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Autore: PapySanzo89    28/01/2013    2 recensioni
Seguito di I can't take my eyes off you (piccola OS di mezza pagina)
Sherlock aspetta in ospedale che John si faccia vedere. Non sa ancora cosa sia successo, ma dalla telefonata di John può farsene un'idea
Dal testo: John non l’ha ancora vista.
John non è ancora venuto da questa parte dell’ospedale.
John sta male.
Mary ha avuto complicanze durante il parto, ho capito solo questo quando mi ha chiamato, una ventina di minuti fa con voce piatta e atona. Non sono ancora riuscito a vederlo e non so dove sia, gli ho mandato un messaggio dicendogli che lo avrei aspettato qui, e così sto facendo.
Riporto l’attenzione sulla bambina e continuo a guardarla, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. [...] John ha detto che ha mangiato, può essere che abbia già fame? Forse dovrebbe essere cambiata? Cosa dovrei…?
Sento qualcosa spingermi in avanti e vado a scontrarmi con delicatezza contro la bambina, la sua testolina che preme contro il mio petto, e si calma.
«Ha solo bisogno di contatto fisico Sherlock, come ogni essere umano. Quante volte te l’ho detto?»
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Genere: Fluff, Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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QUESTO è IL SEGUITO DI I can’t take my eyes off you (PICCOLA OS DI MEZZA PAGINA).
L’HO DIVISA IN DUE CAPITOLI PERCHE’ HA VENTI PAGINE E IO SONO LA PRIMA A NON TROVARE SEMPRE IL TEMPO O LA FORZA DI LEGGERNE VENTI DI FILA, COSI’ LI POSTO ENTRAMBI (CI SONO GIA’, PERCHE’ NON POSTARE ASSIEME? XD)
AVREI VOLUTO INIZIARE CON QUESTA L’ANNO NUOVO AL POSTO DI “Buon compleanno, Sherlock” MA SONO VERAMENTE TROPPO LENTA. XD
RINGRAZIO INFINITAMENTE JESS E FUSTERYA PER IL BETAGGIO. IL RESTO DEI RINGRAZIAMENTI A FINE FIC. UNA CANZONE CHE MI HA ISPIRATA (POTETE PURE NON ASCOLTARLA MA VE LA CONSIGLIO PER IL SEMPLICE FATTO CHE LA TROVO BELLISSIMA) E’ QUESTA I will wait for you LASCIATE PURE PERDERE IL VIDEO, NON NE TROVAVO ALTRI. XD
BUONA LETTURA. : )
 
 

A little ray of Sunshine.
 
 
 
Davanti la stanza dei neonati –all’ospedale- mentre aspetto, guardo una ventina di bambini diversi, anche se in realtà mi sembrano tutti uguali, con i loro occhi chiusi, i capelli dello stesso colore, i corpi tozzi e le voci urlanti. Tutti tranne una.
Una piccolina dai pochi capelli biondi sta dormendo placidamente in mezzo ad altri due che invece non fanno altro che piangere -anche se le infermiere tentano di calmarli- con una coperta leggera di un rosa pallido. Non fosse per la coperta, il sesso potrebbe essere benissimo identificato da un enorme fiocco attaccato all’angolo del letto.
So per certo che è la figlia di John. Non mi serve vederle il cognome attaccato al laccetto sul piccolo polso –anche perché da quella distanza la lettura risulta non essere così semplice- lo so e basta. Per una volta non lo posso dedurre ma lo posso sentire.
Un’infermiera entra nella stanza con un altro neonato in braccio, lo deposita in uno di quei letti di plastica trasparente rinforzata con il metallo, e nel farlo urta la culla della bimba, che si sveglia e inizia a muovere piano la testolina a destra e sinistra emettendo qualche suono indistinto, quasi un pianto, ma molto più lieve.
Vorrei entrare dentro e lanciare fuori quella donna incompetente, ma so benissimo che non riuscirei nemmeno a fare qualche passo nella stanza che verrei già fermato dagli infermieri. E non potrei comunque fare niente, del resto non sono nessuno, per lei.
John non l’ha ancora vista.
John non è ancora venuto da questa parte dell’ospedale.
John sta male.
Mary ha avuto complicanze durante il parto, ho capito solo questo quando mi ha chiamato, una ventina di minuti fa con voce piatta e atona. Non sono ancora riuscito a vederlo e non so dove sia, gli ho mandato un messaggio dicendogli che lo avrei aspettato qui, e così sto facendo.
Riporto l’attenzione sulla bambina e continuo a guardarla, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Cos’avrà di Mary quando sarà più grande? E quanto –invece- di John?
Avrà la stessa bontà del padre, che non ha mai giudicato dalle apparenze ma è sempre andato oltre? Il cuore grande e la voglia di aiutare gli altri? La faccia tosta d’imporsi e il coraggio di portare avanti i propri credo come un mantra? La sua smisurata pazienza?
E la testardaggine della madre? La voglia di impegnarsi? Di provare ad avere un legame con una persona che la odia, solo per il bene dell’uomo che ama?
Avrà un po’ della bellezza di entrambi? Quello di certo, è già bellissima così.
Mi sento poggiare una mano sulla spalla e per un attimo vengo colto di sorpresa.
Mi volto: è John.
Ha gli occhi lucidi di una persona che ha appena finito di piangere; la mano gli trema e fatica a reggersi in piedi, si poggia con la mancina al muro e mi fissa.
«Grazie di essere venuto.» mi dice, con la voce un po’ troppo bassa, si schiarisce la gola e ci riprova, ma faccio segno di aver capito.
Non gli rispondo, perché che cosa dovrei dirgli? “Era ovvio che sarei venuto, avevi bisogno di me” oppure, “Ci sono John. Sono andato via per troppo tempo, ma ora ci sono”?
Gli do’ una rapida occhiata e non mi serve chiedere per sapere cos’è successo: Mary non ce l’ha fatta.
Lei non ce l’ha fatta. Una strana sensazione mi prende lo stomaco e lo attanaglia per un poco. I malpensanti crederebbero che si tratti di gioia per la morte della donna che mi ha portato via John. Ma non è così: lei non ha portato via nulla, ha solo rattoppato quello che io sono riuscito a distruggere pezzo per pezzo, lasciando il mio unico compagno alla deriva. E’ riuscita a non farlo naufragare, riportandolo su dalla bolla di cristallo in cui si era rinchiuso, senza lasciare entrare nessuno. Ha permesso al mio John di continuare a vivere, mentre io non potevo fare niente.
No, non potrei essere felice per la morte di una donna che merita solo il mio rispetto.
John non sopporta oltre il mio sguardo e si volta verso il vetro che ci divide da tutti quei bambini, e sua figlia.
«È maschio o femmina?»
Mi sorprendo della domanda. Probabilmente non dovrei, non c’era sicuramente tempo di curarsi del sesso del bambino quando a tua moglie sta accadendo qualcosa di strano e tu sei un medico, ma sei sicuramente dovuto uscire dalla stanza.
Ma come fa a non riconoscerla lì, in mezzo a tanti bambini insignificanti a confronto?
«E’ una bambina.»
Lo vedo sorridere, con la coda dell’occhio, e annuire.
«Sai anche qual è?»
Gliela indico con un cenno della mano e questa volta John si aggrappa al mio cappotto.
Non so che fare. Non so come muovermi. Non so cosa dovrei fare.
«Ti… ti hanno detto che è lei?»
Scuoto la testa e non tolgo gli occhi dalla mano che –salda- non intende lasciarmi andare.
La sua voce trema lievemente, ed è una cosa che non sopporto, un dolore che vorrei sobbarcarmi io, perché non è giusto che sopporti anche questo.
«Sherlock io… non ho il coraggio…»
Mi volto a guardarlo, ma lui non solleva gli occhi dall’ammasso di copertine oltre il vetro.
Hai il coraggio John, ne hai eccome. Forse non te ne sei semplicemente ancora reso conto.
«Il nome?»
Non voglio pronunciare un “avevate già pensato…?”: finché non sarà lui a dirmi che sua moglie non ce l’ha fatta, io non lo darò come un dato di fatto.
«Sunshine.»
Annuisco e mi ritrovo a sorridere.
«È perfetto.»
E lo sarà sicuramente, perché crescerà felice e sorridente, e sarà una delle bambine, ragazze, donne più solari sulla faccia della Terra.
Resta per un po’ il silenzio tra di noi, e piano piano sento la sua mano scivolare via dal mio cappotto: non voglio.
«Torna a casa con me.» glielo dico senza riflettere e mi maledico già dopo la prima sillaba. Perché gli sto facendo questo? Perché mi sto facendo questo?
Mi guarda con aria sorpresa, aggrottando le sopracciglia (amo quando lo fa) e poi scuote il capo.
«Non funzionerebbe più, Sherlock. Non ti sarei più d’aiuto per nessun caso. Ho una bambina da accudire che mi occuperà la maggior parte del tempo. E tu odi i bambini, strillano troppo.» tenti di sorridere, ma fallisci, e questo fa ancora più male.
Qui non stiamo parlando di bambini John, stiamo parlando della tuabambina, e niente di così tuo potrà mai infastidirmi.
«Io ho un lavoro molto più flessibile del tuo, con orari che posso gestire come più mi aggrada, e la signora Hudson è in pensione, non ha nulla da fare, e le farebbe solo un enorme piacere.» e in fin dei conti è tutto vero.
Sembra rifletterci su, ma non mi vuole ancora dare una risposta. Non è un problema, io aspetterò.
«Nel frattempo puoi venire quando ti senti troppo stanco.»
«Posso stare da te oggi, allora?»
Il cuore salta un colpo.
«La tua camera è sempre libera.»
Non ci guardiamo mentre parliamo, entrambi continuiamo a tenere gli sguardi dritti davanti. In fin dei conti ci stiamo dicendo troppo, non dicendo assolutamente niente.
Passano altri minuti di silenzio.
«Vado… vado a vederla. Vuoi venire con me?»
«Sì.»
Sempre, John.
 
Qualche giorno dopo, John può finalmente portare a casa la bambina.
Sono venuti tutti a vedere la piccola, nei giorni in ospedale, chi portando qualcosa con sé, chi congratulandosi. 
E John è diviso a metà.
E’ diviso tra la felicità di avere una figlia così bella, e il dolore per aver perso la moglie, e non sa nemmeno lui come doversi sentire. E infatti si è sentito solamente perso. Lo vedo, lo percepisco,  lo so.
Molly, appena vista la bambina, si è messa a piangere e l’ha presa in braccio avvicinandosela al viso, facendo dei strani versi che una persona adulta non dovrebbe fare, e poi si è avvicinata a John e –passandomi Sunshine- l’ha abbracciato, stringendolo forte e continuando a piangere, anche se per motivi diversi. Lei e John hanno litigato anni addietro. John non le ha perdonato il fatto di avermi aiutato e averlo preso in giro, continuandolo a guardare negli occhi, mentendogli. E Molly gli ha dato ragione, anche se si è sentita male per tutto il tempo della sceneggiata (io lo so), si è sentita divorare dentro per il senso di colpa (e anche lì, in quel frangente, io non ho fatto niente) ma è andata avanti. Per me. Cosa faccio io alle persone? Perché faccio del male a tutti rimanendo a guardare?
Ora però, vedendo John allacciare le braccia attorno alle spalle esili di Molly, posso vedere che è tornato veramente tutto come prima.
Sunshine muove la testolina e riporto la mia totale attenzione su di lei. Ha aperto gli occhi poche ore dopo essere venuta al mondo, e quegli occhi mi hanno catturato.
Non ha propriamente il colore degli occhi di John, ha lo stesso blu –questo è certo- ma attorno alle iridi sfumano in un bel verde chiaro, le ciglia sono incredibilmente lunghe e bionde e ti fissa. Ti fissa.
Cosa che non è possibile, visto che i bambini per i primi giorni vedono solamente ombre indistinte.
Muove le manine e le gambette paffute e io continuo a sentirmi strano con un altro essere umano (così piccolo) in braccio, ho una sensazione di disagio addosso che non ha intenzione di sparire. Non è disagio perché è una bambina, è un disagio dovuto al sentirsi inadeguato (per la prima volta in vita mia). Perché ho paura di sbagliare qualcosa: un bambino non ha reazioni logiche, non pensa prima di agire, potrebbe iniziare ad agitarsi e cadermi dalle braccia, potrebbe iniziare a piangere (come è già successo) e io non saprei cosa fare per calmarla. Mi sento a disagio e additato dalla gente che mi reputa inadeguato. Non mi è mai importato cosa pensasse la gente, ma non vorrei lo pensasse pure John. 
Si sono fatti vivi anche Greg, Mike e la signora Hudson. Incredibilmente, anche Mycroft è interessato al nascituro e mi ha chiesto di inviargli delle foto.
Sono molto impegnato; purtroppo non ho del tempo libero per venire a trovare il dottor Watson e fargli le mie congratulazioni.-MH
Non servo sicuramente io per capire che è una balla sotto tutti i punti di vista; semplicemente mio fratello e John non sono in buoni rapporti. Perdonare Molly per avermi aiutato è un conto, perdonare mio fratello per avermi (veramente) venduto è un altro paio di maniche.
John non riesce a comprendere come Mycroft abbia potuto farmi questo; ma lui non è un Holmes, non è cresciuto come noi, non sa che alle volte c’è qualcosa –o qualcuno- da dover sacrificare per un bene o una serenità maggiore. Per quanto mi riguarda, tra me e mio fratello non è cambiato niente.
Gli mando le immagini e aggiungo una risposta caustica, non è il caso di essere troppo gentili.
Alla fine John ha rinunciato alla mia proposta di tornare a Baker Street, vuole provare a farcela da solo. Deve farcela da solo.
Io non dico niente, me l’ero immaginato in fin dei conti. Ma voglio che sappia che la porta sarà sempre aperta, devo ribadirglielo, devo farglielo capire.
Ma lui sa.
Lo capisco da come mi sorride e mi guarda e annuisce, senza esserci scambiati una parola. Solo John riesce a fare questo. Solo John.
Lo accompagno fino alla casa che apparteneva a lui e Mary e lo aiuto a portare dentro i vari regali arrivati da amici e parenti.
Ora gli toccherà la parte più difficile.
L’assedio dei parenti di Mary, il funerale da organizzare, la bambina da tenere, le telefonate da fare.
Ma vuole rimanere solo in tutto questo.
Entrando nell’appartamento non posso fare a meno di notare il caos che regna sovrano lì dentro (non da John), probabilmente non ha toccato niente dal giorno che si sono rotte le acque a Mary e sono corsi in ospedale.
Dopo aver sistemato tutto e aver messo la bambina a dormire, John torna nel soggiorno e un piccolo alone d’imbarazzo s’insinua tra di noi. Perché?
«Vuoi del tè?» offre.
Annuisco, non me ne voglio andare.  
Sono passati esattamente sedici giorni dall’ultima volta che l’ho visto –chiamate di skype escluse ovviamente, quello non è vedere una persona- e inizio ad infastidirmi. Sembra che la criminalità di Londra stia esplodendo esattamente in questo mese, e che Lestrade non sia più in grado di risolvere nemmeno un semplicissimo caso di omicidio a scopo di rapina, senza il mio aiuto.
E so che a  John –in un modo o nell’altro- servirebbe di più che all’ispettore.
E’ stanco morto: si vede dalle occhiaie violacee che gli contornano gli occhi e dal fatto che non riesce quasi a tenerli aperti. La bambina piange -non in continuazione, ma piange- e John si divide tra l’andare a fare la spesa, farla dormire, svegliarsi ogni tre ore per darle da mangiare, farle il bagno, parlare con i parenti che vogliono vederla e gli invadono casa non capendo quanto sia distrutto e via discorrendo.
Ma non chiede una mano. Mai.
Continua a sorridere e a dire che va tutto bene, quando è evidente il contrario.
La signora Hudson si è fatta più furba ed è andata a trovarlo un paio di giorni, imponendosi nel farlo andare a dormire mentre lei si occupava della piccola. Dal canto mio mi sono occupato di fargli arrivare la spesa a casa quasi ogni giorno. Lo so che lo sa, ma entrambi facciamo finta di niente.
Il funerale di Mary si è svolto nei giorni scorsi. Mi sono tirato fuori da qualsiasi impegno –importante o meno- per almeno un paio d’ore e sono semplicemente rimasto là, senza dire o fare niente, ma John ha apprezzato.
Il cellulare vibra e mi riprendo dai miei pensieri. Mi sposto dalla finestra e raggiungo il tavolo.
Leggo il nome sul display: Lestrade. Ancora?
«Che c’è?»
Evidentemente il mio tono non dev’essergli piaciuto particolarmente –quando mai?!- perché ci mette un po’ a rispondere (segno che ha preso un lungo respiro prima di parlare).
«Mi serve una mano, vieni?»
«Se è come l’ultima volta posso fare a meno di scomodarmi.»
«Non hai nulla da fare.»
No, al momento no, ma ho detto a John che avrebbe potuto contattarmi in ogni momento se ne avesse avuto bisogno.
«Non riusciamo a venirne fuori, Sherlock.»
Alzo gli occhi al cielo anche se non può vedermi e inizio a girare per la stanza.
John non si fa sentire, non chiede una mano, in questi giorni non gli è accaduto niente, ha superato anche il funerale della moglie stoicamente.
Sbuffo.
«Va bene. Dove?»
«Siamo alla stazione di King’s cross.»
«Arrivo.»
 
Come volevasi dimostrare, Lestrade sta dando prova di un incompetenza oltre l’immaginabile comprensione. La moglie lo sta di nuovo tradendo (perché non la lascia?), ma questa volta con l’istruttore della palestra, ed evidentemente ne è consapevole, perché non capire che questo è semplicemente un delitto passionale compiuto dalla (ormai vedova) signora Taylor potrebbe considerarsi un errore (piuttosto grave) da principiante.
Portandola al distretto è bastato veramente poco per farle cedere i nervi e confessare.
Sospiro pesantemente e prendo fuori il cellulare -mentre Lestrade continua a parlarmi di cose di cui non m’interessa assolutamente niente-, decisamente annoiato.
Una chiamata persa.
Sgrano gli occhi e il cuore mi perde un battito. Non può essere.
Sblocco il telefono e la chiamata è sua. E’ sua, maledizione!
Mi alzo dalla sedia di scatto e faccio per andarmene ma l’ispettore mi ferma.
«Ehi Sherlock! Non ho finito.»
Mi basta un’occhiataccia per farlo zittire, sbuffa e inizia un cenno di saluto con la mano ma non ho tempo di aspettare nemmeno quello.
Compongo il numero di John e lo trovo staccato.
Cos’è successo?
Okay, il panico è assolutamente inutile, cerco di calmarmi.
John ha fatto una chiamata -una sola!- magari non era importante, magari voleva solo parlare e ora il telefono è staccato perché è crollato a dormire. Cosa probabile essendo l’una del mattino.
«Maledizione!»
Digrigno i denti e chiamo un taxi.
Non si può andare avanti in questa maniera.
John tornerà a casa. Casa sua.
Decido di fermarmi al 221B prima di andare da lui, è il caso di mettere via eventuali sostanze nocive per la bambina che…
Scendo dal taxi e lo vedo.
E’ qui.
Se ne sta seduto sulle scale, all’entrata, la carrozzina alla sua sinistra assieme a un enorme borsone, e la bimba in braccio premuta contro il petto.
Mollo al tassista venti sterline senza aspettare il resto e in due falcate sono davanti il portone.
«John… cosa…?»
John alza il viso e mi guarda, con quel sorriso stanco ma sempre estremamente dolce.
«Sherlock…» si schiarisce la gola, e prova a parlare ma sembra che qualcosa lo blocchi.
«E’ successo qualcosa?»
Lo guardo: è dimagrito, è pericolosamente dimagrito, le occhiaie non sono mai state così segnate e trema leggermente. Da quanto è qui?
«Potevi entrare in casa!» incrocio un braccio col suo e lo aiuto ad alzarsi, stando attento alla bambina. La signora Hudson oggi è fuori città.
Lui ride, anche se non è divertito.
«Ho lasciato le chiavi nell’appartamento.» tossisce «L’altro appartamento. E Sherlock… non ci voglio più tornare. Posso… posso…? Per favore.»
Un pugno allo stomaco avrebbe fatto meno male. Essere picchiato tutta la notte e il giorno successivo avrebbe fatto meno male di sentire John chiedere una cosa così ovvia.
«Quanto sei… idiota.»
Lo spingo dentro al caldo e porto il passeggino in atrio –per ora se ne resterà qui- mentre il borsone me lo carico in spalla.
John sale con calma (troppa calma) le scale e crolla sul divano non appena entrato. Non credo ce la farà a muoversi da lì.
Poggio a terra la sacca e gli prendo Sunshine dalle braccia e lo faccio stendere.
«Ha già mangiato.» mi dice, «Dovrebbe essere okay ancora per qualche ora.»
Prova a dire ancora qualcosa ma si addormenta di colpo e io rimango lì, a fissarlo con una bambina in braccio.
Mi dirigo in camera mia e faccio ben attenzione ad appoggiarla al letto come mi hanno mostrato in ospedale quelli che mi sembrano anni addietro, prima la testa, poi il corpicino. Spero non si svegli proprio adesso. Prendo un piumone dall’armadio e torno in soggiorno.
Osservo John che dorme, russando leggermente, e gli tolgo scarpe e giubbotto –entrambi gelati- coprendolo per bene.
«Sei veramente uno stupido. Poi osavi dire a me che non avevo cura di me stesso.»
Resto a guardarlo ancora qualche istante -anche se so perfettamente che potrei andare avanti così tutta la notte- ma non me la sento di lasciare la bambina sola in camera.
Riprendo il borsone e me lo porto di là.
Entrando noto che Sunshine non si è svegliata, né mossa e tiro un sospiro di sollievo.
Poggio la sacca sul letto e apro la zip, dando un’occhiata a quello che John ha deciso di portarsi dietro.
Latte in polvere, pannolini, ciucci (provvederò personalmente a evitare a John di farli usare a Sunshine, tendono a far crescere i denti storti), tutine e pigiamini di ricambio. Noto con disappunto che non si è portato dietro niente di suo, ma dal disordine del borsone posso dedurre che abbia buttato dentro quello che al momento gli sembrava necessario.
Domani. Domani andrò a prendere la sua roba.
Nel frattempo, mi conviene mettere il pigiama e pianificare la giornata: per prima cosa devo far tornare a casa la signora Hudson, ci serve una mano con la piccola, e io (purtroppo) non credo di essere la persona più indicata alla situazione.
Mi distendo e mi assicuro per un attimo che la bimba non si svegli, e poi resto immobile di nuovo. Sono sedici giorni che non vedo neppure lei.
E’ cresciuta –per quanto può crescere una bambina in questo lasso di tempo- i capelli sembrano ancora chiari, ma non posso esserne sicuro con la poca luce che filtra dalla finestra. Stringe i pugni vicino al viso e respira con la bocca aperta.
Non mi ero sbagliato allora, le labbra sono della madre.
Si dice che non si può sapere fino ad una determinata età che cosa abbia il neonato del padre o cosa della madre, ma quelle sono proprio le labbra di Mary: il labbro superiore più grosso rispetto a quello inferiore,  con l’arco di cupido molto pronunciato, la fa sembrare quasi… dolce?
Scuoto la testa impercettibilmente, questa è un’osservazione senza senso.
Allungo una mano e le tocco una guancia: risulta molto morbida al tatto. Lei sembra accorgersene perché corruga la sopracciglia e apre e chiude la bocca due volte. Rimetto giù il braccio ma lei sembra ancora più infastidita e inizia a singhiozzare nel sonno.
Perfetto.
E adesso?
Non ho abbastanza nozioni sui bambini, non so cosa bisognerebbe fare.
John ha detto che ha mangiato, può essere che abbia già fame? Forse dovrebbe essere cambiata? Cosa dovrei…?
Sento qualcosa spingermi in avanti e vado a scontrarmi con delicatezza contro la bambina, la sua testolina che preme contro il mio petto, e si calma.
«Ha solo bisogno di contatto fisico Sherlock, come ogni essere umano. Quante volte te l’ho detto?»
Sento la schiena di John premere contro la mia e per un secondo il mio cervello va in tilt.
John è nel mio letto. Con me.
«E ora segui il suo buon esempio e dormi: i suoi ritmi sono distruttivi.»
Annuisco, e spero che senta il movimento sul cuscino anche se mi dà la schiena.
Ad un certo punto il respiro di John si fa regolare, e sono sicuro che si sia addormentato. Ma mi sbaglio.
«Sherlock…»
Volto appena la testa, tentando di scorgerne il profilo, ma lui non tenta d’incrociare il mio sguardo.
«Grazie.»
Mi rigiro e tocco di nuovo la pelle liscia della bambina in una lieve carezza.
«Idiota.»
Lo sento ridere.
 
Non appena entro nell’appartamento, noto che niente è cambiato rispetto a settimane prima. La casa continua a essere avvolta dal caos, sembra che qualcuno sia appena uscito di tutta fretta senza aver avuto tempo di sistemare il vaso caduto a terra, la sedia spostata di vari metri dal tavolo e vari vestiti scartati lasciati a terra. Possibile che John abbia vissuto qui senza toccare niente per tutto questo tempo?
Non è voluto venire con me. Non ha nemmeno provato a mentire –forse sapeva semplicemente che non sarebbe servito-, ha semplicemente detto “Non me la sento”.
Fuori c’è un taxi che mi aspetta, devo solo prendere dei vestiti, metterli nella valigia e tornarmene a casa. Il fatto di poter aprire l’armadio di John come fosse il mio e prendere i suoi abiti mi dà una strana sensazione, quasi di intimità. In anni di convivenza questa è stata una delle poche cose che non mi sono mai permesso di fare: aprirgli l’armadio e scovarne fuori tutti i segreti che ne potevano uscire. Guardare –ad esempio- la divisa militare e capire com’era caduto, quando, quante volte era stato colpito, quanti strappi si potevano vedere sulla stoffa. Trovare magari qualche foto, qualche pagina di libro, qualche diario e guardarli o leggerli (perché lo so, lo avrei fatto).
Mi avvio verso la camera infondo al corridoio, ma mi ritrovo a fermarmi qualche passo prima dell’entrata.
Guardo la porta bianca, chiusa, davanti a me e mi sembra che sia una specie di freno. Uno stop alla mia avanzata.
Quella era la camera di John e Mary, e non posso dire di rimanere indifferente a questo. Oltre la soglia ci sarà il loro letto, il colore delle pareti che avranno scelto assieme, il loro armadio, la loro vita fino a pochi giorni prima.
Perché gli ho detto che sarei venuto? Perché gli ho detto che ce l’avrei potuta fare? Non voglio entrare.
Prendo un respiro, e penso che niente può essere più difficile di saltare da un tetto, no?
Abbasso la maniglia ed entro, evitando accuratamente di guardarmi troppo intorno, avvicinandomi all’armadio, aprendolo e buttando nella valigia quello che mi sembra più famigliare: il maglione bianco a righe nere, quello azzurro a sottili righe blu, quello beige a coste e avanti così. Qualche paio di pantaloni dovrebbero bastargli, nel caso ne prenderemo degli altri. Prendo ancora qualche pigiama e posso andarmene. John non ha chiesto di prendergli qualcosa di preciso.
Continuo a far finta di non vedere la parte di Mary, con i suoi abiti, le borsette, le sciarpe e chiudo la valigia uscendo di là alla svelta, notando però il colore delle pareti: arancioni. John odia l’arancione. Qualcosa in questa osservazione mi alleggerisce lo stomaco e posso uscire: dovevo mandare via il tassista e aspettarne un altro.
Ripercorro i miei passi indietro e Mary con i suoi occhi grandi mi sta fissando.
La foto è appesa vicino alla libreria e la ritrae mentre se ne sta seduta su una sedia con in mano un libro, sorridente a chi le sta facendo la foto (John, ovvio).
Stringo forte la maniglia della valigia e passo oltre. E’ ora di andarsene veramente.
 
Quando torno John è in cucina, intento a scaldare il biberon mentre con un braccio tiene la figlia e la culla tentando di farla smettere di piangere. Non è più il pianto sommesso che avevo sentito il primo giorno, è un pianto forte e piuttosto irritante.
Lascio la valigia davanti la porta e mi avvicino. John mi saluta, e sembra un po’ più riposato e tranquillo del giorno prima. Credevo si trattasse di un effetto momentaneo dovuto all’aver avuto qualche ora di sonno in più (non ho praticamente dormito, quindi mi sono occupato io della bambina), ma evidentemente mi sbagliavo.
John spegne la fiamma del fornello e sente se il latte ha la temperatura giusta, lo mette nel biberon e approfitta della bocca urlante –ergo aperta- di Sunshine per imboccarla.
Lei smette prontamente di urlare e inizia a mandare giù il liquido in piccoli sorsi.
John sospira.
«Non credevo sarebbe stato così difficile.»
Lo guardo alzando un sopracciglio.
«Mi sembra che tu te la stia cavando egregiamente.»
Si volta e mi guarda, venendomi incontro continuando a muovere il braccio che regge la bambina come cullandola.
«Sono un disastro, Sherlock.»
Mi viene da ridere, ma mi trattengo facendo una delle mie solite smorfie. John Watson un disastro; questa non l’avevo ancora sentita.
«Non mi sembra che tu abbia fatto ancora gravi errori, mi sembra in piena salute e ben nutrita, non l’hai abbandonata in un bidone dell’immondizia, non l’hai buttata giù dalle scale, non l’hai lasciata morire fuori al freddo in mezzo alla neve.»
Forse non è il modo più giusto per confortare una persona, forse andrebbe semplicemente detto “Sei fantastico, te la stai cavando alla grande!”, “Non dire sciocchezze, stai andando benissimo!” “Sei la persona migliore del mondo, niente di quello che fai è sbagliato.” ma so che John ha assistito anche ai casi sopracitati, nella sua vita. Quindi non può seriamente considerarsi un disastro come genitore.
Nel frattempo Sunshine ha finito il latte, e si sta placidamente addormentando, voltata verso di me mentre allunga un braccio in mia direzione col pugnetto chiuso.
«Posso?» chiedo senza nemmeno rendermene conto, muovendo un passo in avanti.
John mi guarda stranito, poi si fa più vicino e me la mette in braccio. Lei volta la testolina verso la mia spalle e lì si addormenta. Qualcosa mi stringe lo stomaco.
«Te la tengo mentre vai a sistemare la tua roba di sopra, non pretenderai che ti faccia anche da massaia.», fingo indifferenza in quell’affermazione, e spero semplicemente che John non prenda la mia frase per quello che è: una via di fuga.
Lui annuisce e continua a fissarmi per diversi secondi, finché non si volta e raggiunge la porta, prende la valigia e inizia a salire le scale per camera sua.
 
«Ora come si fa?»
La voce di Lestrade mi irrita. La domanda non meriterebbe nemmeno una risposta.
John è uscito a fare una passeggiata; voleva rimanere un po’ da solo, così la signora Hudson si è offerta di tenere la bambina per il pomeriggio. Lestrade è arrivato quando lui se n’è andato, un breve “ciao” e un paio di pacche sulle spalle: non serve loro altro per salutarsi.
«Allora?» evidentemente lui non è del mio avviso e pretende che io dica qualcosa.
«Non mi chiamerai se non per casi al di sopra del livello sette, non serve che ti dica quale tipo di livello sia, lo sai già. Nel caso tu proprio non riuscissi a fare a meno della mia presenza, ti consiglierei di cambiare lavoro, ma so che questa opinione è prettamente personale e forse non volevi sentirla. Comunque sia, mandami dei messaggi e degli MMS, puoi mandarmi i fascicoli per mail o spedirmeli a casa in busta anonima. Non darmeli di persona, John probabilmente si sentirebbe in colpa e farebbe di tutto per farmi venire sulle scene del crimine, cosa che io –per il momento- non voglio fare. Verrò solo se strettamente necessario e se non riuscirò ad avere tutte le informazioni dai file ricevuti.»
L’ispettore fa un cenno d’assenso e si stringe le mani, voltando nervosamente la testa.
Sbuffo.
«Cosa c’è?»
Lui rialza la testa e nel contempo si alza dalla sedia, lasciando la lattina di birra mezza piena sul tavolo.
«Niente. Solo… E’ una brutta situazione.»
Non per me.
E’ un pensiero prettamente egoistico, e forse dovrei sentirmi in colpa per averlo concepito, ma non ci riesco; non del tutto almeno.
«Mh.» è l’unica cosa che riesco a rispondere, e Lestrade mi guarda, e -purtroppo per me- so cosa voglia dire quell’occhiata.
«Non ho bisogno di ramanzine o paternali, o qualsivoglia tipo di discorso, Lestrade, te lo dico sin da ora.»
Annuisce: ha capito.
«Sai che John inizierà a fare domande comunque, vero? Sul perché non lavori a nessun caso, intendo.»
Questa volta tocca a me fare un cenno d’assenso.
«Ho progettato diverse scuse che potrebbero andare avanti mesi, quando le avrò finite, vedremo cosa fare. Oltretutto John potrebbe anche non aver bisogno del mio aiuto e…» per un attimo quella considerazione fatta ad alta voce mi spiazza, non ci avevo mai pensato prima, «E…» continuo fingendo indifferenza «Potrei tranquillamente riprendere in mano il lavoro senza problemi. In fine dei conti, sarebbe una soluzione momentanea per dargli una mano ad abituarsi alla situazione.»
Congiungo le dita delle mani e le porto sotto il mento. Lestrade sembra non aver notato nulla di strano nella mia reazione: perfetto.
Finisce la sua lattina di birra in poche sorsate, poi si alza e se ne và, salutando con un cenno del capo.
Mi alzo e mi avvicino alla finestra per accertarmi che se ne stia andando, ha iniziato a piovere (John non ha l’ombrello) e lo vedo camminare a passo svelto dall’altra parte della strada. Ottimo.
Mi distendo sul divano e chiudo gli occhi.
Potrebbe anche non aver bisogno del mio aiuto.
Alle mie orecchie sembrava un “Potrebbe anche non aver bisogno di me”. Il ché è vero. In fin dei conti si era costruito un’altra vita. Aveva trovato una ragazza, si era ripreso, si era sposato, era passato oltre alla mia (finta) morte.
Perché fa male?
Sento bussare alla porta. Non ho voglia di alzarmi. Non ho voglia di vedere nessuno. E non può essere John.
«Sherlock caro, ho problemi con la bambina.»
Mi ritrovo davanti la porta in poche falcate e la apro.
Sunshine piagnucola. Non piange, piagnucola.
Alzo un sopracciglio e guardo la signora Hudson.
Lei scuote la testa. Non sa proprio cosa fare.
Inutili le solite domande di routine sui bambini (E’ stata cambiata? Ha mangiato? E’ stata svegliata?); ha avuto dei nipoti, sa come si trattano dei pargoli.
Gliela prendo dalle mani e l’appoggio alle spalla. Sento le manine che si avvicinano ai capelli e tirano forte. E’ qualcosa di fastidioso, ma non faccio niente.
Dopo qualche secondo sembra calmarsi, e non posso fare a meno di guardare la mia padrona di casa con aria interrogativa, lei fa lo stesso.
«Oh beh caro, a questo punto credo semplicemente che ti conosca meglio, e si senta più tranquilla con te che con me.» sorride di uno dei suoi sorrisi furbi ma al contempo gentili.
Sento Sunshine emettere qualche piccolo versetto e le passo una mano sulla schiena in una breve carezza. Continua a fare dei versetti innocui.
«Prepari del tè signora Hudson.»
Mi avvicino di nuovo alle poltrone e ne scosto una, per farle cenno di sedersi (dopo che avrà fatto del tè).
«Non sono la governante.»
Ma si dirige comunque in cucina.
 
Sunshine ha compiuto quattro mesi due giorni fa, e qualcosa mi fa pensare che non è possibile che sia passato così tanto tempo.
Le prime notti, per John, erano state un incubo: svegliarsi sotto le grida della bambina, per prepararle il biberon o cambiarla o cullarla o tutte e tre le cose insieme lo stava facendo impazzire. All’inizio aveva rifiutato il mio aiuto, dicendomi di non volermi infastidire più del necessario, finché non era crollato (letteralmente) stanco morto e aveva preso in considerazione l’idea di farsi dare una mano (soprattutto perché –al contrario suo- io dormo molto meno e ho più tempo per starle dietro senza stancarmi).
Già da un po’,quando la mettiamo a terra, tenta di sollevare la testa (e riesce a tenerla eretta quando sta in braccio), cerca di toccare tutto quello che le sta intorno, si mette le mani in bocca (John mi ha spiegato più volte che non si può proprio evitare questa fase della crescita) e sorride (oltre con la bocca anche con gli occhi, come fa John) ai visi gentili.
Molly è passata a portare alcuni regali (tra cui nuove tutine e diversi giochi di plastica che emettono suoni bizzarri, eviterò di far usare anche quelli alla bambina) e si è messa a fare foto da ogni angolazione tutta sorridente, poi ha preso in braccio la piccola e ha iniziato a girare per la stanza parlottando con lei.
Lestrade non sa bene come comportarsi con i bambini e all’inizio si tiene un po’ a distanza, finché non è proprio John ad aiutarlo a tenerla e allora inizia anche lui a fare qualche vocetta stridula che fa tanto ridere Sunshine e storcere le labbra a me (ma con chi diavolo lavoro? Comunque sia, John mi ha detto che anch’io quando non me ne accorgo inizio a parlottare. Non gli credo).
La signora Hudson invece è una costante e la bambina si ritrova a sorridere ogni volta che la vede, un po’ come fa con me e John.
John mi aveva anche chiesto di accompagnarlo a New Scotland Yard siccome “Greg” aveva parlato di Sunshine a tutti quanti e ora ci ritrovavamo con una accozzaglia di persone curiose. Altri visi sorridenti di fronte alla bambina e tante congratulazioni. Perfino Sally l’ha presa in braccio e coccolata e non ha fatto nessuna battuta sarcastica nei miei confronti.
Gli occhi non hanno cambiato colore e sono rimasti di un bel blu con le iridi verdi, i capelli sono fini e biondissimi, adesso le coprono per bene tutta la testolina.
Inizio a passare sempre più tempo a guardarla.
«Papà.»
Silenzio.
«Papà.»
Lei mi guarda, appoggiata alle mie cosce, aprendo e richiudendo la bocca emettendo solo qualche leggero verso, continuando a ridere e a fare delle piccole bolle con la saliva. Dovrei probabilmente trovarlo disgustoso, ma non ci riesco.
Sento il divano abbassarsi e John farmisi vicino.
«Sherlock, ha quattro mesi, è troppo presto, dalle tempo.» mi poggia una mano sul braccio.
Mi volto a guardarlo e corrugo le sopracciglia.
«Lo so che è troppo piccola, però credo sia importante iniziare a mostrarle il labiale e farle capire una parola. So per certo di aver iniziato a parlare attorno agli otto mesi, io»Silenzio. Maledizione. Mi capita sempre più spesso di fare certe gaffe e non rendermene conto.
Potevo anche aver iniziato a parlare presto, ma lei non è mia figlia, non ha il mio DNA. E inizio a dimenticarmene un po’ troppo spesso.
«Sherlock, ti ricordo che tu –nel bene e nel male- sei una specie di genio. Ti ripeto: abbiamo tutti i nostri tempi, tu dalle i suoi.»
John; sempre troppo buono, anche quando non me lo merito.
Riprende a parlare dopo qualche secondo di silenzio.
«Allora hai iniziato a parlare presto, dovevo aspettarmelo.» sorride, e io con lui.
«Già, ma Mycroft ha iniziato qualche settimana prima di me; però io camminavo già verso i tredici mesi, mi sembra, mentre lui verso i quindici. Evidentemente era troppo grasso già da piccolo e le sue gambe tozze non riuscivano a reggerlo.»
John ride. Ride anche se ho nominato Mycroft, e la cosa non sembra infastidirlo. Forse c’è qualche speranza.
Lo sento avvicinarsi e poco dopo mi ritrovo il suo viso sulla mia spalla, il suo braccio attorno alle mie spalle. Mi si mozza il respiro.
Lui guarda semplicemente verso il basso.
«Sunshine, Sherlock vuole che inizi a parlare, e anche alla svelta. Che cosa dobbiamo fare con lui?»
La bambina ride e tenta di prendersi i piedini; la circondo con le braccia per non farla cadere.
John muove il viso annuendo e io non ho il coraggio di muovermi nemmeno di mezzo millimetro. Potrei sfiorargli la guancia con la mia facendolo passare per un gesto casuale, in una carezza che non mi sono mai concesso, ma ho paura del dopo. Del niente che mi rimarrebbe dopo. 
«Sì, sono d’accordo anch’io. Ce lo dobbiamo tenere così.»
Lo vedo allungare una mano e farle delle carezze sulla pancia, lei ride contenta.
«Che dici, gli chiediamo anche perché non prende più dei casi da diversi mesi?»
Mi irrigidisco impercettibilmente. Lui continua a non guardarmi, parlando con la bambina.
«Lestrade non ha nulla d’interessante per le mani.», rispondo meccanicamente, facendo la voce annoiata (più del solito).
John sbuffa e sorride appena.
«Già, e questa è la scusa numero otto che usa a rotazione assieme alle altre nove, non è vero Sunny?»
Sunny; un nomignolo che mi è uscito un giorno dalla bocca, senza nemmeno pensarci. E’ piaciuto a entrambi.
«John, mi stai irritando.»
«E tu mi stai dando dello stupido, più del solito, senza nemmeno accorgertene.»
Mi volto di scatto e vado a sbattere con il naso contro la sua nuca, il suo odore mi invade le narici per qualche secondo e mi distrae.
«Cosa intendi?»
Vedo il suo petto alzarsi e abbassarsi e capisco che ha sospirato silenziosamente.
«Che li leggo i giornali, guardo la tv, vedo i pacchi che ti arrivano a casa, Sherlock. E non sono così idiota. Ma soprattutto non capisco cosa tu stia facendo. Sono in paternità, la signora Hudson è libera e può sempre darmi una mano, quindi perché ti stai togliendo quello che ti piace di più, ovvero lavorare?»
Perché, da un po’ di tempo a questa parte, non è la cosa più importante. 
Perché, anche se mi manca, sento il bisogno di dover rimanere qui con voi. Perché anch’io leggo i giornali, e vedo i segni fatti a matita e dopo cancellati sugli annunci per cercare casa, e temo il giorno in cui tornerò e non vedrò più né te né lei, perché ve ne sarete andati. 
«Perché cerchi casa?» una domanda di risposta a un’altra domanda.
Alza il viso di scatto dalla mia spalla, e mi fissa.
Resta lì, quasi un minuto intero, nel suo mutismo, a fissarmi.
«Sherlock, non potrò rimanere per sempre in questa casa.», lo dice come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Perché no?»
Alza gli occhi al cielo, guarda da un’altra parte, si gratta il collo con la mano sinistra (come fa sempre quando è nervoso).
«Perché Sunny crescerà, prima o dopo, e dovrà avere una sua stanza, un suo spazio, e questa casa è semplicemente troppo piccola. Andava bene per noi due, ma adesso siamo in tre.»
«Non voglio che ve ne andiate.»
E’ un dato di fatto, è un’altra ragione prettamente egoistica perché io non voglio che se ne vadano. 
Cala uno strano silenzio nella stanza, e le labbra di John s’incurvano verso il basso, mentre mi poggia una mano sulla coscia vicino  Sunshine che si sta pian piano addormentando, stringendo il mio indice nel suo pugnetto. Mi scappa un sorriso.
«Possiamo trovare una soluzione, e Sunny è ancora piccola. Non c’è motivo di affrettare i tempi.»
Non può darmi torto: ho ragione.
Sembra esasperato, sembra ponderare una replica, alzando gli occhi verso il soffitto (di nuovo), sembra arrabbiato.
Invece, in risposta, fa una cosa che non mi sarei aspettato: si riappoggia a me, fianco contro braccio, tempia contro spalla.
«Mi sei mancato.»
Sento un leggero brivido salirmi su per la schiena a quell’affermazione. Da dove esce fuori? Perché?
«Impossibile; sono più di quattro mesi che abitiamo di nuovo insieme.»
Questa volta sospira piuttosto pesantemente, come se fosse seccato.
«Prima, idiota. Prima, mi sei mancato.»
Oh.
«Da come hai reagito all’epoca, non lo avrei mai detto.»
Ride piano, attento a non svegliare la bambina.
«Ti sei meritato parola per parola.»
Annuisco.
«Almeno ti sei limitato al “bastardo figlio di puttana”, avevo pensato ad eventualità peggiori.»
«I pugni non ti sono sembrati abbastanza?»
«Oh no, quelli erano perfetti, assestati in maniera magistrale, oserei dire.»
Ci ritroviamo a sghignazzare entrambi. E’ la prima volta che parliamo di questo argomento con tranquillità, e la cosa mi sorprende. Probabilmente, a questo punto, mi ha veramente perdonato tutto.
Forse, per una volta, potrei fare una piccola concessione ad entrambi.
«Lo sai, mi sei mancato anche tu.»
La tensione nell’aria si alleggerisce e nessuno dei due dice più niente per un po’.
 
John alla fine ha ragione (anche se non glielo dirò): è assurdo non partecipare alle indagini quando lui si è ripreso così bene, e la signora Hudson dà sempre una mano.
Quindi, mi carico Sunny su una spalla e chiamo un taxi per dirigermi alla centrale: camminare fino lì con Sunshine in braccio sarebbe piuttosto scomodo.
Quando entro nell’ufficio di Lestrade lo vedo fissare prima me, poi la bambina, poi guardarsi intorno e oltre la mia spalla, cercando John.
«John non c’è.» dico semplicemente, mentre Sunny si è attaccata con la bocca al mio collo spostando a fatica la sciarpa. Le accarezzo la testa e mi siedo di fronte l’ispettore che non la smette di fissarmi stranito.
«Allora, c’è qualche caso con una certa rilevanza?»
Sulle prime non risponde, prendendo in mano una matita, facendola dondolare sbattendola contro la scrivania. Alla fine ghigna.
«John lo sa?»
Mi aspettavo questa domanda.
«Se sua figlia non è in casa e non ci sono nemmeno io, credo sia piuttosto ovvio che sia con me, non trovi?»
Prende fuori il cellulare dalla tasca iniziando a comporre un messaggio.
«Quindi non c’è nessun problema se lo invito a raggiungerci?» chiede sarcastico, il maledetto.
Sbuffo contro la testolina bionda e sento la bambina ridere.
«Il mio aiuto ti serve o no? Se no me ne torno a casa.»
Lo vedo afferrare il bordo della scrivania e prendere un piccolo slancio per spostarsi indietro con la sedia, alzare poi le gambe e poggiarle al tavolo, guardandomi serio.
«Non ti farò venire sulle scene del crimine con una bambina, mentre John –suo padre, per intenderci- non ne è al corrente. Puoi anche scordartelo. E non dirmi che non è importante che John lo sappia, perché se così fosse glielo avresti detto senza problemi. Sai che non gli andrebbe bene.»
Alzo un sopracciglio sarcasticamente: bravo Lestrade, forse non sei effettivamente così stupido.
«Con lei verrò solo sul luogo del delitto a dare una prima occhiata, non mi metterò a correre per tutta Londra con una bambina in braccio. Credevo che la cosa fosse ovvia.»
«Santo cielo Sherlock, non è per il fatto degli inseguimenti, è una bambina!»
Annuisco, clemente, parlando lentamente come per farmi sentire meglio.
«Certo, una bambina di quattro mesi e undici giorni, che non ha una memoria visiva simile da sognarsi cadaveri di notte o rimanerne sconvolta.»
«Vallo a dire a John.» è la sua unica risposta.
E’ evidente che non intende demordere.
Faccio un lungo sospiro e tiro fuori il cellulare dalla tasca interna del cappotto. Nel frattempo Lestrade si alza e mi viene vicino, allungando le mani verso la mia bambina. Lo guardo male, ma non demorde e la prende in braccio; sento il piccolo peso lasciare la mia spalla e il calore di quel piccolo corpo abbandonarmi. Non è una sensazione piacevole.
L’ispettore si appoggia contro il bordo della scrivania e la solleva in aria, facendola ridere.
Compongo il numero di John e aspetto che risponda. Quando lo fa, gli spiego la situazione e non serve che ripeta a Lestrade quello che ha risposto; lo ha urlato talmente forte che probabilmente anche gli agenti al piano inferiore hanno sentito.
 
John ci raggiunge in ufficio una ventina di minuti dopo, rosso in viso per la corsa e il freddo e mi viene incontro con aria minacciosa. Lestrade: ti odio
«Ma sei impazzito?»
Scuoto le spalle e guardo l’ispettore che sembra godersela un mondo. Lo farò incarcerare per omicidio, falsificando delle prove in un indagine di Dimmock.
«John, non è pericoloso. E sei stato tu a consigliarmi di tornare ad occuparmi dei casi.»
Beh, più o meno.
Lui mi guarda. Non fa altro. Mi guarda, corruga le sopracciglia, e apre di poco la bocca. Vuole dire talmente tanto da non riuscire a dire niente.
«Ma non con la mia bambina!» urla infine, e lo fa talmente forte da spaventare Sunshine, che si mette a piangere.
Entrambi scattiamo verso di lei e Lestrade ci guarda, non sapendo cosa fare o a chi darla.
John mi guarda e mi faccio da parte, tornando un passo indietro.
La prende in braccio sollevandola di poco e guardandola negli occhi, sorridendole e parlandole con calma. Questo è il metodo di John di tranquillizzarla: funziona sempre.
Lei fa ancora un po’ la pantomima, strillando e facendo cadere calde lacrime, finché non si tranquillizza e allunga la manine toccandogli le guance e le sopracciglia. 
Mi avvicino e prendo dei fazzoletti dalla scrivania dell’ispettore e le asciugo il viso: torna a sorridere piano.
«Voi tre…»
Io e John ci voltiamo verso Lestrade che ha parlato: ci siamo entrambi dimenticati di lui.
Ci fissa e scuote la testa ridendo. Per una volta non capisco cosa stia pensando.
John sbuffa e mi guarda, sorridendo.
Stavamo per iniziare a litigare; mi sono perso qualcosa?
«Va bene.» dice semplicemente, e io non riesco a fare altro se non guardarlo.
«Ve bene cosa?»
«Andremo sulle scene del crimine. Ma niente inseguimenti.»
Andremo?
Lestrade sembra incredulo quanto me.
«John, ma ne sei convinto?» chiede quest’ultimo infatti, prima che possa farlo io.
Lo vedo annuire mentre bacia la guancia di Sunny e poi si avvicina di più a me, passandomela. 
La prendo in braccio piano e me la riappoggio sulla spalla, dove lei ormai sa già come mettersi comoda.
«Sherlock le vuole bene quanto me. E, per una volta, posso dire per certo che non la metterebbe mai in pericolo. Però verrò anch’io, su questo non si discute.»
Mentre i due continuano a parlare, io sento solo un profondo silenzio, per un attimo.
Ho troppe emozioni dentro, da poter catalogare. Posso capire le due più semplici: imbarazzo, per aver sentito esternare a John il bene che voglio a sua figlia e felicità, per riaverlo di nuovo sulle scene del crimine. Con me. 
«T’insegnerò tutto quello che c’è da sapere.» sussurro all’orecchio di Sunshine che, anche se non capisce, resta a fissarmi con i suoi occhioni blu (come se stesse effettivamente pensando all’opzione) per poi sorridermi.
 
 Dopo i primi casi, estremamente semplici e per nulla pericolosi, Lestrade ha iniziato a darci i soliti casi (quelli –per intenderci- dove bisogna lanciarsi nel Tamigi per catturare un assassino seriale) e sia io che John, ci accorgiamo che portarsi dietro Sunshine non è una grande idea (okay John, ho sbagliato).
Ma è comunque difficile abbandonarla alle cure della signora Hudson, soprattutto quando si mette a piangere e strillare vedendoci andare via allungando le sue manine, allargando e stringendo i pugnetti, ma pian piano si è affezionata tanto alla padrona di casa, da non accorgersi quasi della nostra assenza prolungata (anche se tentiamo di non stare mai via un intero giorno da casa).
John non è più abituato ad un ritmo serrato del genere, e non dormire e non mangiare per giorni lo debilita più di quanto vuole ammettere, ma non vuole cedere (mai John, tu non cedi mai!), così continua a venirmi dietro, anche se questo vuole dire arrancare.
Non mi piace lavorare senza di lui, ma devo mandarlo a casa –alle volte- per riposare e stare un po’ con sua figlia, continuando le indagini da solo, anche se fa resistenza.
«Sono in ansia, Sherlock.»
«Non devi.»
Ma so perfettamente cosa passa per la mente di John. Sono sparito per anni: non vuole lo faccia ancora o che mi accada davvero qualcosa.
«Non mi succederà niente.» le solite (inutili) rassicurazioni. Solo allora però, John sospira, si massaggia pesantemente gli occhi e se ne va. Non si riposerà come dovrebbe, ma certamente di più che correndomi dietro.
 
Come sta? –MH
Mycroft, l’uomo abituato a fare chiamate, che manda messaggi per non farsi sentire da John.
Sbuffo e rimetto il telefono nella vestaglia. Cosa dovrei dirgli? In realtà, al momento non troppo bene; sta piangendo e John (dolce, dolcissimo John) le sta cantando una canzoncina per farla calmare (però con tutto l’amore del mondo John, ma un gatto a cui hanno pestato la coda è più intonato).
Abbandono la finestra poggiando la tazza di tè sul tavolino e mi avvicino alla poltrona, le passo una mano sulla testolina bionda ma lei non accenna a calmarsi.
«Che le prende?»
John smette la cantilena e sospira esasperato: è da almeno dieci minuti che Sunshine sta andando avanti a piangere senza sosta.
«Credo abbia mal di pancia, ma sinceramente non ne ho idea, è da ore che non vuole mangiare.»
Annuisco.
«Cosa stavi provando a cantare?»
Fa una delle sue facce; quella alla “ho capito cosa stai intendendo, ma lasciamo cadere il discorso”, e mi ritrovo a sorridere.
«You are my sunshine. Non ho molta fantasia per questo genere di cose.»
Torno alla finestra e prendo archetto e violino.
«Ripetimi il ritornello.»
Lui lo fa, non con le parole ma a bocca chiusa, una piccola rivincita, probabilmente.
Alla seconda volta che parte col ritornello, lo seguo col violino:  a orecchio dovrebbe essere più o meno giusta.
Lei sembra distrarsi dal suono nuovo che invade l’appartamento e ferma il suo pianto disperato, continuando però delle piccole lamentele con le labbra semi chiuse e gli occhi pieni di lacrime.
John tira in fuori le labbra e inarca le sopracciglia.
«Beh… forse è meglio della mia voce. Un altro miracolo alla Sherlock Holmes.»
Alzo gli occhi al cielo impossibilitato a fare altro.
Vado avanti per dieci minuti buoni e Sunny pare essersi calmata. Il distrarla con nuovi suoni sembra funzionare.
Appoggio il violino al tavolo e tiro fuori di nuovo il cellulare.
Vieni a controllare tu stesso. –SH
Non ho nemmeno il tempo di bloccare lo schermo.
Sai perfettamente che non posso. –MH
Sì, lo so. Ma forse si può fare qualcosa.
Vado a sedermi accanto a John che si è appoggiato per bene alla poltrona.
«Dio, sono stanco.» dice, e non fatico a credergli guardandolo in faccia.
Forse non è il momento più adatto, ma, probabilmente, per un discorso del genere non ci sarà mai un momento adatto.
«John.»
Volta piano la testa e mi guarda sorridendo, aspettando che parli.
«John, vorrei chiedere a Mycroft di venire a trovarci.»
Il sorriso si spegne immediatamente.
Torna a guardare la bambina e a massaggiarle la pancia anche se si è addormentata.
Non voglio litigare con John per colpa di Mycroft, però non mi va nemmeno di continuare in questa maniera. Preferivo quando mio fratello scriveva a John, per ottenere favori, piuttosto che a me.
«Fai come vuoi.» è la sua risposta. Fa per alzarsi ma lo fermo.
«Voglio che ci sia anche tu.»
«Perché?»
Mi esce un verso davvero poco gradevole dalle labbra, a giudicare dalla faccia di John. Mi scompiglio i capelli. Odio queste cose, odio i sentimenti, odio trovarmi da questa parte della barricata.
Respiro forte.
«Perché è inutile la situazione in cui ci troviamo. Scrive a me per sapere come sta Sunshine, vorrebbe venire a vederla, vorrebbe tornare a passare di qui per caso e tirarmi le sue solite frecciatine, con te che gli dai corda. Insomma…»
Torna a guardarmi, stringe le labbra e scuote la testa.
«Sai bene come la penso, Sherlock.»
Sì, lo so.
«Ho tentato di spiegarti più volte che l’ha fatto perché non c’era altro modo.»
Questo discorso lo fa arrabbiare, lo si capisce, oltre dall’espressione, dalla vena sul collo che inizia a farsi più visibile, dai pugni che si stringono.
«Non riesco a capire come tu faccia a rimanere così sereno, con lui. Ha semplicemente spiattellato tutta la tua infanzia, tutti i tuoi punti deboli, a un mostro com’era…» si blocca, si schiarisce la gola «E non ci ha pensato due volte. Tu hai dovuto buttarti da un tetto, e io ho avuto i peggiori incubi della mia vita.»
Sospiro, e fisso per un attimo il tappeto.
Non saprei come spiegargli che per noi due è semplicemente una cosa normale. Lui deve proteggere il Paese, ed è quello che fa, a costo di tutto, a costo di tutti. Ed è per questo che lui non ha nessuno, non è che non lo vuole, semplicemente non può.
«John, fallo per me.»
Regna il silenzio per quasi un intero minuto.
«Va bene, ma non ti prometto niente.»
E’ già un enorme passo avanti.
 
Mycroft si è comportato in maniera ancora più impeccabile del solito, e se possibile questo ha irritato ancora di più John.
Non si è trattenuto molto, giusto il tempo di prendere un tè e portare qualche regalo alla bambina (che comunque ha dato a me, e non a John) e osservarla per bene, sorridendo di qualcosa che poteva capire solo lui, ogni tanto.
Prima di lasciarci per tornare alla sua vita da Governo Britannico però, ha guardato John e ha chinato la testa.
«La ringrazio, John.»
«Non è una seconda possibilità.»
«E’ comunque più di quel che mi aspettavo.»
John stringe i pugni, gli passo una mano sulla spalla e lui si rilassa.
«Ci sentiamo, fratellino.»
Roteo gli occhi.
«Purtroppo, immagino di sì.»
Mycroft sorride, per una volta sinceramente, e scende le scale.
Aspetto di sentire la porta al piano di sotto chiudersi e torno a guardare John, la mia mano ancora sulla sua spalla.
«E’ andata così male?»
Ghigna.
«Avrei voluto prenderlo a pugni dal primo momento in cui è entrato, ma, soprattutto, rompergli quel maledettissimo ombrello.»
Sorrido.
«Suppongo sia per questo che si è portato quello vecchio di anni e si è vestito col completo più usurato, credo si aspettasse seriamente di venire colpito.»
«Dici che sono ancora in tempo per raggiungerlo?»
Scuoto la testa.
«In mezzo alla strada? Ooh, troppi testimoni, aspettiamo che torni qui, una di queste mattine.»
John sorride. Mi guarda, e sorride.
Forse tornerà tutto apposto.
 
C’è una cosa che da mesi mi riprometto di fare, e forse potrebbe essere oggi. John lo sa che giorno è, ma non ne ha parlato.
Tappo le orecchie a Sunshine che mi è seduta addosso.
«John!» urlo dal piano di sotto per farmi sentire fino in camera sua.
Aspetto un paio di secondi.
«John!»
«Ho sentito! Dammi un attimo!»
Tolgo le mani dalle orecchie di Sunny e lei mi guarda curiosa. Sorrido e lei mi ignora tornando a mettersi in bocca un giocattolo di plastica (hanno iniziato a crescerle i denti da latte e prova fastidio).
John scende e mi guarda con aria spiritata.
«Che c’è?»
«Esco.»
Cala il silenzio e lui mi guarda aprendo e chiudendo la bocca.
«Da quando mi avvisi che esci? E poi mi hai fatto scendere solo per questo?!»
«Io non ti ho detto di scendere. Ho solo richiamato la tua attenzione pronunciando il tuo nome. Potevi anche rimanere su. Comunque sia, esco con la bambina. Ti avvisavo solo per questo.»
Lui si gratta la testa e sospira, alzando gli occhi.
«Non sarebbe la prima volta che sparisci con lei senza dirmi niente.» mi fa notare. Ha ragione.
Si appoggia le mani ai fianchi e fa un piccolo sorriso, si cala sulla testolina di Sunny e le da’ un bacio.
«Ci vediamo dopo.»
Si volta e fa per uscire salendo di nuovo in camera sua.
Forse dovrei provare.
«John.» lo richiamo, lui si volta tra il curioso e il seccato.
«Non hai niente da fare oggi?»
Rimane fermo, si morde le labbra, mi guarda fisso e stringe le mani: sa di cosa sto parlando.
«No.»
Annuisco.
«Ci vediamo dopo.»
 
La Circle line mi porta direttamente alla fermata di Hammersmith; da lì sono solo pochi minuti a piedi per raggiungere l’omonimo cimitero. John direbbe che non è un posto per bambini, John non ha ancora nominato una singola volta il nome di Mary. Oggi sono otto mesi dalla sua morte.
Il cartello verde, posto sopra un basso muretto di pietra, mi avvisa che siamo arrivati.
E’ un cimitero piuttosto grande e devo fare un attimo mente locale per ricordarmi da che parte andare. Percorro il sentiero in cemento con Sunny che si è risvegliata per colpa del freddo (dopo quasi mezz’ora in metro, è più che normale) e mi guardo intorno: mi sembra tutto incredibilmente uguale.
Mi pare di ricordare che fosse vicino una tomba famigliare (di quelle grandi che ha anche la mia famiglia, e con relative statue) ma non ne sono così sicuro (ero troppo concentrato su John, in quel frangente). Alla fine la vedo: una piccola lapide di normale pietra bianca, un piccolo cumolo di terra e tanti fiori. Alcuni li ha portati John (almeno vuol dire che le fa visita), lo capisco dal tipo di fiore (lo stesso che aveva anche il giorno del funerale).
Lascio il sentiero per salire sull’erba ancora bagnata dalla pioggia della mattina, e in pochi passi le sono davanti. Il silenzio, in questo momento, mi da’ solo enormemente fastidio. Perché, esattamente, sono venuto qui?
Sospiro e guardo Sunny che se ne sta raggomitolata contro il mio petto: dovevo vestirla di più. Apro il cappotto e la copro anche con quello, spostandola sull’altro braccio (a otto mesi, inizia a diventare un po’ più pesante).
Alcune persone mi passano vicino, qualcuna mi saluta con un leggero cenno del capo, altre si fermano addirittura a rivolgermi qualche parola e a farmi le condoglianze. Ci hanno scambiati per marito e moglie, Mary.
Torno a guardare la pietra spoglia e la sua foto.
«Sunny, questa è la mamma.»
Lei non mi ascolta, si sta per addormentare di nuovo.
«Era una donna con un sorriso per tutti, persino per me che non la potevo soffrire. E il motivo, evidentemente, lo sapevamo solo io e lei, siccome tuo padre non si è mai accorto di niente.», sospiro, mi trema un po’ la voce.
«La prima volta che l’ho vista, l’ho odiata veramente. Più di quanto abbia mai odiato qualcuno. Anche più di…» mi fermo, non lo nomino da quella che ormai mi sembra una vita, come se il solo pronunciare il suo nome potesse riportarlo dal regno dei morti e sconvolgere le nostre vite ancora, di nuovo.
«Ha preso con sé una delle poche persone che ritenevo importanti. In realtà ha preso la più importante, e me l’ha strappata da sotto le mani. A me.»
Guardo la foto che mi restituisce un sorriso, gli occhi ridenti.
«Ma alla fine ho iniziato ad apprezzarla anch’io. Amava tuo padre, tanto. E lui si era ripreso. Come potevo volere del male a una persona che amava John quasi quanto me?» mi abbasso sul talloni, il viso all’altezza della foto.
«Mi prenderò cura io di John adesso, Mary. Mi prenderò cura di entrambi, e lo farò al meglio delle mie capacità. Questa è una promessa.»
Mi sento semplicemente più stanco, non mi sento meglio, non sento niente.
«Tu hai aiutato John, e io ti devo qualcosa. Per una volta, non faccio tutto per mio egoismo personale.»
Scuoto un po’ Sunshine e lei mugugna infastidita, aggrottando le sopracciglia, aprendo la bocca. E’ troppo piccola, ma torneremo a trovare sua madre.
Mi viene in mente quella volta in cui mi ha accolto sulla soglia di casa e mi ha passato una asciugamano sui capelli bagnati dalla pioggia, iniziando a frizionare mentre io tentavo in tutti i modi di defilarmi da quella situazione imbarazzante, e lei semplicemente rideva.
«In realtà Mary, manchi anche a me.»
Guardo Sunshine che inizia a tirarmi la sciarpa, annoiata. E’ tempo di tornare a casa.
 
Quando torniamo John non chiede nulla, mi accoglie con una tazza di tè e un sorriso bonario, quasi di scuse per qualcosa.
Alle volte lo amo talmente tanto da spaventarmene da solo. E mi sento anche terribilmente in colpa.
 
Poi, un giorno, John inizia a ricevere delle chiamate che lui semplicemente ignora.
La prima volta sono seduto al tavolo a fare degli esperimenti per l’ultimo caso di Lestrade, John è sprofondato –stanco morto- nella sua poltrona, e Sunny è con la signora Hudson di sotto.
Il cellulare inizia a suonare.
John è un uomo a cui non piace perdere tempo, e, solitamente, dopo i primi due squilli ha già risposto. Questa volta però il telefono squilla più volte finché non si blocca (probabilmente entrando nella segreteria telefonica). Forse era solo qualcuno che ha sbagliato numero.
Succede però altre tre volte, e questo mi distrae dalla reazione di un determinato collagene su pelle di animale. Mi volto e guardo John che non si è mosso di un millimetro. Possibile che dorma? No. Il respiro non è molto regolare, e la mano (anche se tenta di non darlo a vedere) sta arpionando il bracciolo della poltrona.
Il telefono squilla ancora.
«John?»
Lui alza la testa e mi guarda. Fisso lui poi il telefono.
«Pensi di rispondere?»
Fa cenno di no.
Alzo un sopracciglio. Che c’è che non va?
Sbuffo e torno a guardare il microscopio.
«Allora mettilo in modalità silenziosa. Mi sta disturbando.»
Lo vedo con la coda dell’occhio prendere il cellulare in mano e sbloccare lo schermo, muove due volte il pollice e poi lo rimette sul tavolo.
Aspetto qualche secondo in silenzio delle spiegazioni che non arrivano. Se John non ne vuole parlare, per ora lascerò perdere.
 
La cosa va avanti ancora parecchie settimane, quasi ogni giorno, ma John non accenna a voler rispondere a quel maledetto telefono. Ad un certo punto, la prima cosa che fa la mattina è spegnerlo per riaprirlo la sera tardi, ignorando comunque i messaggi che gli arrivano.

   
 
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