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Autore: Trestan    30/07/2004    2 recensioni
Un gladiatore... Una vita senza libertà... Un solo modo per riprendersi tutto ciò che si è perso...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gladiator’s Tale

 

Questo brano parla di un gladiatore, un uomo come tanti altri, costretto a combattere per sopravvivere, per questo il suo nome non verrà mai pronunciato.

Era seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, lo sguardo rivolto verso il basso. Si trovava nella gabbia insieme ai suoi compagni, anche loro gladiatori. Come mai fosse lì non lo ricordava più, erano anni che combatteva nell’arene per sopravvivere. E cosa lo spingeva a restare in vita? Niente, sua moglie e suo figlio erano morti, era solo al mondo, continuava a combattere, ma non sapeva per quale motivo. Dicevano che fosse il più forte, o almeno l’unico sopravvissuto così a lungo nella sua compagnia. La sua fama lo aveva spinto fino a Roma, dove si trovava in quel momento.
Guardò l’elsa della sua spada. Un’altra battaglia, un’altra lotta per la sopravvivenza. Perché lo faceva? Ormai era stanco di combattere. La vita non gli era più così cara come una volta. Oltretutto non voleva privare altre persone delle loro vite per salvarne una sola. E perché accadeva tutto questo? Per far divertire degli stupidi e boriosi patrizi, comandati da quell’imperatore, molto peggiore di loro. Quel sovrano con la faccia da pesce lesso: ogni volta che lo vedeva provava un enorme gioia dal fatto di non assomigliargli per nulla, preferiva cento volte essere un gladiatore piuttosto che un’imbecille del genere. Tirò fuori la spada dalla sua custodia. La osservò: era incrinata in più punti, sul filo della lama vi erano delle scheggiature, il suo colore tendeva al rosso, erano i segni evidenti delle persone e degli animali che aveva ucciso con essa, il colore della vita scivolata via così facilmente.
Una voce chiamò il suo nome, la lotta stava per iniziare. Si alzò, rinfoderò l’arma e si diresse lentamente verso l’uscita della cella, passando accanto ai suoi compagni. Al suo passaggio tutti alzarono le loro armi in segno di saluto. L’uomo non li degnò nemmeno di un cenno, quelli probabilmente sarebbero stati i suoi avversari, altre vittime della sua abilità. Una guardia gli aprì la porta della gabbia e lui uscì. Si incammino lungo il corridoio che portava nell’arena. Era tutto buio, l’unica luce si trovava venti metri più avanti, la fine del tunnel. I suoi passi risuonavano più forti che mai, era solo, come lo era sempre stato. A passi sicuri entrò nell’arena e raggiunse il centro di essa, senza mai alzare lo sguardo. Poi, finalmente, lo fece e si guardò intorno: le tribune erano gremite, molti invocavano il suo nome, altri battevano i pugni contro il legno degli spalti, altri ancora applaudivano. Alzò le mani al cielo e fece un giro su se stesso per salutare la folla. Maledetti, siate maledetti dagli Dei, pensò l’uomo. Sputò a terra per proteggersi dalla influenza di quei “maledetti”, come li definiva lui. Prese lo scudo era legato alla sua schiena, e lo impugnò con la mano sinistra, mentre con l’altra estraeva di nuovo la spada. Abbassò sugli occhi la visiera dell’elmo e si mise in posizione di difesa.
Il rumore sugli spalti era aumentato, tutti erano esaltati e non vedevano l’ora che lo scontro iniziasse. Non avrebbero aspettato a lungo. Il cancello da cui era uscito poco prima si aprì di nuovo ed entrarono cinque gladiatori. Li riconobbe, erano nella gabbia con lui. Due gli si scagliarono subito addosso. Con la spada parò il colpo di uno di loro e indietreggiò velocemente per schivarne un altro. Gli altri tre rimasero fermi, aspettando il loro turno.
Riusciva egregiamente a tenere a bada i due gladiatori, ma si stava stufando di giocare con loro. Parò un colpo con lo scudo e con un fendente attaccò il gladiatore alla sua destra, che fu colpito all’inguine e si accasciò a terra perdendo sangue a fiotti. L’altro continuò ad incalzarlo, più motivato di prima, ma non aveva speranze. Le loro spade continuarono a cozzare fra loro per qualche secondo, poi l’uomo ebbe il sopravvento. Con un potentissimo colpo riuscì a disarmarlo e lo colpì allo stomaco, forandogli l’armatura di pelle.
Era il turno degli altri tre. Uno di loro gli lanciò un rete che lo investì in pieno. Non riusciva a muoversi. Si affrettò a tagliarla con la lama, mentre i tre lo stavano caricando. Per parare un colpo in quella situazione precaria, fu sbattuto a terra. Ma ormai si era liberato della rete. Un fendente dall’alto cercò di colpirlo alla nuca, ma con agilità rotolò alla sua destra. Assestò un calcio alla gamba di uno dei gladiatori, che perse l’equilibrio e fu infilzato dalla spada dell’uomo. Si rialzò e strappò con violenza la spada dal cadavere, il sangue zampillò fuori dal corpo, inondandolo completamente. Con la lingua si pulì il sangue intorno alla bocca: aveva imparato ad apprezzare il sapore del sangue.
Gli altri due non stettero ad osservare. Uno riuscì a colpirlo di striscio alla spalla, ma immediatamente subì un colpo all’ascella che tranciò di netto il braccio. Il gladiatore, agonizzante, si accasciò a terra toccandosi il punto in cui prima vi era l’arto: morì presto dissanguato. L’altro, osservò la scena inorridito, e rimase pietrificato. Fu la sua ultima visione: la testa gli venne mozzata di netto.
Con il dorso della mano, il gladiatore si pulì il viso dal sangue.
Gli spalti erano in fermento, la maggior parte degli spettatori si era alzata applaudendo e urlando a squarciagola il suo nome. Avevano visto cinque uomini morire, come potevano applaudire? Aveva sempre disprezzato quella gente che, pur morendo di fame, era contenta di vedere certi spettacoli. “Panem et circensem” era il motto degli imperatori di quell’epoca e la gente era felice. Sputò un’altra volta a terra poi si diresse davanti la tribuna dei patrizi. L’imperatore si alzò in piedi, chiese il silenzio e tutte li tribune ubbidirono. L’imperatore alzò l’indice e il medio a forma di “v”, il segno di vittoria. Questo significava che gli risparmiava la vita. Fu preso da una rabbia implacabile.

Chi diavolo si credeva di essere quell’uomo per poter decidere della sua vita? Soltanto una persona poteva farlo e non era sicuramente lui.
L’uomo lasciò cadere a terra lo scudo e alzò la mano sinistra. Basta, è l’ora di finirla, pensò. Prese la spada, la conficcò nel suo stomaco e con un enorme sforzo la girò all’interno del suo corpo. Il dolore era lancinante, il sangue iniziò ad uscire dalla sua bocca. Trovò le forze per gridare un’ultima cosa:
“Mi riprendo la mia vita!”
Finalmente sarebbe stato libero, si sarebbe congiunto con sua moglie e suo figlio, avrebbe riabbracciato i suoi compagni, ma soprattutto non avrebbe più combattuto per il divertimento di certa gente.
Le forze lo abbandonarono completamente. Cadde in ginocchio e poi collassò a terra.

 

  
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