Ragazzi,
siete incappati in
una fanfiction piena
di
SPOILER!!
Lettore avvisato… U_U
Poking around into dusty memories
So I'll spend my time with strangers
A condition that is terminal
In this water-cooler romance
And it’s coming to a close
Sometimes I think I'll die alone
live and breathe and die alone
I think I’d love to die alone...
Cubicles - My Chemical Romance
La casa in cima alla collina lo occhieggiava sardonica.
In effetti, non era nemmeno una casa: era un cottage,
minuto, e benché non dimostrasse la sua vera età aveva comunque un’aria vissuta,
data in parte all’incolto giardino circostante e da qualche crepa sulla
facciata.
Ad esser precisi, nemmeno quel vago pendio si poteva
definire “collina”, ma così faceva più poetico.
E Ted Lupin era una persona molto precisa e poetica.
Lo zio Harry glielo diceva sempre che gli ricordava suo padre
in maniera impressionante: non tanto nei lineamenti -sarebbe stato sciocco
cercare delle somiglianze in un Metamorfomagus- quanto negli atteggiamenti e nelle
piccole manie, come quella di tenere tutti i libri divisi per argomento e in
ordine alfabetico, a casa.
Anche nonna Andromeda era solita fare paragoni. Diceva che
per quanto somigliasse a suo padre, in certi momenti
era la copia precisa di sua madre… come quando, finito di mettere a posto tutti
i libri, inciampava sulla poltrona e rovinava contro la libreria.
Ha un che di bizzarro crescere sentendosi paragonare di
continuo ai propri defunti genitori. Lo zio Harry sembrava capirlo, perché ogni
volta che Ted gli faceva notare la cosa, lui aveva un guizzo negli occhi dietro
le spesse lenti, e nascondendo a mala pena un ghigno gli scompigliava i capelli
con affetto. Oh, non sai con chi ne stai
parlando… diceva.
La cosa più strana era che non sapeva come reagire quando
qualcuno gli diceva, ad esempio, che aveva l’abitudine di passarsi una mano sul
collo proprio come sua madre quando era imbarazzata. Insomma, lui i suoi
genitori non li aveva mai visti, non sapeva nemmeno se ci avesse trascorso insieme
almeno qualche settimana.
Era sicuro che fossero stati delle persone fantastiche,
tutti li ricordavano con affetto, ma… che cosa stupida da dire, ma se a lui non
fossero piaciuti? Se fossero stati deludenti, come genitori?
Di solito queste elucubrazioni si concludevano con una
scrollata di spalle, con cui si ricordava che tanto non sarebbe cambiato nulla
e che i suoi genitori erano dei veri eroi.
Comunque, che male c’era a cercare un po’ di notizie? Dopo
tante insistenze, nonna Andromeda si era finalmente convinta che gli avrebbe fatto
bene scoprire qualcosa di prima persona e gli aveva raccontato della loro
vecchia casetta. Ted, fuori di sé dalla gioia, aveva insistito per farsi dire
per filo e per segno dove potesse trovarla, e si era
persino scarabocchiato una mappa: delle righe nette per la strada che doveva
seguire, quella curva sbilenca era la collina dove era costruita la casa e i
ghirigori lì dietro stavano ad indicare un boschetto.
Adesso il bosco si estendeva in tutta la sua maestosa
non-ghirigorosità sotto di lui, e il cottage sembrava una candelina su
un’immensa torta verde. Si chiese distrattamente perché i suoi avessero scelto
di abitare in un posto così isolato, nel mezzo della brumosa campagna inglese,
e altrettanto distrattamente si rispose che il suo papà era un mannaro. Come in
parte lo era anche lui, e per questo riusciva a capire quella decisione.
« Ooh, è davvero carina! Che peccato che sia stata
lasciata così… » disse Victoire mentre si avvicinava a Ted per ammirare la
casa, i capelli biondi ramati di rosso che le volavano in faccia per il vento.
Ted le passò un braccio intorno alle spalle per scaldarla - cosa avrebbe fatto
senza quella ragazza? Gli era stata vicino, l’aveva sostenuto nella decisione
di visitare il luogo, si era offerta d’accompagnarlo…
Salirono il vialetto d’ingresso, che ormai si vedeva a
stento sotto le erbacce e la terra smossa, e arrivarono alla porta: era in
legno di ciliegio, e all’altezza del naso di Ted era stato inciso un piccolo
bassorilievo. Avvicinandosi ad osservare con attenzione, rovinato dal vento e
dalla pioggia si poteva distinguere l’abbozzo di una falce di luna con una
zampata a fianco, chiaramente di lupo. Ted sollevò una mano guantata e seguì il
contorno dell’incisione coi polpastrelli; nel farlo, la porta si aprì un poco
con un alto cigolio, e bastò una spinta poco più forte per farla spalancare del
tutto.
I cardini gemettero mentre se la richiudevano alle spalle,
cadendo in una semi oscurità che rendeva spettrali i contorni dei mobili e di
quelle che sembravano scale. Ted iniziò a tastare il muro direttamente a destra
della porta.
« Teddy che stai facendo? » chiese Victoire, stringendosi
alla manica del giaccone del ragazzo.
« Cerco un interruttore. »
« Un che? »
« Un aggeggio babbano, ce l’ha in
casa anche zio Harry. Se lo trovo… ah, eccolo! » Con un piccolo click, una
lampada appesa al centro della stanza tornò alla vita con qualche flash prima
di stabilizzarsi su una calda luce aranciastra. La stanza in cui si trovavano
assunse così un’aria molto più confortevole, sebbene
sporca e impolverata.
Era un soggiorno piccolo, una porta sull parete dirimpetto
ai due che doveva condurre ad un’altrettanto piccola cucina, e le scale alla
loro destra. A sinistra, davanti ad un annerito camino a muro, stavano un
tavolinetto, un divano e una poltrona. A muro c’erano due librerie cariche di
antichi volumi e una lampada da salotto. Vicino alla porta c’erano un elaborato
appendiabiti, una cassettiera con sopra un vaso vuoto e uno specchio.
Avanzarono al centro della stanza, sollevando nuvolette
dal tappeto consunto, e appoggiarono le giacche sul divano dopo che Victoire
con un gesto della bacchetta ebbe fatto sparire un po’ di sporco.
Ted si guardò intorno rapito, quella casa era esattamente
come l’aveva immaginata: piccola, calda, confortevole. I libri erano proprio
quelli che credeva di trovare, anche se non poteva dirlo con sicurezza da
lontano gli pareva di riconoscere dei volumi sulla difesa dalla
arti oscure e sulla licantropia. Gli parve di vedere dei ricordi
prendere forma, due genitori felici che cullavano il loro bambino, quel bambino
che muoveva i primi passi, feste di compleanno, serate passate a bere
cioccolata calda davanti al camino… Poi si riscosse, e quelle immagini
scomparvero. Lui, in quella casa, ci aveva vissuto meno di un mese.
« Io- vado a vedere cosa c’è di sopra, se trovo qualcosa
di interessante. » Si avviò su per le scale, anch’esse cigolanti, e si ritrovò
ad un piano superiore piccolo quanto quello inferiore: un corridoio che dava su
tre porte, una aperta a lasciar intravedere il bagno,
due chiuse, anche se su quella di destra spiccava una targhetta dorata, “Teddy
R. Lupin”.
Ted aprì la porta a sinistra, la camera dei suoi, e andò
dritto verso il grande comò nell’angolo in cerca di foto o quant’altro,
registrando solo vagamente quanto quella parte della casa fosse decisamente più
fredda rispetto al soggiorno o al corridoio. Forzando un po’ un cassetto riuscì
ad aprirlo e a rovistarci dentro, ma vi trovò solo vecchi vestiti, un calzino
spaiato e una federa sgualcita. Provò nel cassetto sottostante che si rivelò
ben più incastrato e combattivo, ma dopo qualche imprecazione anche quello si
arrese e mostrò il suo contenuto, ossia una pila di asciugamani sulla cui cima svettava pomposa una scatola rosso scuro. L’estrasse e
se la rigirò tra le mani, per poi appoggiarla sul ripiano della cassettiera a
togliere il coperchio: ai suoi occhi si presentò un album in pelle, quadrato,
in ottimo stato (di sicuro grazie ad un incantesimo).
Se lo mise sotto braccio, quindi uscì dalla stanza
chiudendosi con cura la porta alle spalle e raggiunse Victoire al piano di
sotto. La trovò in piedi davanti alla libreria, con la testa piegata di lato e
i boccoli ad incorniciarle il viso, intenta a leggere i titoli sul dorso dei
vari volumi. Si voltò e gli rivolse uno sguardo interrogativo, al quale lui
rispose sventolando il tesoro appena trovato. Gli occhi di lei si illuminarono
mentre si affrettava a raggiungerlo sul divano.
« Che cos’è? Dove l’hai trovato? » chiese, passando rapita
le mani sui bordi del librone.
« Credo sia… un album di foto. Era nascosto dentro il
cassetto degli asciugamani, di sopra. » Ted fissò la copertina in cuoio, per la prima volta seriamente convinto che tutta quella
storia fosse un errore madornale. Oh cavolo, aveva paura di un album
-sbrindellato, per giunta. Comunque, non se la sentiva di aprirlo. Gli sembrava
qualcosa di… sbagliato, ecco. Come intromettersi nella vita di qualcun altro.
Dannazione, adesso straparlava anche? Ma che qualcun altro e qualcun altro!
Victoire gli posò una mano sul braccio, e finalmente Ted
si decise ad aprire il libro. La copertina fu sollevata in un’apoteosi di
polvere, e solo dopo qualche attimo in cui starnuti e colpi di tosse la fecero
da padroni i ragazzi furono in grado di sbirciare la prima pagina. Sulla filigrana
giallognola spiccava, anonima, una scritta tutta ghirigori - Ricordi -, e nell’angolo in basso a
destra si poteva leggere in una calligrafia stretta e severa una dedica. “Nella speranza che la vostra vita sia
sempre piena di preziosi, luminosi ricordi. Minerva McGranitt”
La carta scricchiolò mentre la pagina veniva voltata, e in
quella seguente campeggiava un’unica foto di gruppo. Una ventina di persone
sorridevano e salutavano, stringendosi il più possibile per far entrare tutti;
Ted riconobbe immediatamente Harry, in prima fila tra un uomo alto dai capelli
neri e un altro che capì essere suo padre, viste le sottili cicatrici sul volto
e l’aria stanca. Stavano sorridendo tutti e tre, benché non ci fosse molto da
sorridere, e l’uomo dai capelli neri continuava a scompigliare i capelli di
Harry come per tenerli persino più disordinati del normale. Vicino a sua padre stava una ragazza, giovane, il viso raggiante di
gioia e i capelli rosa shocking legati in due codini; sua madre teneva una mano
sulla spalla di un uomo dall’aria scocciata che aveva il viso sfigurato e un
occhio blu elettrico molto più grande dell’altro, piccolo e nero.
« Guarda, c’è anche il mio papà! » esclamò Victoire
puntando una figura in seconda fila. Le persone in prima fila si abbassarono un
poco per lasciar spazio e Bill Weasley, a quei tempi ancora un bel ragazzo dai
lineamenti decisi. « E qui i nonni, e gli zii! Così questo era l’Ordine della Fenice…» mormorò la ragazza in un misto
di devozione e malinconia, seguendo con le dita la scritta a mano che fungeva
da didascalia. Ordine della Fenice,
Agosto 1995.
Nella pagina successiva c’erano due foto: nella prima, sua
madre rideva, i capelli questa volta lunghi e azzurri le ricadevano scomposti
ai lati del viso, e teneva per mano la persona che stava scattando la foto. Sembrava
che stesse cercando di trascinarla nell’inquadratura benché
quest’ultima fosse visibilmente restia. Nella seconda foto sua madre era
riuscita a cogliere di sorpresa suo padre: Remus era seduto ad un’ingombra
scrivania e stava scrivendo su un quaderno, profondamente preso. Ogni tanto
alzava gli occhi verso Tonks, irritato, e smetteva di scrivere; dopo qualche
attimo, magari raddolcito da qualcosa che sua madre aveva detto, le lanciava
un’ultima occhiata in tralice e riprendeva la sua occupazione.
Un’altra pagina, questa con un’unica immagine. Datata 3
luglio 1997, era una foto del matrimonio dei suoi genitori. Sua madre era
semplicemente bella nell’abito da cerimonia bianco, i capelli di un sobrio
castano chiaro con un ciuffetto ribelle fucsia, gli occhi verdi brillanti come
quelli di una bambina; stringeva il braccio del neo-marito che la guardava con
un sorriso imperscrutabile. Anche lui sembrava in qualche modo diverso, quasi
spensierato nonostante le innumerevoli sofferenze che gli si leggevano in
volto. Dietro i due sposi novelli stavano Andromeda e Ted Tonks, e quando gli
sposi si baciarono Andromeda scoppiò in singhiozzi; suo marito le dava delle
pacche sul braccio, osservando Remus con lo sguardo diffidente che avrebbe
qualsiasi padre al matrimonio della figlia. Non che quello fosse stato un
matrimonio tanto classico, poi.
« Mio Dio, sono così dolci! Tua madre è… »
« Bellissima. » completò Ted con un groppo in gola. Tentò
di schiarirsi la voce con scarsi risultati, e per evitare gli occhi preoccupati
di Victoire che si sentiva puntati addosso si chinò sull’album. Registrava solo
vagamente alcuni dei particolari della scena (il ciondolo a forma di stella che
sua madre portava al collo, le occhiaie sul viso di suo padre o sua nonna Andromeda
che stava stringendo la mano al marito tanto da fargli sbiancare la punta delle
dita), mentre il suo cervello riusciva a focalizzarsi
solo sull’atmosfera complessiva dell’immagine. Erano felici, dai loro sorrisi traspariva una gioia che -dopo tutti i racconti
dello zio Harry- non credeva possibile durante il periodo di Voldemort. Si
raddrizzò cercando di non farsi vedere mentre si asciugava gli occhi e voltò
pagina.
Seguivano altre quattro foto, scattate probabilmente tra
novembre e dicembre. In una sua madre stava comodamente seduta in poltrona e
sfogliava pigramente un libro; mentre passava di pagina in pagina si sfiorava
il grembo, quasi senza rendersene conto, in un gesto che poteva significare
solo una cosa. Nella foto seguente, sempre sua madre si avvicinava al fotografo
brandendo un rametto di vischio con un sorriso furbo; nella terza suo padre,
inerpicato su una scaletta dall’aria fragile, si stava spenzolando per arrivare
a mettere una stella sulla cima dell’albero di Natale che era stato piazzato in
un angolo di quello stesso salotto. Nell’ultima foto Ted Tonks sembrava intento
a spiegare al genero il modo migliore con cui tagliare l’arrosto, mentre seduta
al suo fianco la figlia dai capelli rosso fuoco rideva di gusto.
« Ma cosa…? »
Quello che trovarono dopo furono delle pagine bruciate:
alcune si erano semplicemente annerite e le foto che ospitavano si erano
scollate, mentre di altre restava solo un bordo carbonizzato.
« Deve essere successo durante una fuga… » mormorò Ted,
poi spiegò a Victoire che lo guardava perplessa « Gli zii mi hanno raccontato
che in quel periodo tutti erano sempre in fuga: alcuni erano braccati, mio
nonno si era dato alla macchia, e nessuno poteva ritenersi al sicuro se restava
nello stesso posto per più di due settimane. Magari i miei erano stati
scoperti, e la mamma non aveva voluto abbandonare l'album… nella fretta si sarà
bruciato, o l’avranno colpito con un incantesimo… » Scacciò l’immagine che gli
era appena venuta in mente dei suoi genitori inseguiti da un gruppo di
assassini, girando la pagina con un gesto brusco.
Si ritrovò a fissare negli occhi un sé stesso molto, molto
più piccolo. Mentre Victoire si lasciava andare ad un gridolino deliziato lui
combatteva con un sorriso che non voleva saperne di andarsene dalle sue labbra.
Era con sua madre, tutto infagottato, e tentava di acciuffare una verdissima
ciocca dei capelli di Ninphadora con le manine paffute. Sua madre, l’immagine
della serenità, sorrideva senza preoccuparsi di mettere i capelli fuori portata
del bambino. Nella pagina a fianco era invece con suo padre e sua nonna: Remus,
ridendo come un ragazzino, lo teneva saldamente sollevato sopra la testa in una
sorta di aeroplanino; seduta sul bordo del divano dietro i due, Andromeda
fissava immobile e con gli occhi sbarrati, ma senza dire una parola, quel
degenerato del genero che trattava il figlio come un sacco di patate.
Poi, pagine bianche.
« Sono davvero poche foto, ma non credo avessero avuto
tempo di farne tante… » disse Victoire dopo un momento di silenzio,
tornando a guardare la foto di Remus e Ted. « Siete proprio buffi insieme! »
Ted ridacchiò e appoggiò il
capo sulla spalla della ragazza, chiudendo gli occhi e godendosi i piccoli
attimi che aveva appena rubato da un passato in parte anche suo. I suoi erano
una coppia strana, punto. Sua madre era così vivace e appariscente, sembrava
possedere vitalità a sufficienza anche per suo padre, che era sempre così
composto e posato. Era qualcosa di profondamente diverso dall’ascoltare i
racconti di parenti o vecchi amici sui suoi genitori, era come squarciare per
un secondo la realtà e trovarsi a sbirciare dentro una vita che non gli
apparteneva, una vita felice…
« Scusami un minuto, vorrei
andare un attimo di sopra. » disse a Victoire posando l’album sul basso
tavolino. La ragazza lo salutò con un bacio sulla guancia, e mentre saliva le
scale la vide alzarsi ed avvicinarsi di nuovo alla libreria nell’angolo.
*
Cinque secondi dopo stava infilando il naso nello
spiraglio di porta aperta per sbirciare quella che sarebbe dovuta essere la sua
camera. Sgusciò dentro come se temesse vedere qualcuno sbucare fuori dal
nulla gridando “Fuori da camera mia!” e
socchiuse le palpebre per abituarsi all’improvvisa quantità di luce naturale
che entrava dalla finestra. Una delle tendine aveva ceduto e ora giaceva
malamente spiegazzata a terra, esattamente ai piedi di una lettino minuscolo,
in legno chiaro, con sopra un solitario cagnolino di peluche scolorito dal
tempo. Per il resto, nella piccola stanza c’erano soltanto una libreria
ovviamente vuota (sicuramente era stato suo padre a volerla) e un tavolino con
una seggiolina. Ted si sedette proprio su quella seggiolina, che scricchiolò
rumorosamente in protesta, e si perse in contemplazione della stanza. Della mia stanza…
Gli piaceva, nel complesso. Le pareti erano di un
conciliante celeste, il panorama che si scorgeva dalla finestra era
incantevole, le cime degli alberi indorate dal sole calante e il riflesso
irrequieto di quello che, molto lontano, doveva essere un lago, e-
Nel mezzo delle elucubrazioni, la sedia decise di
protestare in maniera più decisa spezzandosi del tutto. Ted si trovò
dolorosamente a contatto con lo sporco pavimento, con una delle gambe dello
sgabello che gli premeva contro il polpaccio le sue schegge aguzze, e un gomito
indolenzito dalla botta data contro quello che, più che parquet, sembrava duro
marmo. Ma il tutto passò in secondo piano non appena si rese conto di un
particolare.
Tunk.
Tastò il pavimento, prudentemente, e dopo qualche minuto
iniziò a picchiettare le assi su cui era caduto. Niente. Niente. Niente. Tunk.
Decisamente, c’era qualcosa di strano. Spazzolò alla buona
il punto in questione e si mise a seguire attentamente i bordi dell’asse con le
dita. La sua espressione si fece concentrata quando
trovò un lato più smussato - quasi… Riuscì ad infilarci le dita e, senza che se
ne rendesse conto, si ritrovò la tavola in mano come se fosse stata spinta da
una molla. Tossendo violentemente, cercò di identificare cosa si trovasse dentro la nicchia nascosta immersa nel polverone.
Quello che si presentò sotto i suoi occhi dilatati dallo
stupore fu un quaderno. Vecchio, nero, anonimo. Lo sollevò deluso, scrollandolo
per pulirlo un po’, e fece così cadere un mucchio di fogli che si
sparpagliarono disordinatamente in terra. Le raccolse in fretta e furia, ma si
distrasse notando un plico di fogli che sembravano molto più vecchi del
quaderno stesso ed erano tenuti insieme da un nastro dorato. Posò alla sua
destra il quaderno e i vari foglietti che aveva riordinato e prese il plico,
scrutandolo con un misto di curiosità e senso di colpa. C’erano delle foto, dei
piccoli ritagli di giornale e un paio di fogli ripiegati, constatò mentre le
sue dita giocavano distrattamente con nastrino. Il fiocco si sciolse da solo
(circa) e non poté fare a meno di prendere in mano la prima foto.
Quattro ragazzi, in riva ad un lago, con le divise
disinvoltamente slacciate sotto il sole rovente e dei sorrisi furbi che
conferivano loro l’aspetto di una piccola banda di teppisti. Avranno avuto
all’incirca quindici, sedici anni. Il più a destra dei quattro sembrava Harry,
ma Ted capì subito che non poteva essere lui -lineamenti troppo marcati, occhi
di tutt’altro colore… Così quello era James Potter. Allora gli altri dovevano
essere i celebri Marauders. Minus, il ragazzino biondiccio e paffuto a cui James Potter stava scompigliando i capelli, poi Remus,
giovane e spensierato, pallido ma in forma, e infine un bel ragazzo moro con un
braccio posato intorno alle spalle di Remus, una strafottente eleganza tutta
sua mentre lanciava ghigni cospiratori in direzione di James. Doveva essere
quel Sirius Black.
La foto successiva era stata chiaramente scattata di
nascosto, come dimostravano le reazioni infuriate degli abitanti dell’immagine.
Era comprensibile in fondo che James si arrabbiasse
dopo esser stato immortalato in un momento di privacy con la sua ragazza, che
stava intanto sfoderando la bacchetta in direzione dei paparazzi, gli occhi
verdi che brillavano di divertimento e imbarazzo…
Quello che ora si stava rigirando tra le mani era un
biglietto. Di compleanno, per la precisione, per il diciassettesimo compleanno
di Remus.
Auguri vecchio Moony!!! Finalmente
maggiorenne!!
La cosa bella non è che potrai
finalmente bere, fumare o corrompere giovani fanciulle
uscire dalla scuola quando vuoi, ma
che potrai farlo LEGALMENTE! :D
Tre urrà! da
Prongs & Wormtail
mentre quel demente di Pad ti starà
già saltando sul letto
Ted ridacchiò mettendo da parte bigliettino, e intanto
cercava di immaginarsi suo padre a fumare e “corrompere giovani fanciulle” -
suonava strano persino a lui, che non lo aveva mai visto. Sorridendo cominciò a
leggere il documento seguente, una lettera, con un’ultima risatina che gli morì
pian piano sulle labbra.
Caro Moony,
qui da James è un delirio. Sto scoprendo quanto Lily possa essere
terrificante - e sono costretto ad ammettere che le donne incinte sono
pericolose. Molto pericolose, sai, ormoni e tutto il resto. James vorrebbe
chiamare il marmocchio James Jr, e questo fa irritare ancora di più la sua
già-sufficientemente-deliziosa mogliettina. Ma le do ragione, James Jr fa
davvero schifo. (meglio Giovane Sirius, non trovi?)
Domani torno a casa mia. Ah, no, cambio casa di nuovo. Posso farti
sapere che non mi allontano troppo dall’ultima, ma questa sarà decisamente
più protetta. E sporca, probabilmente.
Odio questa situazione. Odio non poterti dire nulla, odio non vederti
e non avere nemmeno la certezza che questa lettera ti arriverà mai. Sono cinque
maledette settimane che non ti vedo, cazzo, mi manchi Moony. Mi
mancano le colazioni insieme, i pomeriggi passati a sentirti leggere libri
che non mi interessano minimamente e mi manchi la notte, Moony. (andiamo, non fare quella faccia, sai cosa intendo) Il
letto è freddo, io ho freddo, e non dormo, perché senza di te che russi non
posso nemmeno pensare di poter dormire.
Basta, fai finta di non aver letto quest’ultimo paragrafo. Dobbiamo
essere allegri, Moony! Cerca di esserlo almeno tu per me. E cerca di non
morire di nostalgia, ché per me si sta dimostrando molto difficile.
Ti amo, lupastro Pad |
|
Allegata alla lettera c’era una foto, con Sirius -uno
sguardo languido da farti stringere lo stomaco, ma che allo stesso tempo sembrava
bruciare la pellicola- che salutava in camera e James sullo sfondo che
discuteva animatamente con Lily.
Ted continuò a far scorrere lo sguardo a vuoto sulla
lettera. Era… come dire, bizzarro? Inaspettato? Fottutamente sconvolgente,
vederti sbattuto in faccia l’amore omosessuale di tuo padre che non hai mai
conosciuto e che credevi felice con la tua giovane ed amorevole madre?
Non registrò completamente i ritagli di giornale che gli
passarono sotto gli occhi, il necrologio di una coppia e un articolo di cronaca
nera che parlava di una strage di Babbani, entrambi ingialliti e macchiati come
se qualcuno ci avesse pianto sopra, né notò i soggetti abbracciati della foto
strappata e poi malamente riattaccata con lo scotch
magico che seguiva.
Non notò la foto di Black, quarantenne, emaciato, nudo,
che dormiva rannicchiato su un letto matrimoniale dalle lenzuola sfatte, in
quella che sembrava la stanza di un’antica casa vittoriana. Men che meno fece
caso alla manciata di bigliettini, alcuni scribacchiati in fretta in una
calligrafia piccola e nervosa e altri in una molto più
precisa e tondeggiante, bigliettini di quelli che le famiglie normali appendono
al frigo per un saluto o promemoria, che era caduta a terra mentre si era
lasciato scivolare di mano tutte quelle vecchie scartoffie.
No, non notò nulla. Restò semplicemente a fissare il muro
spoglio davanti ai suoi occhi, a cercare di districare la matassa di emozioni
che gli stavano stringendo un groppo in gola, o a cercare di non guardare, no,
mai più, i fogliacci sparpagliati ai suoi piedi che sembravano ridere di lui. Restò
a fissare il muro spoglio finché il celeste dell’intonaco non divenne di un
violento porpora e lui si accorse del tramonto morente, fuori dalla finestra,
oltre il bosco.
Si alzò spazzolandosi i pantaloni in gesti automatici, e
gli cadde l’occhio sullo sgualcito quaderno nero che aveva contenuto per tanto
tempo tutti quei ricordi, indisturbato. A guardarlo bene, lo riconosceva: non
era forse quello su cui stava lavorando suo padre in una delle foto dell’album
che aveva trovato? Non voleva aprirlo. Non aveva alcuna intenzione di aprirlo,
leggerlo o sbirciarci dentro; l’unica cosa che riusciva a fare era fissarlo con
uno sguardo carico di rabbia che non riusciva però a celare del tutto la paura.
Lo calciò contro il muro, con uno scatto improvviso, poi tornò calmo, immobile
nella luce scarlatta. E dalle scale giunse attutita una voce.
« Teddy? Teddy, tutto bene? »
Si riscosse ricordandosi di non essere solo in quella
casa, e di aver passato probabilmente tantissimo tempo in quella stanzetta
opprimente facendo aspettare la sua ragazza. Si guardò intorno, e nonostante i
buoni propositi tornò a fissare lettere e fotografie sparse fra la polvere. Rimase
altri cinque minuti buoni in vacua contemplazione, poi raccolse in fretta tutti i fogli e il quaderno scagliato lontano,
sistemandoli alla meno peggio e nascondendoli sotto il largo maglione che
portava.
E finalmente, uscì dalla sua camera per imboccare le
scale.
*
Dopo un paio di settimane, Ted Lupin si trovava seduto
sotto una quercia in riva al lago di Hogwarts, in apparenza intento a scrutare
le acque torbide, magari in cerca della famigerata piovra gigante. Quel mattino
aveva preso l’Espresso per Hogwarts come molte altre volte, nonostante avesse
finito gli studi già da due anni. Si era recato al Binario 9
¾, aveva salutato calorosamente Victoire ed era riuscito anche a scambiare un
saluto veloce anche con lo zio Harry e i cuginetti, per poi andare ad
appisolarsi in una delle carrozze di testa, relativamente più calme delle
altre.
E ora si stava stiracchiando, mentre il sole scompariva
pigramente oltre le montagne, si era alzato e si stava dirigendo verso un
angolo riparato di prato al limitare della Foresta Proibita, non lontano dal
Platano Picchiatore.
Camminò con calma tra le varie lapidi, adocchiando qua o
là nomi conosciuti come Weasley o Piton, e infine giunse alle tombe in
fondo all’appezzamento di terra, due semplici steli gemelle in liscia pietra
bianca. Ninphadora C. Tonks & Remus
J. Lupin.
Si mise le mani in tasca, pensieroso, mentre -di nuovo- il
sole tingeva di rosso il castello e il parco sottostante, e un raggio sanguigno
cadeva sopra la lapide di Remus J. Lupin.
« Beh papà… credo che questo sia tuo. »
Estrasse da una tasca interna del cappotto un quaderno
nero, vecchio e voluminoso, e lo depositò lentamente davanti alla pietra
tombale. Posò una mano sul bordo della lapide, titubante, come sul punto di
domandare qualcosa.
Ma a chi, poi?
Non fece nessuna domanda, non disse nulla. Semplicemente,
voltò le spalle alle due tombe e se ne andò, in silenzio, inghiottito dalla
notte e dalla pallida luce della luna piena che si stava alzando placida sopra
il castello.
---
Guh.
Allora, piaciuta? *grin*
Mi stupisce molto che nessuno abbia ancora scritto nulla
post-DH su Remus e Sirius - amici shippers, non vi sarete mica arresi al canon?!
Questa fic è stata un discreto parto, e non sono così
soddisfatta del risultato finale. Considerando che ci sono volute due dannatissime settimane di
doglie per scrivere ’ste sei paginette in Word, la cosa migliore da fare
sarebbe tirarmi una martellata su una mano - tanto per gradire.
Quasi dimenticavo, la citazione iniziale appartiene alla
canzone Cubicles dei My Chemical
Romance (sentitela! è.é), pertanto non è mia. u_u
Will