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Autore: viktoria    26/01/2013    2 recensioni
Tra i congiurati, fra il 65 e il 66, furono uccisi o costretti al suicidio, oltre a Pisone, Seneca, Marco Anneo Lucano, Rufrio Crispino, Petronio Arbitro, Fenio Rufo, Subrio Flavo, Sulpicio Aspro, Massimo Scauro. Altri membri vennero invece esiliati o screditati.
Tutti li ricorderanno sempre.
Ma degli altri? Degli amanti, degli schiavi, dei liberti che morirono per amore dei loro padroni? Chi si ricorderà di loro?
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Camminavo svelta per le strade di quella città ormai invivibile.

Io, una donna.

Il velo che mi copriva la testa ma le caviglie scoperte.

Ansante.

Dovevo fare presto, dovevo salvarlo. La sua vita adesso era tutta nelle mie mani, le mani di una schiava, una prostituta. Entrai in quel piccolo palazzo dalle anguste scale in legno che conoscevo fin troppo bene, salì le scale di corsa cadendo diverse volte. Le mie ginocchia mi reggevano ormai a stento. Ero stanca, senza forze. Aprì la porta e l'odore della carta come sempre mi investì in pieno viso. Era l'odore dei suoi libri, dell'inchiostro che utilizzava per scrivere.

- cosa stai facendo?- gli chiedevo spesso quando, dopo una notte d'amore, lui aveva ancora la forza per alzarsi e sedersi a scrivere. I rumori di fuori sembravano non disturbarlo affatto.

-Scrivo.- mi rispondeva sempre con un sorriso soddisfatto.

Non alzava mai gli occhi dalla sua opera quando si metteva a lavoro. Rimaneva imperturbabile davanti a quel rotolo con milioni di segni illeggibili. Chissà cosa narrava la sua storia.

- puoi leggermi un passo?- gli domandavo sempre con un sorriso spaventato. Timorosa.

- Non ho ancora finito.- mi rispondeva sempre con quella voce ferma che non ammetteva repliche, quella voce da uomo che io, donna, non potevo mettere in discussione.

Avrei tanto desiderato saper leggere. Potermi sedere sulle sue ginocchia e scrutare le pagine della sua opera, perdermi negli scenari descritti, in un mondo meraviglioso lontano dalla puzza opprimente di quella città.

Dicevano che una volta era stata splendida. Che per molti lo era ancora. Eccelleva per le sue scuole di filosofia e di retorica, per l'architettura e l'arte. La nostra era la migliore forma di governo al mondo.

Per me tutto quello non esisteva.

Esisteva solo la locanda in cui ero nata e cresciuta. La faccia di Davia che mi accoglieva ogni giorno con disprezzo quando tornavo con pochi soldi in tasca.

- non dovresti più andare da quello squattrinato scrittore, è colpa sua se vai sempre a letto senza cena.- mi faceva notare ogni sera. Ed ogni sera io non l'ascoltavo.

Sapevo che aveva ragione. Che avrei potuto trovare altri clienti che mi pagassero bene. Ero bella dopo tutto. Davia mi considerava un investimento e si prendeva cura di me, della mia pelle, dei miei capelli. Aveva voluto che li facessi crescere e che li tenessi raccolti. Me li lavava ogni sera e me li ungeva con oli per proteggerli. Non potevo sperare in un trattamento migliore.

- I tuoi occhi, piccola mia, potrebbero far innamorare anche l'imperatore.- mi lodava sempre quando al mattino me li cerchiava con della fuliggine e della cenere per evidenziarli.

-Io non ho bisogno dell'imperatore.- rispondevo ogni mattina con un sorriso. Perché sapevo che alla fine di quella lunga giornata l'avrei rivisto.

- Ma dei suoi soldi piccola mia sì, di quelli ne avresti proprio un gran bisogno.- mi ricordava con gentilezza.

Era vero, ero povera, la più povera delle ragazze lì dentro. Raccimolavo un po' di soldi ma non erano sufficienti per mangiare e per pagare quell'uomo orribile di Smicrine. Un medico. Un orribile medico che aveva avuto in cura mia madre durante la gravidanza. Era una prostituta ma l'uomo da cui mi aveva concepita era ricco e non voleva correre rischi.

Non era preoccupato per la mia salute, ne per quella di mia madre. Temeva che, se l'avesse lasciata andare, mi avrebbe tenuta in vita svelandomi la sua vera identità.

La notte del parto, quando mia madre mi teneva in braccio piangendo sulla mia sventura, il greco doveva aver avuto un messaggio dagli dei. Le permise di tenermi in vita consegnandomi ad una locanda.

Mia madre lo fece.

Quell'uomo orribile è venuto a cercarmi all'età di dieci anni. Ero ancora la piccola garzone della locanda. Non avevo cominciato a lavorare. Davia aspettava che fossimo mature per la dea.

Mi riconobbe subito, mi raccontò la tragica morte di mia madre e mi mise davanti il conto da pagare per il suo silenzio. Se fosse andato dall'uomo che era mio padre svelandogli che ero viva mi avrebbe uccisa.

Fu lui il mio primo cliente.

All'età di dieci anni, senza essere ancora sacrificata a Venere, venni data in sacrificio al Greco. Ciò però non saldò il mio debito. E ancora adesso lo pago. Dovevo lui dieci monete d'oro e tutto ciò che riuscivo a recuperare in un mese erano tre monete di bronzo. Sarei morta nelle mani di quell'uomo. E non volevo seguire neanche i consigli di Davia.

- Cosa stai facendo qui?- mi domandò lui alzando, per la prima volta il viso dal suo libro. Era la prima volta che lo faceva in mia presenza. Che si distraeva.

- Stanno venendo a prenderti.- lo avvisai ansante togliendomi il velo dalla testa. Avevo ancora i capelli legati anche se in disordine.

- Che cosa?- mormorò lui sgranando gli occhi in preda al terrore.

Allora sei umano amore mio. Allora anche tu hai paura.

- Milichio, il liberto di Flavio è stato preso e torturato da Nerone fino a che non l'ha denunciato.- sussurrai avvicinandomi a lui.

Avrei tanto desiderato che mi prendesse tra le braccia, che mi baciasse e mi dicesse che andava tutto bene, che non sarebbe successo nulla e che ero solo una sciocca donna.

- Come fai a sapere queste cose tu?- mi domandò con un filo di voce. Era preoccupato. Aveva timore forse. Era così umano e allo stesso tempo così bello.

- Lo hanno portato alla locanda. È in fin di vita ma ha chiesto subito il perdono di Flavio.- mormorai come se volessi discolparlo.

L'amore di quell'uomo per il suo padrone era esemplare. Si amavano come io amavo l'uomo davanti a me. Un amore ricambiato, forte, indifferente alla diversa classe sociale e alle parole della gente.

- Se è amore- mi aveva detto un giorno lui mentre, seduto alla locanda, aspettava il suo padrone -non importerà più se è maschio o donna, bello o storpio, ricco o schiavo, lo amerai lo stesso e chiederai un briciolo del suo amore a costo della tua stessa anima.-

Era vero. Non chiedevo altro allo scrittore davanti a me.

- Bisogna avvertire Gaio.- si riprese prontamente pronto a salvare i suoi amici dall'inevitabile fine che li attendeva.

- Lo ha già saputo.- lo informai tenendo lo sguardo basso. -Nerone lo ha catturato nella sua casa e gli ha dato ordine di togliersi la vita.-

A quelle parole si lasciò cadere su una sedia e si prese il suo bel capo tra le mani. I riccioli scuri gli coprivano le dita sporche di inchiostro che tante volte avevano lasciato dei segni sul mio corpo.

- Mio zio?- sussurrò piano come se cercasse da me una conferma che conosceva già.

- È andato via con Paolina stamattina.- sussurrai costernata dal suo dolore.

- È fuggito?- domandò atono.

La sua amarezza gli impediva di cogliere l'assurdità di quell'affermazione. Mi avvicinai a lui e mi lasciai cadere a terra poggiando il viso sulle sue ginocchia.

- Tuo zio Marco, sarà per sempre ricordato come il migliore degli uomini.- sussurrai toccandogli il mento per chiedere umilmente il suo sguardo.

- Ed io invece?- domandò con gli occhi lucidi di commozione.

- Tu, Marco, non puoi chiedere il mio parere su ciò, lo sai.- sussurrai piano con le lacrime agli occhi.

- Ti avrei sposata donna. Gli ultimi due libri e ti avrei presa in moglie.- mi disse piano spezzandomi il cuore. - Ti avrei insegnato a leggere e saresti stata tu stessa a leggere il mio poema.-

Avevo gli occhi pieni di lacrime, lo sapevo. Sapevo che un'altra parola mi avrebbe fatta cedere e avrei dimostrato tutta la mia debolezza di donna. Lui si alzò lasciandomi sola e disperata a terra ai piedi della sedia. Quando tornò mi tirò su egli stesso prendendomi per le spalle. Il tavolo, su cui di solito faceva mostra di se un rotolo di carta, l'inchiostro, una candela e il suo materiale da lavoro adesso c'era una bacinella d'acqua, del pane, un velo e una toga bianca.

- Spogliati.- mi ordinò semplicemente prendendo la veste.

Io lasciai cadere a terra la leggere veste decorata che portavo mostrando il mio corpo nudo ai suoi occhi esperti. Sorrise appena e mi aiutò ad indossare quell'abito bianco candido. Mi pose sul capo il velo rosso e strinse il nodo alla veste.

- Cosa stai facendo Marco?- domandai con un sorriso sulle labbra spaventato, incredulo e timoroso.

- Ti sposo.- aveva risposto semplicemente lui.

E quella notte lo fece davvero. Alle idi d'aprile lui, un libero nato da una gens illustre sposò me, una schiava, figlia di schiavi, illegittima.

E quella notte mi amò davvero. Mi fece sua come moglie, come donna che gli apparteneva non solo per un'ora o per una notte ma per tutta la vita.

Quella notte tornai alla locanda. Mio marito mi accompagnò. Indossavo una nuova veste, simile a quella matronale. Avevo il capo coperto e un filo d'oro, di vero oro, al dito.

Davia mi attendeva alla porta in trepidante attesa. Ero in ritardo. Venere era già sorta da un pezzo.

- Tu, ragazza, mi farai frustare. Non sai cosa è capitato oggi?- mi domandò lei quando mi vide arrivare.

- Non è più una ragazza, è donna adesso.- rispose l'uomo al mio fianco presentandomi così come sua moglie.

L'anziana donna lo guardò e sgranò gli occhi.

- Per Ares, tu qui non dovresti stare. Nerone ha ordinato di catturarti e di ucciderti Anneo, lascia qui la ragazza e vattene.-

- Non lascerò mia moglie a nessuno, appartiene a me adesso, se Nerone mi vorrà verrà egli stesso a prendermi.- rispose lui convinto e fiducioso di se stesso.

- Lei appartiene a Smicrine finchè non riuscirà a saldare con lui il debito di sua madre. È una schiava ragazzo, non lo sapevi forse?- domandò lei prendendomi per il braccio. Marco le bloccò la mano.

- È mia moglie adesso.- prese da un sacchetto che teneva legato alla cintura e lo diede a Davia. -questi basteranno di certo per saldare il suo debito.-

L'anziana donna guardò il sacchetto, contò i denari che conteneva e poi tornò su di lui. Non li aveva contati per sfiducia ma per abitudine. Noi, donne di malaffare, non avevamo fiducia in nessuno.

- E dove la porterai? Nella tua insula?- domandò lei con cattiveria. - lei ha ancora dei doveri a cui assolvere qui e non sarà di certo prosciolta da ciò grazie ai tuoi voti ad Era e Giove, ne ai tuoi danari.- affermò convinta lei guardando il giovane.

- Ti ricordo vecchia che io sono sempre figlio di mio padre anche se adesso sono un condannato a morte e ti impongo di parlarmi con rispetto.-

- E a tuo zio che devo il mio rispetto, non a te.- rispose Davia guardandomi.

Mi si avvicinò lentamente, mi passò le mani sul viso e mi sistemò i capelli per l'ultima volta. Mi diede un bacio sulla fronte e con quello la sua benedizione. Dopo mio marito mi portò via.

La casa che ci avrebbe ospitato aveva un atrio pieno di immagini fumose. Non credevo che Marco fosse ricco, non l'avevo mai saputo e ne ero lieta. Perchè ero certa così di non amare i suoi soldi ma lui.

Il giorno seguente Tito Petronio Arbrito si presentò da noi. Era un uomo già in età avanzata, avrebbe compiuto il suo trentottesimo anno d'età a breve. Si presentò con un uomo, un liberto per quello che capii, e chiese a Marco di poter parlare. Io, impegnata al telaio, preparavo la coperta nuziale.

Mio marito si allontanò con Tito e si rifugiò in una sala da lui utilizzata per la scrittura. L'uomo con cui Petronio era arrivato si avvicinò a me.

- Donna.- mi salutò facendomi un inchino. Gli sorrisi divertita dal suo strano comportamento e lo salutai con un cenno educato del capo. - potete parlare con me, vi conosco, voi siete la figlia di Davia.- si presentò e io sgranai gli occhi.

- Chi sei?- gli domandai subito diffidente facendogli però segno di accomodarsi.

- Novio Prisco.- si presentò. Non ricordavo quel nome ma mi aveva chiamata figlia di Davia quindi era una conoscenza sicura.

- Cosa è venuto a fare in casa del mio sposo il tuo padrone?- domandai io interrompendo il mio lavoro.

- Sta annunciando la sua partenza, vuole nascondersi. Non ha voglia di morire così giovane e sottrarsi al mio amore.- mi rispose semplicemente facendomi l'occhiolino.

- Sta disertando?- domandai incredula e affranta dalla notizia.

Un'altra diserzione era terribile. Rendeva i rimanenti troppo esposti.

- Lui non ha voglia di fare l'eroe, vuole vivere, com'è giusto. La vita è troppo breve per fare l'eroe.- scherzò ridendo.

- È da vile.- lo ammonii io arrabbiata.

- È umano.- rispose lui semplicemente alzandosi.

- Dove andrete?- chiesi ancora cercando di trattenere l'emozione nella voce.

- In Campania da amici, sua moglie rimarrà a Roma.- precisò lui tutto contento di avere finalmente l'amante tutto per se.

- Vi auguro di riuscire nella vostra impresa e di non morire da disertori.- augurai lui prima che si allontanasse per sopraggiungere del suo padrone.

Marco salutò il suo amico nell'atrio offrendogli il polso e lo guardò andare via accompagnato dal suo servo.

Quando entrò nella nostra camera mi guardò con gli occhi fiduciosi di chi non si era ancora arreso. Si sedette accanto a me e fermò le mie mani dal mio lavoro.

- Vogliamo cominciare le nostre lezioni?- mi domandò gentilmente baciandomi il palmo della mano.

- Non mi sembra il momento adatto per concederci alla lettura Marco, non credi?- domandai io con un peso sul cuore.

Gli accarezzai i capelli passandogli le dita tra i riccioli scuri e lui mi guardò con gli occhi carichi di desiderio.

- Sei preoccupata?- mi domandò gentilmente.

- Non dovrei esserlo? Tito Petronio sta per esiliarsi in Campania.- gli feci notare con l'amarezza nella voce. - tuo zio è morto e Gaio Calpurnio, Fenio Rufo e Subrio Flavio e Sulpicio Aspro.- c'era dell'isterismo nella mia voce.

Che la dea mi aiuti. Pensai prendendo un respiro profondo.

- Potrebbe essere un bene mia cara, loro erano il vero nemico dell'imperatore. A loro era diretto l'odio che provava. Forse adesso che ha frenato la sua sete di potere ci lascerà in pace.- mi tranquillizzò alzandosi verso le mie labbra.

Mi baciò piano, carico d'amore e di desiderio. Sorrise piano e si allontanò passandomi le mani sul viso. E stringendomi al suo petto con quel possesso che mi faceva sentire amata.

- Non preoccuparti mia amata, Rufrio Crispino mi ha fatto avere una lettera interessante. È disposto a vedermi prima della sua partenza.- mi informò mentre mi passava le mani lungo i fianchi sciogliendo la mia cinta.

- Rufrio?- sussurrai non potendo far altro che pensare alle sue mani sulle mie vesti.

- Proprio lui. Il più odiato da Nerone è stato destinato solo all'esilio. In Sardegna.- sussurrò lui contro le mie labbra prendendomi in braccio e lasciandomi cadere sul letto. - con un po' di fortuna anche noi avremo una sorte simile.- mormorò felice facendomi sua.
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Uscì nel cuore della notte per presentarsi all'incontro con Rufrio Crispino, prefetto del pretorio sotto l'imperatore Claudio. Aveva sposato allora quella che adesso era Auguta, Poppea. Una donna disprezzabile e negletta che aveva avuto parte a quella congiura. Chissà se sarebbe sopravvissuta grazie all'amore. Poteva perdonare la donna che amava? Rimasi da sola in quella casa grande che non mi apparteneva, vuota. Chissà se un giorno avrei potuto riempirla con dei figli o se mio marito avrebbe potuto diventare vecchio e finire il suo scritto... mi alzai dal talamo e percorsi l'atrio.

Era pieno di immagini di antenati che mi guardavano con i loro occhi vuoti.

Mi avvicinai all'ultima ancora nuova.

Marco aveva voluto che ci fosse anche se non gli era stato concesso di celebrare nessun funerale. Lui che adesso aveva superato lo Stige di sicuro sapeva cosa ci aspettava, se avesse potuto parlare con me, se avessi avuto il dono del vaticinio ed essere utile al mio uomo. Invece altro non ero che una serva. Altro non potevo fare che attendere il mio uomo in quella casa, circondata dai visi severi di uomini appartenenti a gens illustri che mi guardavano, mi giudicavano e mi odiavano per aver rovinato il quel modo un loro discendente.

Avrei onorato quella casa. Avevo detto a me stessa quando, giorni prima, Marco aveva fatto dopo a me dei suoi voti nuziali. Sarei stata all'altezza del grande uomo che era.

Mi coprì la testa e rientrai in camera quando Venere era già tramontata e Marco non era ancora tornato a casa.

Quando rincasò ero già alzata. Non avevo nessuno che mi aiutasse a prepararmi, neanche Davia che aveva sempre lavato per me i miei capelli prendendosi cura della sua “piccola gemma”. Aveva dato tanto per me quella donna.

Mi ero preparata e avevo ripreso i miei lavori in casa.

Marco non era tranquillo come quando era uscito la sera prima. Mentre si univa a me avevo sentito una certa tranquillità del suo animo che adesso era sparita. Mi alzai dal mio lavoro e mi avvicinai a lui.

- Vestino Attico è stato ucciso.- mi informò spietato passandosi una mano sul viso in preda alla disperazione. Mi morsi il labbro non forza.

- Potrebbe averlo fatto solo per sua moglie, Statilia Messalina è stata sempre nelle intenzioni di conquista di Nerone.- sussurrai ben sapendo che quello voleva dire che...

- Ha ucciso Poppea. Aspettava un figlio. Non ha pietà per nessuno. Ucciderà anche Rufrio e ormai lo sappiamo.- mi rispose cominciando a camminare avanti e indietro per la stanza.

- Cosa farà?- domandai preoccupata.

- Andrà in Sardegna e si ucciderà pur di non cadere nelle mani di quel tremendo uomo.- rispose semplicemente rifugiandosi nelle sue stanze.

Avrebbe scritto forse, o avrebbe pianto.

Quelli erano i suoi ultimi giorni ed era ormai chiaro ad ognuno di noi che non avremmo vissuto abbastanza per raccontare la nostra storia.

La donna davanti a me mi faceva strada per i larghi corridoi di marmo. Ogni cosa in quel palazzo sembrava d'oro o d'avorio. Sembrava provenire chissà da quale meraviglioso posto nella terra. Anche le mie vesti.

Erano bianche, lunghe fin oltre il dovuto, ricamate in oro. Il velo che mi copriva i capelli perfettamente acconciati era anch'esso bianco, come la veste, con filo d'oro. Una tiara mi circondava la fronte. Portavo dei sandali in pelle che mi fasciavano il piede.

Avevo ancora addosso i dolori delle percosse anche se erano stati ben coperti da bende, garze ed unguenti profumati.

La stanza dove mi fecero accomodare era davvero grande. Si estendeva fin dove la vista poteva arrivare, piena di gente che chiacchierava, di uomini che si voltarono indifferenti verso di noi e poi tornarono ai loro impegni. Al centro della sala una fontana mi fece ridere, la donna dinnanzi a me mi impose di tacere.

La mia non era affatto una risata di felicità, era tristezza, amarezza, paura. Avevo visto la mia casa invasa da soldati, la mia stanza nuziale profanata, il mio lavoro distrutto. Alle calende di maggio mi trovavo ad aver perso tutto per l'ennesima volta.

L'uomo che mi attendeva doveva avere l'età dell'uomo che avevo sposato solo poche settimane prima eppure sembrava più piccolo e immaturo, aveva i capelli più chiari, quasi rossi, gli occhi velati da quella che l'esperienza mi aveva aiutato a distinguere come follia. Non stava guardando dalla nostra parte. Guardava l'acqua della vasca in cui si stava specchiando.

Era vestito interamente di porpora.

- Mio imperatore, la donna di cui avete domandato.- parlò finalmente la serva dopo che l'uomo bambino non dava segno di voler sollevare il viso dai suoi giocattoli.

- Vattene!- le ordino con rabbia prima di alzare il viso per guardarmi. I suoi occhi erano chiari, non come i miei, ma abbastanza da sembrare verdi.

Sembrava un bambino spaventato e cattivo pronto a fare del male alla gente. Voleva fare del male a me, ne ero sicura.

- Allora sei tu? La donna trovata nella casa degli Annei?- mi domandò avvicinandosi a me con un sorriso di scherno.

Io non risposi. Non ci riuscii. Tutto ciò che riusci a venirmi in mente furono gli occhi carichi di tristezza di mio marito mentre mi trascinavano via col la forza.

- Dov'è mio marito?- domandai invece di rispondere alla sua domanda.

Lui sgranò gli occhi indispettito e si avventò su di me stringendomi il collo con la forza sovrumana della sua mano. Una morsa di ferro che mi vietò ogni possibilità di respiro. Ero in trappola senza via di scampo.

- Sono l'imperatore donna, tu non risponderai al tuo imperatore in questo modo. Avrai rispetto, amore e umiltà nei suoi confronti, hai capito?- mi domandò prima di lasciarmi andare sbattendomi violentemente a terra.

Non ero abituata alle percosse nonostante il mio lavoro. Ero sempre stata trattata con una cerca educazione, un certo rispetto. Io non avevo mai dato modo a nessuno di credere di non doverlo fare.

- Io sono prima di tutto di mio marito e poi del mio imperatore.- risposi con un filo di voce cercando di respirare.

Lui si voltò verso di me e mi afferrò per i capelli tirandomi su. Mi guardò negli occhi e lo vidi sorridere di sbieco quando la mia espressione non mutò. Non ero spaventata, cos'altro avrei potuto perdere che già non avevo perso?

- Io sono un Dio!- disse lui empiamente ridendo e lanciandomi ai suoi piedi schiacciandomi al suolo con il peso del suo corpo concentrato nelle sue gambe. Mi teneva premuta al pavimento esercitando tutta la sua forza sul piede che mi teneva premuto sulla testa.

Non ero spaventata da lui. Pensavo però a quello che poteva essere successo a Marco. Se io, una donna indifesa, veniva maltrattata da un uomo bambino come un giocattolo da usare finché non si fosse rotto, mio marito, un uomo, un uomo forte e valoroso, prestante e difficile da piegare quando lo erano le colonne d'ercole che reggevano il mondo, doveva averne ricevuto uno ben peggiore.

Portavo un trofeo di lacrime a quel padrone invasato. Un trofeo a lui gradito e a me amaro.

Ero stata vestita per essere il suo gioco. Poi mi avrebbe uccisa. Sarei stata violata contro i miei voti nuziali. Avrebbero infangato il nome di mio marito e della sua casa. Poi sarei morta.

- Dov'è mio marito?- domandai ancora con la voce ferma e tremante allo stesso tempo

- È morto.- mi rispose quell'uomo sferrandomi un calcio in testa e allontanandosi da me lasciandomi a terra immobile e dolorante. -dicono che abbia sofferto. Gli hanno tagliato le mani per punire le sue colpe.- rispose poi tornando a sedersi sul bordo della fontana.

Ricordai che una volta, ancora bambina, prima che il greco venisse a cercarmi la prima volta per farmi donna, ero stata picchiata. Avevo rovesciato un boccale a terra e quell'uomo, che aveva ormai pagato le sue due monete, si era visto privato della sua ordinazione. Di ciò che gli spettava.

- Picchierò questo discolaccio con una spranga perché è mio diritto.- aveva gridato contro Davia che cercava di dissuaderlo dalla triste impresa.

- È solo un bambino.- lo pregava la donna mostrandogli il seno e gridando di avere pietà in nome del piccolo Eracle.

- Anche a lui dieci frustate avrebbero fatto bene.- rispose l'uomo sbattendomi violentemente a terra dopo avermi afferrata per un braccio.

Lo guardavo con gli occhi terrorizzati. Non sapevo cosa stava per farmi ma la paura nel viso della mia balia e della gente che mi stava intorno mi avevano quasi ucciso. Era tremenda più l'attesa del momento stesso. Mi dissi per non avere più paura.

- E' una bambina!- gridò alla fine Davia quando l'uomo aveva ormai alzato la spranga e la stava per abbattere su di me.

A quel punto si fermò. Guardò la balia, poi me. Mi afferrò per il braccio tirandomi su e mi strappò le vesti lasciandomi nuda in mezzo alla strada. Tutti mi stavano guardando. L'uomo gridò in pubblicò la sua frustrazione e si diresse verso la donna.

- Verrò a ritirare sul suo corpo le mie monete quando sarà il momento, ricordatevi di me.- la minacciò lasciandomi stare.

Neanche un uomo di strada aveva avuto il coraggio di picchiare una bambina.

L'imperatore lo aveva. Aveva il coraggio di picchiarmi. Di uccidere una donna.

Anche sua madre.

- Dimmi il tuo nome donna.- mi ordinò con fermezza voltandosi verso di me.

Rimasi in silenzio piegata a terra cercando di non pensare al dolore alla testa. Sentivo che il sangue stava sgorgando dalla mia testa. La tiara d'oro mi aveva tagliato la fronte conficcandosi in fondo.

- Dimmelo!- gridò come un folle tirandomi su di scatto.

Quando mi vide sanguinante mi lasciò cadere di nuovo a terra. Sbattei violentemente la testa contro il pavimento e sentì che ormai non mi rimaneva molto da vivere. Fortunatamente.

- Mi chiamo Giulia Fuensa.- risposi con un filo di voce. - Mio marito era Marco Anneo Lucano.- sussurrai con un sorriso di vittoria sulle labbra. - Ho pregato gli dei perchè l'imperatore morisse e mi rendessero mio marito.-

Ci sarebbe sempre stato nel mondo un uomo come Nerone. Ci sarebbe sempre stato un uomo come Marco Anneo Lucano. Ma una donna come Giulia Fuensa forse no.

Suo marito era morto per i suoi ideali politici, eppure non sarebbe mai morto perchè tutti lo avrebbero ricordato. Il suo poema, l'opera a cui aveva lavorato sotto lo sguardo attento di una prostituta, sarebbe diventato celebre.

Pharsalia”

Nerone sarebbe morto per la sua follia, eppure non sarebbe mai morto perchè tutti lo avrebbero ricordato. La sua follia, i suoi gesti di pazzo, sarebbero divenuti celebri.

Giulia era morta per amore, e sarebbe morta per sempre perchè nessuno avrebbe mai ricordato il nome di quella donna che in un'insula in legno, una notte, alle idi di Aprile, Marco Anneo Lucano aveva preso in moglie.

Eppure con quel gesto si era dimostrata degna dei quelle fumose immagini che l'avevano scrutata nella notte.

Morì da sola Giulia.

Sul pavimento d'oro del palazzo dell'imperatore, mentre uomini di lettere poco lontano sentivano le grida dell'imperatore. Mentre ricordava il corpo caldo e possente del marito che la faceva sua. Mentre ricordava sua madre lavarle i bei capelli lunghi che adesso erano coperti di sangue.

Morì con loro Giulia.

Con i suoi occhi chiari aperti sul mondo.

Con una vita che le cresceva nel ventre.

Con un anellino d'oro all'anulare.

Col favore degli dei.

  
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