avvertire Mastro Kurmaji, secondo le regole. Sarai convocato al ritorno. Possano gli dei darti un ricco bottino, poiché manca poco alla chiusura della stagione e alla presentazione dei bilanci delle squadre."

"C'è altra gente nei guai?"

"Molte piccole squadre, che sono più facilmente in difficoltà; ma anche qualche grande che ha assunto troppa gente e ora è sotto in liquidità." Lo sguardo ambrato del Marjaban si fissò in quello di Ran. "Ma è più facile per una grande squadra risollevare le proprie sorti. E il rischio è uguale per tutti i caposquadra, che abbiano o no tanti dipendenti. Tu poi non ne hai nemmeno uno..."

"Meglio soli che male accompagnati."

"Ognuno è libero di scegliere la propria strada per l'inferno," replicò tranquillamente il Marjaban. Diede a Ran il sacchetto con la Polvere, l'ingrediente indispensabile per il ritorno, e cominciò ad agitare le braccia, cantando la solita nenia.

E Ran vide tutto diventare nero, ma non si sgomentò. Si chiese se quell'oscurità potesse essere un buon simbolo per il suo futuro. In Sayanna gli avrebbero schiacciato la testa con il Grande Martello in quanto disertore. In Kelitha l'avrebbero destinato alla tortura per diletto di qualche ricco. A casa lo aspettava Mastro Kurmaji con la sua quieta minaccia di schiavitù...

Chat aveva ragione: era uno stupido orgoglioso. Ma Teji non l'avrebbe mai riassunto con vergogna.
Mai! 



 

 

 *

 

 

 

 

 

"È la terza festa del genere che Unari deve organizzare," commentavano salacemente alcuni ospiti nei favolosi giardini della residenza principesca di Shana, con le loro siepi curate all'inverosimile, i selciati a mosaici luccicanti, le garrule fontane che rinfrescavano l'aria già molto calda. La musica di abili suonatori si fondeva con il fruscio delle foglie dei cespugli di spezie.

"Questo è l'ultimo figlio della sua Prima tra le Prime," rispose qualcun'altro, indicando con quel termine la moglie principale. "Dopo di lui, Unari dovrebbe cercare un erede tra i cadetti... i figli delle sue schiave!"

"E questo non sarebbe molto onorevole," ribattè qualche voce.

"Come siete crudeli a spargere questi pettegolezzi!" esclamò un anziano ambasciatore. "Non è colpa di Unari-shir se i suoi eredi diletti sono morti, né la sua Prima tra le Prime ha lesinato gli sforzi per generare altri maschi. Tre eredi sembravano garanzia sufficiente per il nostro anfitrione, ma vedete come va il mondo... ora tutte le speranze di Shana sono riposte in quel principe laggiù."

E indicava l'erede, dalla caratteristica età indefinita dei nobili kelith: una figura dalla bellezza classica che molti guardavano con ammirazione. Il corpo era snello, agile e ben costruito, il volto giovane e maturo ad un tempo. Gli occhi erano penetranti, severi, specchio di intensi insegnamenti. Il suo autocontrollo era formidabile, i suoi pochi movimenti pieni di grazia.

"Si dice che sia un adepto della dea El," mormorò qualcuno. E c’era del timore in quella voce, perché ormai i templi della Misteriosa erano pressoché deserti, e ben pochi osavano apprendere il segreto di quel culto.

"Avrà ucciso lui i suoi fratelli?"

"Unari l'ha messo sotto inchiesta, ma l'ha scagionato..."

"Avrebbe avuto il coraggio di condannarlo?"

"Unari? Lui? È spietato con tutti. Ha fatto impalare un suo cadetto per aver insultato il precedente erede..."

"Sì, che voleva possedere sua madre!"

"Ma tanto non era che una schiava, no? Unari la poteva regalare a chi gli pareva, anche a suo figlio."

"Era suo figlio anche il cadetto."

"Ma un erede è infinitamente superiore! Di cadetti ce ne sono tanti, tutto sommato..."

"Quel ragazzo ci ha messo tantissimo, a morire..."

"Oh, sì. Uno spettacolo affascinante, lo ricordo benissimo."

L'indifferenza all'atrocità da parte dei nobili kelith era uno dei loro normali attributi, assieme all'albinismo accuratamente preservato nei secoli. Pelle quasi trasparente, occhi rossi e capelli bianchi erano segni distintivi della classe dominante di Kelitha, uno dei due vasti continenti del mondo da sempre in guerra contro l'altro, Sayanna. Per quello i sayanni dipingevano di bianco le effigi dei loro demoni.

Ma Deyan-shir, nuovo erede al trono di Shana, sapeva che ovunque nella sua terra sarebbe stato riconosciuto e onorato come nobile, invidiato dalla maggioranza degli altri kelith che erano sì di pelle chiara, ma con chiome ed occhi pigmentati. L'albinismo era un carattere recessivo che si trasmetteva alla progenie solo con matrimoni all'interno della casta. C'era stato un tempo in cui si era temuto che in questo modo la nobiltà kelith si sarebbe degradata col tempo. Ma non era stato così: l'unica debolezza di un albino kelith stava nella sua vulnerabilità alle radiazioni. La vigoria nascosta in Deyan non aveva nulla da invidiare a quella di un contadino abbronzato.

Unari lo guardava con orgoglio e dubbio insieme. Era talmente diverso da tutti gli altri suoi figli! Rassegnato al suo ruolo di terzogenito e quindi lontano dal potere, non aveva condiviso la passione per gli intrighi di tutta la sua famiglia: si era dedicato alle discipline e ai culti antichi rimanendo appartato nella sua ala di palazzo, con poche scelte compagnie. Una catena di tragedie ora lo portava ad essere il futuro principe di Shana, importante principato centrale tra i dodici in cui Kelitha era divisa. E Unari scopriva di non conoscere affatto quel figlio riservato e silenzioso...

Però prometteva bene. Aveva una maestà innegabile, il gusto per la semplicità che distingueva i veri nobili kelith di antico rango, e l'eleganza che impressionava doverosamente gli ospiti del principe. Si era vestito con una finissima tunica ricamata bianco su bianco, dalle maniche fluenti e stretta in vita da una duplice cintura. Al collo portava la lunga collana di opali che faceva parte del costume principesco, ma di questo aveva disdegnato il diadema piumato: i suoi capelli bianchi ondulati erano semplicemente legati in una coda sulla nuca. Portava i tradizionali calzoni legati stretti alle caviglie, e calzava leggeri mocassini da scherma al posto dei sandali ingioiellati dei suoi pari. Se ne stava a gambe incrociate sui cuscini del suo trono, sorridendo lievemente, accettando l'omaggio degli ambasciatori con naturalezza.

"Sarà un buon principe per Shana, mio signore."

Una voce femminile, l'unica possibile, accompagnò le riflessioni di Unari. Era la sua Prima tra le Prime, l'unica donna che poteva uscire dalla reclusione della shanda, sia pure pesantemente vestita e mascherata: di lei solo i capelli candidi e la bocca dipinta di un rosso violento si mostravano, secondo la ferrea tradizione kelith.

"Ovviamente, ora che è erede devo regalargli una shanda degna di lui," disse Unari. "Gli ho comprato dodici albine di pura razza, e un ragazzo sterile. Glieli porterò stanotte." Tossicchiò. "Il suo maestro mi dice che ormai si è impratichito alla perfezione nelle pratiche sessuali, ma che non mostra particolare predilezione per l'una o l'altra. Difficile dunque fargli il regalo giusto..."

"Hai comunque scelto bene, mio signore."

"Alcune ragazze sono vergini... nel caso che Deyan abbia anche questo gusto." Rise. "Una volta gli ho regalato una sayanni, e il suo maestro mi ha detto che si è dato da fare parecchio con lei."

"Di solito mio figlio non si diletta nella tortura, ma forse una nemica ha acceso in lui il giusto desiderio del dolore," replicò la Prima tra le Prime.

"A me personalmente rivolta l'idea di toccare un barbaro sayanni... ci sono i carnefici per questo." Unari fece una smorfia di disgusto. "E per la tortura preferisco avere prigionieri maschi, durano di più e resistono meglio di noi kelith al dolore." Un sospiro. "Ma Shana non è sull'Oceano, e gli schiavi sayanni li dobbiamo comprare a caro prezzo. Ne ho tenuto da parte uno per il festino di stasera, ma è l'ultimo che ci rimane..."
        "Povero marito mio," mormorò la Prima tra le Prime, con comprensione. "Speriamo nel prossimo assalto delle nostre flotte."

 

 

 

 

Deyan parlava con gli ambasciatori. Ascoltava gli anziani nobili di Itka, e Kayumi, e Deera, ed altri lontani principati kelith.

"Com'è la vostra terra?" chiedeva loro. 

Per tutta la vita non aveva visto che la bellezza desertica di Shana, e la striscia verde del fiume che lambiva i gradini del Tempio Segreto. Sapeva perfettamente cosa ci fosse oltre i confini della sua patria, ma non l'aveva mai visto con i propri occhi, sperimentato di persona...

Com'era il vento dell'Oceano sul volto? 

Cosa si provava ad essere sulla vetta di un'alta montagna?

Com'erano le città del Grande Nord?

Qualcosa in lui anelava alla libertà, e gemeva per averla perduta con quell'elezione a erede. Dietro alla sua espressione accuratamente controllata sognava sulle parole e le descrizioni degli ambasciatori: uomini saggi che avevano molto viaggiato, e sulle cui spalle poggiava l'armonia fragile tra i molti principati kelith.

Fare l'ambasciatore... ecco quale sarebbe stato il suo futuro preferito! Ma ora era un erede al trono. Finiti dunque i suoi studi profondi, le ore da trascorrere in lunghe letture, in esercizi fisici e mentali. E forse finite anche le sue cerimonie segretissime al Tempio, a cui il vecchio Krsyl lo aveva iniziato ancora giovanissimo. Un abisso di noia minacciava di aprirsi davanti a lui per inghiottirlo per sempre.

Quella sera assistette senza battere ciglio alla conclusione della festa, mentre attorno a lui i nobili assaggiavano delicatezze e assaporavano, chi più chi meno, le urla disperate del sayanni torturato a morte davanti ai loro occhi. Unari fu complimentato per la lunghezza e la squisitezza dello spettacolo, ma l'impassibilità dell'erede non mancò di suscitare qualche commento. Ma come, nemmeno un brivido di piacere nascosto? O di sano orrore? Il dolore in fin dei conti non era che un'altra delle cento spezie della cucina kelith... il dolore degli altri, beninteso, almeno in pubblico; ognuno poi nella sua shanda faceva quel che voleva per procurarsi piacere.

E Deyan provò di tutto per ottenerlo nella notte che trascorse con il dono paterno. Passò ore a scegliere le schiave più di suo gusto, le possedette, le fece possedere e si fece possedere, in tutti i modi più o meno gentili, dettati da tradizione o esperienza o pura inventiva, guardando, subendo, partecipando...

La mattina dopo si presentò al padre, in udienza privata, con l'insoddisfazione scritta in faccia.

"Padre mio, ti ringrazio del tuo dono."

"Hai scelto la tua Prima tra le Prime?"

"No."

"Come?" chiese Unari, alzando le sopracciglia con stupore. "La tua shanda non è forse di tuo gradimento?"

"Lo è, ma non posso goderla appieno, poiché il mio vero desiderio è un altro... Perdonami se ti sembro ingrato, ma sono qui a pregarti di esaudirmi. Poi, ti giuro, non ti chiederò più nulla."

"Cosa desideri dunque?"

"Viaggiare, padre. Per l'ultima volta, prima di restare a Shana per il resto dei miei giorni, così come richiede la nomina a erede. Desidero vedere il più possibile di Kelitha, prima di diventare principe reggente."

"Strana richiesta," mormorò Unari.

"Ti prego, padre!" esclamò Deyan, unendo le mani davanti a sé in un gesto di implorazione. "Ti assicuro che anche il benessere del principato è nei miei pensieri. Come ambasciatore potrò rendermi conto del potere dei nostri vicini e potrò conoscerli di persona. Devo vivere il mondo sulla mia pelle, perché anche i libri migliori non possono dare questa consapevolezza. Sarà il mio primo e ultimo viaggio fuori da Shana..."

Unari si sporse dal suo trono, fissò il figlio.

"Cosa ti manca qui, Deyan?"

"Non lo so, padre," rispose lui, con viva sincerità. "È quel che spero di capire."

Quella risposta commosse il principe, che sorrise.

"Ah, sì, sono stato giovane anch'io!... Sì, capisco il tuo desiderio. Ed è vero che quest'esperienza potrà esserti utile quando salirai su questo trono. Hai il mio permesso."

Una luce di gioia accese lo sguardo del giovane, e Unari pensò: In fin dei conti agisce come un uomo, ma ha ancora il cuore di un ragazzo.

"Ti farò preparare le credenziali come mio ambasciatore, e ti do cento giorni per il tuo viaggio. Avrai anche una scorta armata, perché gli attacchi di questi misteriosi predoni che scompaiono nel nulla stanno diventando ogni giorno più sfacciati. Prova a vedere se qualcuno sa da dove vengono. Parlane con gli altri governanti, e chissà che non si possa trovare una strategia comune per debellarli. Che questa sia la tua missione ufficiale, Deyan-shir!"

L'erede annuì, ma dentro di lui non c'era nemmeno un pensiero per quei predoni. L'unica cosa che contava per lui era viaggiare e liberare il suo spirito d'avventura...

E presto vi sarebbe riuscito.

 

 

 

 *

 

 

 

 

 

La stanza in cui Kurmaji, capo dei Marjaban, riceveva gli ospiti della Comunità era come l'interno di un forziere: interamente foderata di nobili legni rossi, addobbata con arazzi dai disegni piacevolmente astratti, con cuscini in pelle rara e bruciaprofumi d'oro massiccio. Egli si faceva sempre trovare seduto su un rarissimo tappeto dell'antichità kelith, con un vassoio accanto dove fumavano due minuscole tazzine di liquido aromatico, e una pipa dal lungo cannello tra i denti. Non c'erano segni su di lui che lo indicassero come capo, non richiedeva cerimonie particolari, e non aveva nemmeno guardie armate alla porta.

Ma tutti sapevano che era lui il vero capo della Comunità, il detentore del potere. Un capo dalla correttezza ineccepibile, dalla moderata avidità e dalla squisita cortesia. Nessuno gli avrebbe torto un capello, o avrebbe mai rubato le sue ricchezze: i membri della Comunità ammazzavano chi rischiava di offendere i Marjaban.

Ran lo salutò con sospettosa cortesia. Non si sarebbe mai abituato a quella gente, così diversa dalla sua, e dai suoi tradizionali nemici, i kelith. Erano così strani, i Marjaban! Avevano la pelle nera, con lineamenti schiacciati. C'erano poche donne tra di loro, ugualmente strane, che si adornavano in maniera bizzarra e parlavano una lingua sconosciuta. Nel tempo il loro gruppo non era mai cresciuto in maniera significativa. Controllavano le nascite, o erano una razza in via d'estinzione?

"Accomodati," invitò Kurmaji, indicando un grosso cuscino davanti a lui. Ran si sedette con un sospiro, accettò ritualmente una delle due tazzine di infuso e la sorseggiò. Mentre beveva occhieggiò la tavoletta posata sul basso tavolino: non sapeva leggere molto bene, ma riconosceva l'ideogramma del suo nome.

Kurmaji sembrò aver notato quello sguardo, poiché sospirò pesantemente e disse: "Avrei voluto invitarti qui per un motivo più gioioso, Ran."

"Non sono stato invitato, sono stato convocato."

"Dobbiamo discutere di questo problema da esseri civili e senzienti." Kurmaji sorseggiò il suo infuso. "Non fa piacere a nessuno, credimi, doverti dichiarare fallito ed esporti sul banco degli schiavi."

"Farà piacere a Teji. Esclamerà davanti a tutti: ecco, lo sapevo che finiva così. E la libera iniziativa andrà a farsi friggere."

"Teji ha cominciato da zero, Ran, esattamente come te. È stato più abile o fortunato, ecco tutto. Per mantenere la libera iniziativa, come dici tu, occorre pagare un prezzo: eliminare chi non è in grado di creare un'impresa redditizia."

Ran sospirò.

"Esaminiamo i tuoi conti," continuò Kurmaji, prendendo la tavoletta. "La tua situazione è tra le più critiche che abbia mai visto. La tua ultima caccia..." Scosse la testa, "Ma via, Ran! Che razza di bottino hai portato alla Cassa?!"

"Ho portato quello che ho trovato!" sbottò il sayanni.

"Meloni!" Kurmaji nascose a fatica un sorriso. "La frutta non è bottino ideale per un uomo solo. Le grandi squadre esperte in questo genere di razzie portano via interi raccolti, e tu cosa speri di ottenere da due kontar di meloni?!"

"Ho atteso tutta la giornata il passaggio di qualche ricco mercante!"

"Magari un orefice?" Kurmaji emise un borbottio dal ventre, un inizio di risata. "E quanti orefici pensi che transitino in un trivio di campagna?"

"Erano grandi strade! Così diceva l'informazione, ed era giusta. Ma non è passato nessuno, o quasi..."

"Erano grandi strade perché i kelith costruiscono grossi carri per i raccolti. Se tu avessi speso un po' di più, o fatto tesoro delle tue esperienze, sapresti che la regione che hai scelto, Saatka, è una delle più povere di Kelitha e vive di sola agricoltura."

Le gote di Ran divennero violacee per l'imbarazzo.

Kurmaji voltò la tavoletta verso di lui, mostrando i simboli fitti che la ricoprivano. "Leggi in fondo la cifra che rimane al tuo fondo, dopo il ritiro dei meloni da parte della nostra Cassa."

"Ma che prezzo basso mi avete fatto!"

"Il prezzo d'acquisto corrente."

"E che direste di darmi un anticipo sulle future entrate..."

"Quali entrate?" chiese il Marjaban, amabilmente. "Sei già ben dentro il tuo minimo scoperto, Ran."

"Il mio valore come schiavo vergine," annuì amaramente il sayanni.

"Il capitale che hai versato se n'è andato da un pezzo."

"Mi resta dunque soltanto una possibilità..."

"Anche applicando la minima tariffa possibile, un viaggio di andata e ritorno azzererebbe i tuoi fondi." Kurmaji aspirò un po' di fumo dalla sua pipa. "È per questo che sei stato convocato. Puoi scegliere di andare a stabilirti in qualche luogo di Sayanna e non tornare più: in tal caso scamperesti dal destino di schiavitù che ti aspetta qui. Hai soldi più che sufficienti per la fuga."

Ran mostrò la propria indignazione.

"Anche tu, Mastro Kurmaji, mi giudichi spacciato prima del tempo. Ho ancora una possibilità, e la userò come mi pare e piace. In quanto a tornare in Sayanna..." Ran sospirò. "Era la mia casa, ma sai che ho le mie buone ragioni per esser stato qui fino ad adesso."

"Una ragione assai pesante," annuì Kurmaji, con tiepida ironia. 

Ran scosse la testa. "La memoria lunga della giustizia sayanni è proverbiale. E poi il fatto di essere divisi in caste rende quasi impossibile per un condannato scampare alla punizione. No, non posso fuggire... e non voglio fuggire. Andrò fino in fondo alla mia strada."

Ci fu un lungo silenzio, e poi la voce di Kurmaji salì, stavolta senza alcuna ironia.

"Sei un uomo coraggioso, Ran." Il Marjaban si inchinò lievemente. "Hai tanti difetti, ma non la viltà. Ti rendo onore."

Ran sorrise brevemente a quelle parole, un lampo d'orgoglio brillò nei suoi occhi. Capì che l'incontro era finito, e si alzò dal suo seggio, inspirando profondamente. E fece per andarsene, ma la voce di Kurmaji lo raggiunse sulla soglia.

"Il tuo coraggio non ti faccia dimenticare come stanno le cose. Ricorda che hai una sola possibilità. Giocala bene, o tra poco sarai sul banco degli schiavi."

 

 

 

 *

 

 

 

 

 

La prima, naturale tappa del viaggio di Deyan non poteva essere che Itka, potente principato che confinava con Shana. Era più vasto e ricco di risorse di quest'ultima, e una volta le era stato nemico; ma era ormai storia passata.

Deyan era giunto alla capitale a capo di una carovana immensa: Unari non aveva badato a spese pur di dare al suo viaggio il giusto prestigio. Benché l'erede amasse disperatamente l'aria aperta, aveva dovuto entrare in città su un palanchino, dagli ampi tendaggi che l'avevano protetto dai raggi solari. E anche così, il riverbero della luce gli aveva irritato gli occhi, nonostante li avesse protetti sin dall’alba con una leggera maschera di cristallo verde. Ma aveva dovuto togliersela e farsi ammirare dalla gente di Itka, in pieno giorno e a testa scoperta secondo la consuetudine, affinché tutti vedessero che era un nobile.

Era stata la prima volta che Deyan aveva sentito il suo albinismo come una menomazione. La persone comuni, con le loro teste multicolori e gli occhi dalle iridi scure, l'avevano osservato con invidia: non sapevano quanto lui avesse invidiato loro, liberi di andarsene a piacimento senza dover sempre attendere la penombra della sera...

Assieme a lui erano giunte alcune sue sorelle, che Unari aveva deciso di regalare alla shanda di Estsen, il principe di Itka. Deyan non le aveva mai viste, ma poteva immaginare com'erano: bianche, eteree bellezze adolescenti, addestrate fermamente nella convinzione di non essere nulla di fronte a un uomo. Le loro madri si erano vergognate di partorirle; erano state cresciute nel chiuso della shanda, poi la Prima tra le Prime aveva giudicato spietatamente la loro bellezza, da cui sarebbe dipeso il loro destino: alle fanciulle albine non si poteva perdonare la bruttezza. Per le sfortunate (o fortunate, forse) c'era la morte, rapida e indolore. Ma chi poteva commuoversi al loro destino? Non erano che femmine.

Se non fosse stato per il fatto che i maschi erano bene accetti a prescindere da ogni bellezza, gli albini kelith si sarebbero somigliati tutti come fratelli. Ma Estsen era diversissimo da Deyan. Era basso e tarchiato, con un volto squadrato a cui il taglio arruffato dei capelli, in quel momento di moda, dava un'aria sciatta e volgare. Uomo non più giovane, si vestiva in maniera sfarzosa come un pavone del deserto, e aveva un patrimonio di gioielli addosso che scintillavano a ogni suo movimento. Accolse l'ospite dalla sua immensa balconata drappeggiata a festa, stando seduto su un trono pomposo con candide fanciulle avvolte in veli che lo servivano.

Deyan restò sconvolto a quella clamorosa mancanza di educazione: schiave fuori dalla shanda ed esposte agli sguardi di tutti! Ci volle il suo sublime autocontrollo per non rivelare il suo disgusto.

"Benvenuto nella mia casa, giovane ambasciatore," esordì Estsen aprendo con ostentazione le credenziali che una delle guardie gli aveva recato.

Altra grave leggerezza: Deyan non era poi così giovane da poter essere trattato con condiscendenza, ed essendo un erede al trono avrebbe meritato la citazione del suo intero nome nobiliare.

"Sono Shana-iban-Unari Deyan-shir," proclamò, ovviando a quella mancanza, ma dentro di sé pensò: Dunque tutta l'educazione che mi è stata impartita non è che un codice vano di comportamento, se un principe potente non lo segue nemmeno? "Ti porgo il saluto fraterno e sincero del mio signore e padre, Shana-iban-Vayua Unari-shir, principe di Shana e membro dell'Augusto Consorzio. Ti ringrazio della tua ospitalità e ti chiedo rispettosamente di accettare i doni che ho recato appositamente per te."

Fece un gesto, e i servi cominciarono a posare a terra rotoli di stoffe pregiate, contenitori di spezie rare per cui Shana era famosa, penne variopinte degli uccelli del deserto; quindi le guardie posarono i palanchini delle sorelle di Deyan.

Due grassi eunuchi vestiti in modo sgargiante si avvicinarono ad essi, per controllare che contenessero effettivamente delle donne e non degli assassini. La grossolanità di quell'ispezione era al limite della decenza. Ma naturalmente Deyan non aveva nulla da nascondere, e infatti gli eunuchi diedero degli ordini e i servi di Estsen presero in consegna i palanchini, portandoli verso i cancelli della shanda. L'erede sospirò pensando con un pizzico di pietà alle sue sorelle, che avrebbero trascorso la vita al servizio di quell'individuo crasso. Poi ricordò che nella propria shanda doveva esserci una delle svariate figlie di Estsen... sì, ma chissà chi era...

"Ah, delle nuove schiave. Ti ringrazio, Deyan-shir. Hai visto, Tasia? Provvedi a prepararmi quelle ragazze per domani."

Si era rivolto alla sua Prima tra le Prime, che era uscita dall'ombra del colonnato, in un frusciare intenso del suo immenso mantello luccicante.

Deyan restò folgorato da quell'apparizione.

Si poteva credere che un nobile kelith fosse incapace di ammirare una donna, avendo la shanda a disposizione, e non potendo incontrare altre albine al di fuori di essa, se non le altrui Prime tra le Prime, pesantemente vestite e mascherate. Ma l'informe massa di stoffa che avviluppava Tasia non poteva nascondere la grazia del suo passo, qualcosa di misteriosamente sensuale che colpì la fantasia più segreta di Deyan.

"Mio signore, è giunto dunque il tuo ospite?"

Quella voce... dal tono profondo e tenero. E quelle labbra di corallo, lucide del tradizionale rossetto, assolutamente perfette, che quasi danzavano nel pronunciare le parole...

"Eccolo, Tasia; il nobile ambasciatore di Shana, un ospite molto speciale: è Deyan-shir, l'erede al trono, in viaggio per Kelitha alla ricerca dei misteriosi predoni dal Nulla."

La donna si voltò verso Deyan, fingendo di averlo visto solo in quel momento. Per un lungo istante gli parve che lei lo studiasse, da dietro quell'impenetrabile maschera.

Poi la sua voce uscì di nuovo, calda come il vento del deserto. "La corte di Shana ha fama di essere raffinata ed elegante, nobile Deyan-shir. Faremo il nostro meglio per esserne all'altezza."

"Ti prendi gioco di me, nobile signora. La corte di Itka è di molto superiore alla mia per magnificenza e splendore."

Era riuscito a mantenere la voce impassibile? Ah, se avesse potuto comprare quella donna! Ne avrebbe fatto la regina della sua shanda e non se ne sarebbe mai stancato...

"Sarai stanco dopo questo viaggio, Deyan-shir." La voce di Estsen lo trasse a forza dalle sue fantasticherie. Il principe richiuse le credenziali, sorrise. "Ho destinato uno dei miei quartieri a te e al tuo seguito. Festeggeremo degnamente il tuo arrivo e parleremo della tua missione stasera, quando i nostri soli tramonteranno e ci lasceranno alla frescura della sera."

Ci sarà anche lei? si chiese Deyan, guardando con la coda dell'occhio Tasia che si allontanava. E si stupì che una donna simile potesse appartenere a un uomo così grossolano come Estsen. Lui non la meritava affatto!

Un pensiero oltraggioso, assolutamente folle cominciò a penetrare nella sua mente, il desiderio insano di avere quella donna per sé. Era un proposito scandaloso, perché Tasia era la Prima tra le Prime, una donna intoccabile di cui Estsen era giustamente e spaventosamente geloso. Tutta l'educazione di Deyan, tutte le leggi scritte e non scritte vietavano anche solo formulare un simile pensiero...

Nondimeno, proprio perché il suo essere anelava a qualcosa di impossibile, sentiva una strana passione impadronirsi della sua anima. Tutto gli parve improvvisamente più vivido, più splendido intorno a lui, il suo cuore si dilatò pompando più sangue, l'aria sembrò più ricca e fece divampare il suo fuoco interiore.

Era la vita che finalmente lo chiamava.

Battè le palpebre e si rese conto che solo un istante era trascorso, e che nessuno si era accorto di cosa gli era successo nel frattempo. Ma l'uomo che si inchinò a Estsen e seguì i suoi intendenti non era più quello che era giunto dal deserto.

Chi era, non lo sapeva neppure lui.

 

 

 *

 

 

 

 

 

C'era sempre una parte della notte che vedeva addormentati sia gli albini che i kelith comuni. Le fresche ore prima dell'alba invogliavano al sonno, nel silenzio totale della città.

Tutti dormivano nel palazzo di Estsen. Tutti, tranne Deyan, che aveva partecipato alla festa con compassato piacere, moderato nel cibo e nel vino, senza approfittare delle candide ragazze che l'anfitrione gli aveva gentilmente offerto. La corte del principe aveva giudicato quell'atteggiamento come una dimostrazione di solenne temperanza da parte del futuro principe di Shana, forse un po' eccessiva; ma ad ogni buon conto nessuno aveva avuto da ridire al proposito.

E Deyan era riuscito perfettamente a dare di sé l'immagine voluta: un uomo all'antica, gelidamente superbo della propria educazione gentilizia, capace di guardare all'intemperanza altrui con un cenno appena rilevato delle bianche sopracciglia.

Se Estsen avesse solo immaginato che, dietro a quell'impassibilità, il suo ospite aveva studiato attentamente il suo palazzo, gli ingressi e le finestre, secondo la propria educazione militare...

E ora, se qualcuno avesse visto Deyan non avrebbe creduto ai propri occhi. Avrebbe creduto piuttosto in una visione.

Invece l'erede al trono di Shana era là, aggrappato ai cornicioni intagliati, vestito completamente di nero, con un cappuccio che celava i suoi capelli bianchi, un rampino fasciato di seta in una mano ed una corda nell'altra. Il suo corpo addestrato da duri insegnanti metteva in pratica i lunghi cicli di allenamento in quell'assurda prova di coraggio. Provava una sensazione unica, esilarante, mentre lasciava che il suo corpo si muovesse da solo avanzando a mezz'aria, ad altezza considerevole, verso le finestre più proibite del quartiere di Estsen.
      Dopo la prima, inevitabile incertezza, un'incosciente felicità aveva preso possesso di lui. Non si era mai sentito tanto vivo, in tutta la sua esistenza da recluso nelle mura dorate di Shana. Era quello che aveva cercato, chiedendo al padre di viaggiare? 

Una delle guardie di ronda svoltò nel colonnato, sbadigliò. Deyan restò appeso con una mano al cornicione, perfettamente immobile, senza nemmeno respirare. Solo quando la guardia scomparve nel suo giro di ispezione egli si mosse, balzando con agilità felina su uno dei balconi sottostanti.

Aprì la finestra senza il minimo rumore. Dentro lo accolse un buio quasi totale. Sentì l'odore dell'aria e lo riconobbe: il lieve sentore d'urina che emanavano gli eunuchi, a cui i kelith mozzavano anche il pene: in questo modo soffrivano perennemente di incontinenza. Ma tale era l'ossessiva gelosia dei nobili per le proprie donne che in nessun altro modo avrebbero permesso ad un maschio di vederle... con l'unica eccezione del ragazzo sterile, che comunque era recluso a vita come le schiave e considerato pari loro: uno strumento di piacere.

Deyan sorrise dentro di sé: quell'odore era sgradevole, ma era segno inequivocabile della vicinanza della shanda. Attraversò dunque la stanza in punta di piedi, scavalcando i corpi russanti degli eunuchi. Aprì appena la porta, guardò nel corridoio.

Deboli luci qua e là illuminavano fiocamente un lungo tunnel di arabeschi. Uno degli eunuchi, nel suo sgargiante costume, camminava su e giù nel suo turno di guardia. Deyan seppe così di essere a un passo dal bersaglio, e il suo cuore battè più velocemente. Attese con pazienza che l'eunuco passasse la porta dietro alla quale era appiattato; poi sgusciò fuori, si avvicinò silenziosamente alle sue spalle, gli rovesciò di colpo la testa all'indietro, tappandogli fulmineamente la bocca con una mano mentre l'altra cercava la carotide scoperta. Un'abile pressione, e l'eunuco scivolò a terra privo di sensi.

Deyan gli tolse il grande mantello multicolore e se lo avvolse intorno al capo e alle spalle, nascondendo i propri abiti neri che l'avrebbero tradito. Quindi spinse il corpo esanime nella stanza degli eunuchi e, sempre in perfetto silenzio, richiuse la porta.

Era solo nel corridoio, e non poteva essere altrimenti, perché chiunque non facesse parte della shanda sarebbe stato messo a morte se trovato là dentro. Cominciò a controllare le varie stanze, spiando attraverso le grate degli arabeschi. In una vide diversi corpi femminili svestiti addormentati in mezzo a grandi cuscini, una visione celestiale che tuttavia non suscitò nulla in lui. In un'altra alcune schiave riposavano nei loro letti: non erano state prescelte per quella notte. In un'altra ancora, Deyan vide lo stesso Estsen che russava, beatamente abbracciato al suo ragazzo e a una schiava dalle forme infantili.

Nella stanza successiva vide lei.

Luna di Fuoco, appena sorta, infrangeva la sua luce aranciata contro la grata della finestra, giocando con mille ricami d'ombre sul corpo nudo di Tasia, serenamente addormentata nel suo letto immenso.

Deyan ebbe un tremito interiore, restò a contemplarla benché ciò aumentasse a dismisura il pericolo che correva. Era bellissima, ancor più bella di quanto lui avesse potuto immaginare vedendola vestita. Il suo corpo era perfetto, liscio e ondulato come una distesa di dune; il suo volto abbandonato nel sonno era di squisita dolcezza. I lunghi capelli candidi, non più costretti nell'acconciatura tradizionale, si spargevano sul cuscino in onde setose.

Deyan sapeva che, solo per aver visto quel che aveva visto, avrebbe meritato la più orribile delle morti. Ma volle andar oltre. Entrò nella stanza, si slacciò la larga fusciacca nera che serrava la sua tunica in vita, si avvicinò al letto e con un gesto fulmineo bendò gli occhi della donna.

Lei si svegliò di soprassalto, fece per alzarsi di scatto.

"Che succede?!" esclamò, ma la mano di Deyan, forte e tenera, le premette la bocca per farla tacere, la accarezzò sulle gote di vetro.

Tasia si rilassò, sorrise adorabilmente.

"Ah, sei tu, mio signore... e vuoi giocare ad un nuovo gioco, non è vero?"

Deyan si sentì un ladro, vedendo la cieca fiducia che lei aveva nel suo insulso padrone. E la cosa lo eccitò.

"Perché non parli, mio signore?"

"Ssst," fece lui, posandole un dito sulla labbra. Si strappò di dosso i vestiti, la inchiodò con le braccia al letto per non lasciarsi toccare; quindi affondò dentro di lei, provando il più sublime piacere che avesse mai sperimentato.

E nel turbine dei suoi pensieri si chiese cos'era a renderlo così temerario. La bellezza di Tasia? O la consapevolezza dell'atroce delitto che stava commettendo contro tutte le leggi dei kelith?

"Estsen-shir!" ansimava Tasia, gioiosamente, travolta da quell'ardore, "Oh dei!... Che ti è accaduto?!... Non sei mai stato così con me..."

Deyan si mordeva le labbra per non lasciarsi sfuggire un solo suono. A quel punto non gli interessava più essere scoperto, ma voleva assolutamente che quel piacere non finisse.

"Estsen-shir! Estsen-shir!!!..." gemeva lei, sempre più forte.

E all'improvviso la porta della stanza si spalancò, la luce di una torcia chimica la invase.

"Che succede, Tasia..."

Era il principe Estsen, nudo, ancora assonnato.

Ma i suoi occhi si aprirono di scatto nel vedere la scena orrenda che si parava davanti a lui.

In quel momento Deyan seppe di essere un uomo morto, ma proprio quello spinse i suoi sensi oltre ogni limite: lanciò finalmente un ruggito liberatorio lasciandosi possedere dal suo ultimo, fatale orgasmo, davanti allo sguardo esterrefatto del padrone di casa.

Tasia si irrigidì sentendo quella voce sconosciuta, lanciò uno strillo di puro terrore che si fuse con l'urlo di suprema rabbia di Estsen.

"...Che tu sia maledetto!!!"

Deyan si staccò con riluttanza dal corpo di Tasia, che si dimenava ora come una belva impazzita. Gettò uno sguardo verso la grata della finestra: era saldata al muro. L'unica via di scampo era attraverso la porta. E là c'era Estsen, che urlava come un folle.

Gli eunuchi corsero da lui, affannosamente, tremanti di paura. Estsen li aggredì immediatamente: "Chiamate le guardie armate! Arrestate questo farabutto! Lo voglio vivo, capite? Vivo!..."

"Mio padrone, ma la tua shanda..."

"Non ho più una shanda, maledetti incapaci! È stata violata!"

Estsen lasciò la luce della porta, barcollò nei corridoi.

"Guardie! Entrate pure! Avete il permesso!..." Era con le lacrime agli occhi e la bava alla bocca. "Avete lasciato che uno straniero sputasse sul mio onore, la mia casa, il mio letto!..."

La povera Tasia, innocente, piangeva di vergogna.

"Chi sei, tu che hai osato questo?!..." singhiozzò, disperata. E poi, riconoscendolo: "Oh dei!...Deyan-shir!..."

Lui le sorrise in risposta. Sapeva che ormai non aveva più scampo. Per cui si rivestì con suprema tranquillità, mentre gli eunuchi alla porta lo fissavano sconvolti.

"Mettete a morte tutti questi dormiglioni!" urlava Estsen, inferocito, e le sue urla si sentivano per tutto il palazzo. "Vendete tutte le schiave! Castrate tutte le sentinelle!... Non voglio più entrare in questo luogo contaminato! Prendete quel sacrilego e trascinatelo davanti alla mia ira!..." 

 

 

 

 *

 

 

 

Ran si presentò spavaldamente alla Grande Casa. Aveva contato i propri miseri fondi per tutta la notte. Molti avrebbero passato il tempo pianificando con cura l'ultima missione, ma lui si era reso conto definitivamente di non esserne capace. Non sono un bravo predone, si era costretto ad ammettere davanti ad un capace otre di vino forte. E dopo aver bevuto fino ad addormentarsi, aveva deciso di giocare il tutto per tutto, o meglio di affidarsi al caso e che andasse pure come doveva andare.

Passò attraverso l'Atrio delle Informazioni senza fermarsi, ignorando lo sguardo stupito del Marjaban di turno. Andò alla Sala del vortice, attendendo con impazienza il proprio turno. E quando fu all'interno del Cerchio, alla domanda del Marjaban che gli chiedeva dove voleva andare, egli indicò a casaccio un punto sulla superficie di Kelitha, senza specificare altro. 

Il Marjaban lo guardò con un po' di compassione mentre lo mandava verso l'ignoto che aveva scelto.

 

 

 

 *

 

 

 

 

Nel Recinto Sacro gli enormi avvoltoi ammaestrati stavano sui loro giganteschi trespoli, attendendo il loro turno. Più rapaci di loro, i nobili della corte di Itka osservavano cosa avveniva là dentro, con un'attenzione morbosa, ben coperti dai servi con enormi ombrelli multicolori. Molti mormoravano tra di loro, ancora  sgomentati da ciò che li aveva condotti, così inaspettatamente, in quel teatro di morte.

"Deyan-shir!" aveva tuonato Estsen nell'improvvisata corte di giustizia che aveva seguito quella notte infame. "Voglio sapere perché hai osato commettere un delitto così nefando!... Ti ho accolto nella mia casa come ambasciatore onorato. Eri tenuto a un comportamento decoroso. Eppure con fredda, lucida determinazione hai violato la mia casa, sei entrato nella mia shanda, hai visto la mia Prima tra le Prime, l'hai posseduta!..." La sua voce era salita in un urlo. "Non potrò mai più toccare Tasia senza sentire il tuo odore su di lei! Hai tradito i vincoli sacri dell'amicizia, dell'onore, dell'ospitalità... tu, un principe come me!"

E Deyan, legato con le mani dietro alla schiena, ancora con gli abiti neri della sua impresa addosso, aveva risposto sprezzantemente: "Smettila di urlare, Estsen-shir! È vero, ho commesso un delitto per cui non c'è perdono, e non mi abbasso a chiedertelo. Non inveisco contro il destino, contro gli dei, contro me stesso e contro le nostre leggi. Non piango sul mio fato enumerando ciò che ho perso stanotte. Non grido come un cane ferito e non mi lamento davanti a tutti come un istrione da strada. Siamo ambedue principi, ma sei tu a doverlo ricordare, non io!"

La corte era ammutolita a quell'incredibile impudenza.

Estsen si era calmato di colpo, come se le parole sferzanti di Deyan l'avessero schiaffeggiato in mezzo ad una crisi isterica. Aveva respirato profondamente. E la sua voce era uscita sottile e mortale.

"Va bene, Deyan-shir. Sei bravo ad insegnare a un principe regnante come si deve comportare... ebbene, ti ricambierò il favore, e ti insegnerò a mia volta qualcosa di memorabile."

Tutti avevano compreso cosa intendeva.

"Signore," aveva mormorato il Primo Magistrato, sconvolto, "non possiamo farlo. In una contesa tra principi l'arbitrato è dell'Augusto Consorzio..."

"Taci, vecchio!" aveva urlato Estsen. "Voglio vendicare il mio onore! Chi mi nega questo diritto sacrosanto?!"

Nessuno aveva osato fiatare. Ed Estsen aveva sorriso, con ferocia.

"Anch'io farò l'inconcepibile, Deyan-shir. Ricordando che sei un principe, e che il tuo corpo non può essere toccato dal ferro e dal fuoco."

L'ambasciatore sacrilego era stato accompagnato in un sotterraneo rivestito di tappeti antichi, con corde di seta al posto delle catene, cassette di legno raro con strumenti misteriosi placcati d'oro, e carnefici puliti e ben vestiti come medici. Deyan non aveva mostrato paura, ma un freddo interesse: era la prima volta, a memoria d'uomo, che un uomo della sua stirpe affrontava la tortura invece di assistervi. La lezione che era seguita era stata spaventosa, ed egli aveva scoperto che quelle pratiche crudeli non avevano come bersaglio il corpo: questo era solo uno strumento per raggiungere e distruggere l'anima dentro di esso.

Solo la notte successiva le guardie avevano trascinato fuori quel che restava di lui, portandolo nel Recinto Sacro. L'avevano legato alle colonne dell'altare, a torso nudo, in modo che affrontasse la luce dei soli al loro sorgere appaiati: un supplizio che ogni albino era educato a temere come il più terribile. Una maschera di cuoio gli era stata posta sul viso, affinché non si potesse vedere pubblicamente la sua faccia in agonia. Gli avvoltoi sacri avrebbero aspettato fino alla sera per banchettare sul condannato ancora vivo. Che Unari ardisse protestare per quella morte così atroce, se ne aveva il coraggio!

Deyan aveva atteso l'alba con coraggio e pazienza, senza un lamento, stupito da sé stesso e dalla propria resistenza. Dolore e stanchezza avevano portato il suo spirito a vette di sublime acutezza. Aveva pensato alla sua dea, all'esperienza trascendentale che presto avrebbe fatto.

Quindi erano giunti i grandi nemici degli albini, i due soli. Illusoriamente belli all'inizio. Poi feroci nel loro bagliore appaiato, il grande giallo che scaldava come un forno, il piccolo azzurro la cui luce era un coltello. Deyan aveva sentito per ore quei raggi spietati affondare nella sua pelle trasparente, incendiarla, riempirla di vesciche, lacerarla. Era come essere bruciati vivi molto, molto lentamente...

Che ironia morire a questo modo per una donna, proprio io, un nobile kelith!, pensò alla fine, sull'orlo del delirio. Ma no, non era per Tasia che aveva gettato via la vita: era per il proprio desiderio, per la sua perpetua, sognante insoddisfazione. E conoscere quell'abisso dentro di lui era stato precipitarvi dentro, senza speranza di resurrezione...

Una campana lontana batté un cupo rintocco, soffocato dall'aria torrida e secca.

"È l’ora, nobile signore."

Chi stava parlando, dietro a lui?

"È cosciente? Non ha emesso nemmeno un lamento!"

"Credo che lo sia, nobile signore. Ma è arrivato allo stremo delle forze."

"Non deve morire troppo presto."

Deyan sentì confusamente che gli versavano dell'acqua sulla testa. Mise a fuoco le immagini febbricitanti che vedeva attraverso gli occhi semiaccecati, e si rese conto di fissare il volto ironico di Estsen ad un passo dal suo.

"Bravo, Deyan-shir. Hai resistito meglio di quanto mi aspettassi. Hai dimostrato il diritto divino che noi albini abbiamo a governare Kelitha. Diremo a tuo padre Unari che saresti stato un buon erede per Shana... se solo non avessi amato il sacrilegio più del tuo stesso sangue." Estsen si rivolse ai carnefici. "Lasciatelo qui, e andate fuori dal Recinto. Darò il segnale agli avvoltoi sacri, che mettano fine loro allo spettacolo!"

Deyan fu lasciato solo al centro dello spiazzo. Sapeva che stava per essere divorato vivo, ma non provava alcuna paura: almeno quella era una morte rapida, meglio della lenta agonia sotto quei soli spietati....

Si era fatto un profondo silenzio nel Recinto. Gli avvoltoi scrollarono le penne, innervositi. Insieme a tutti, aspettavano solo il momento in cui Estsen avrebbe preso il suo fischietto dorato per dar loro il segnale di attacco.

Il principe di Itka portò alle labbra quello strumento fatale.

E all'improvviso si udì un torrente di imprecazioni provenire dallo Stallo dei Guardiani. 

"Non ho chiesto nemmeno se sarei arrivato di giorno o no! Dei del profondo, ma dove diavolo sono finito? Con questo buio non vedo nulla..."

Si udì un tramestio dallo Stallo, e poi una figura rattoppata uscì fuori, batté le palpebre alla luce del giorno.

"Sayanni!..." gridò qualcuno, atterrito, e quel grido fu ripetuto da tutti i nobili in un crescendo isterico. Molti si prepararono alla fuga.

"Fermi!" urlò Estsen. "Deve essere uno schiavo fuggitivo!"

Il sayanni riuscì a vedere coloro che lo fronteggiavano. Spalancò gli occhi e la bocca ed esclamò:

"Per Kamoh e Lilia!... Kelith Bianchi!" Si voltò intorno, stupefatto. E soggiunse a voce alta: "Quanti sono?! Ma questo non è un palazzo principesco... che ci fanno qui tutti questi nobili?! E in pieno giorno, per giunta!"

"Guardie, uccidetelo!" urlava Estsen, mentre la sua corte in preda al panico faceva a gara a chi raggiungeva prima i palanchini. E soffiò forte nel suo fischietto.

Il sayanni si vide arrivare contro le splendenti guardie principesche, e reagì impugnando la sua lancia come un'alabarda, gridando: 

"È ancora da nascere il pellebianca che fa paura al grande Ran!"

Aveva invece una paura matta: essere catturato vivo da quei nobili kelith significava qualcosa di ben peggiore della morte! Ma vide che anche i suoi avversari avevano paura di lui: colti alla sprovvista, non avevano recato con loro le consuete diavolerie che si usavano nelle spedizioni contro Sayanna. In uno scontro puramente fisico un sayanni era enormemente avvantaggiato, grazie alla sua superiore forza e resistenza.

Estsen aveva commesso un errore a lanciare gli avvoltoi mentre i suoi soldati cercavano di avvicinarsi all'intruso: diversi uccelli attaccarono infatti costoro, cacciando gli artigli nelle loro schiene e dilaniandoli con i becchi ricurvi. La confusione nel Recinto divenne indescrivibile, mentre al di fuori i nobili fuggivano precipitosamente per mettersi in salvo.

Ran abbatté un paio di avvoltoi e attaccò urlando alcune guardie kelith che, seppur ferite, cercavano ancora di ucciderlo. Il combattimento non ebbe storia e i cadaveri delle guardie giacquero al suolo a far da nutrimento per gli avvoltoi. I grossi uccelli, soddisfatti di quel che già avevano, cessarono ogni attacco e si posarono intorno ai corpi sanguinanti con un tetro frullio di ali.

Tutto era durato soltanto pochi istanti. In quel bizzarro momento di pace, Ran si terse ansimando il sudore dalla fronte e si toccò i graffi che un avvoltoio aveva inciso sulla sua coscia. Si guardò intorno: nessun nemico vivo in vista, erano tutti scappati. Poi osservò i cadaveri delle guardie, chiedendosi come avrebbe potuto cacciare quegli uccellacci per spogliarli delle armi...

Notò solo allora il kelith mascherato legato alle colonne, a poca distanza dal luogo dello scontro. Incuriosito, gli si avvicinò, brandendo con circospezione la sua lancia. Poi vide qualcosa che lo sconvolse: lunghi, bianchi capelli scarmigliati scendevano sulle spalle ustionate del condannato... spalle che non potevano certo appartenere a un vecchio.
      "Dei del profondo!" mormorò, avvicinandosi con maggior decisione. "Adesso torturano anche gli albini, questi pazzi?!"

Si chinò esitando su quella misera figura, le tolse la maschera. Gli occhi intensi, stremati del kelith si aprirono fissandolo a lungo.

"Sei... ancora vivo!" esclamò Ran, stupito. Ed impulsivamente tagliò le corde che lo legavano, sostenendolo con un braccio.

Deyan annuì, senza trovare la forza di parlare. Chi era quel sayanni? Cosa ci faceva un sayanni a Itka? Cos'aveva intenzione di fare?

"Ma tu hai gli occhi rossi. Sei un nobile, dunque!"
       Di nuovo Deyan annuì.

Delle voci si udirono, lontane: altre guardie di Estsen stavano arrivando.

Ran si volse all'intorno, nervosamente. "Non ho molto tempo," disse quasi a sé stesso. "Tra poco circonderanno questo posto, e allora addio... Evidentemente devi essere tu il mio bottino, kelith, visto che non posso portarmi via nient'altro da questo posto schifoso." Alzò le spalle. "Beh, se sei un nobile, avrai pur un qualche valore."

Sollevò Deyan con irrisoria facilità e se lo caricò sulle spalle come un sacco, correndo di nuovo nello Stallo, alla ricerca del posto più nascosto e buio di quel luogo.

Quando le guardie di Estsen giunsero al Recinto, non trovarono più né il sayanni né il condannato a morte. E per quanto cercassero in ogni angolo, non scoprirono nemmeno le loro tracce.

Era come se fossero ambedue scomparsi nel nulla. 

 

 

 

  
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