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Autore: literatureonhowtolose    30/01/2013    5 recensioni
{Kid!Lock}
La notte di Natale. Due bambini estremamente soli, che cercano da tanto qualcuno con cui condividere il tempo. Un magico incontro che cambierà, probabilmente, le loro esistenze e il loro modo di vedere le cose. Dei veri regali di Natale, con la R maiuscola.
«E’ stato un piacere conoscerti, Sherlock Holmes.» gli disse.
«Anche per me, John Watson. Dico davvero.» rispose Sherlock, sincero.
Genere: Generale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Enchanted to meet you.
Era la notte di Natale. E durante la notte di Natale, non c’è bambino con la capacità di resistere alla tentazione di provare a stare sveglio in attesa dell’omone con la barba bianca che porta doni a chiunque lo meriti.
Nemmeno Sherlock Holmes riuscì, suo malgrado, nell’intento, anche se sicuramente non l’avrebbe mai ammesso. Non era come gli altri, lui, in nessun caso. Non voleva essere come gli altri. Assolutamente no. 
Se ne stava sdraiato sul suo letto a pancia in su e fissava il soffitto liscio e spoglio, di un pallido color crema, ma ciò non gli conciliava minimamente il sonno; i suoi occhi di ghiaccio presero allora a viaggiare per la stanza, studiandone ogni più minuto particolare per l’ennesima volta e scoprendosi stufi dello scenario. Quando piombarono sul violino in legno chiaro che il bambino usava spesso come affronto alla noia, un pensiero si impadronì del suo piccolo, geniale cervello: doveva uscire da quella prigione di monotonia, e doveva farlo in fretta.
Balzò giù dal letto e corse alla finestra, aprendola; tornò poi indietro, verso l’entrata della stanza, raccattò lo strumento musicale e corse a inerpicarsi sul davanzale con l’intenzione d’uscire dall’altro lato. Non fu una cosa semplice, col violino fra le mani, ma per fortuna la sua camera era al pianterreno e perciò non dovette fare particolari salti né acrobazie di alcun genere; inoltre non era certo la prima volta che lo faceva: Sherlock usava, se possibile, più la propria finestra che la porta di casa, quando desiderava uscire, poiché la maggior parte delle volte non voleva che la propria famiglia sapesse che stava andando da qualche parte.
Mentre con una mano teneva il manico del violino e con l’altra il suo archetto, tentò di stringere il nodo che teneva chiusa la sua vestaglia e che si stava allentando come al solito, e si guardò le ciabatte, promettendo a se stesso che non sarebbe andato a inoltrarsi in qualche posto dove avrebbe potuto sporcarle irrimediabilmente. Dopodiché si incamminò, senza avere in mente una meta precisa, semplicemente osservando il paesaggio intorno alla sua persona e aspettando di trovare un posto “giusto” per suonare qualcosa. E, per la cronaca, non era certo di sapere esattamente cosa intendesse con la parola “giusto”; però, quando vide un alberello leggermente ricurvo e non troppo alto piazzato in mezzo a un prato senza nulla a fargli da contorno, quasi fosse stato messo lì a caso, decise che quel ritaglio di mondo si avvicinava abbastanza alle sue aspettative. Vi si avvicinò e appoggiò la schiena al tronco, cominciando a suonare un motivetto che aveva imparato qualche giorno prima soltanto.
Il fatto è che quell’albero gli ricordava se stesso. Era un bambino di undici anni, eppure si rendeva già conto di quanto fosse solo, e anche triste, a volte. Non aveva amici in grado di stargli accanto proprio come quella pianta non aveva cespugli, frutti o altri alberi a fargli compagnia. E non riusciva a capirne il motivo.
Una casetta non troppo grande e dai muri bianchi e candidi si affacciava sulla strada che stava davanti a quello spoglio prato; al suo interno, un’intera famiglia dormiva tranquilla. O quasi. In effetti, mancava un membro all’appello, e il suo nome era John Hamish Watson.
Stava giocando con alcuni soldatini sul davanzale della finestra della sua camera, e ogni tanto un curioso occhietto color nocciola guardava aldilà del vetro per cercare di cogliere un’eventuale slitta trainata da renne volanti. Fino a quel momento non aveva avvistato nulla di insolito, però, e le palpebre stavano iniziando a cedere. 
Poi, finalmente, notò qualcosa. Non era Babbo Natale ciò che il suo sguardo catturò, ma trovò che fosse comunque qualcosa di molto insolito, e aggrottò le sopracciglia. Un ragazzino in vestaglia che suonava uno strumento di piccole dimensioni appoggiato a un albero; precisamente l’Albero, quello di John, quello contro cui la sua schiena si accostava ogni qualvolta lui decideva che aveva voglia di leggere un libro e che non intendeva farlo da solo. Quello a cui scandiva ad alta voce ogni parola scritta nelle pagine che sfogliava velocemente, quello a cui raccontava ripetutamente le sue storie preferite perché gli sembrava uno spreco tenerle per sé. Il suo amico. L’amico di John. Che ora sembrava aver trovato un’altra persona con cui passare il tempo. 
Assottigliò gli occhi, per cercare di capire cosa avesse fra le mani il bambino, e arrivò alla conclusione che doveva essere un violino o qualcosa di molto simile. Allora cercò di tendere l’orecchio il più possibile, al fine di cogliere anche solo una sommessa melodia, un basso fruscio, ma nulla: la casa era troppo lontana dal praticello, e lo spesso vetro della finestra impediva ai rumori di penetrare nella sua stanza.
Così, respirò profondamente e prese una decisione; corse verso il suo armadio, lo aprì e scelse la giacca più pesante che riuscì a trovare. Mentre l’indossava arrivò al letto e tirò via il piumone da sopra ad esso, poi lo piegò alla bell’è meglio e, cercando di essere silenzioso e delicato, uscì dalla sua stanza per andare verso la porta d’entrata. Ogni angolo dell’abitazione era buio e John non riusciva a vedere a un palmo dal suo naso, per questo rischiò di combinare non pochi disastri, ma la fortuna volle che arrivasse a destinazione senza aver tirato giù la casa intera, aver svegliato i suoi, essersi fatto male o essere morto dalla paura; il buio non gli piaceva. Fece attenzione a girare con estrema lentezza la maniglia della porta per evitare che facesse troppo rumore e ringraziò il cielo quando finalmente si ritrovo sulla soglia con la consapevolezza di non essere stato scoperto.
Attraversò la strada con passo svelto, guardandosi bene intorno anche se sicuramente non sarebbe spuntata alcuna macchina, vista l’ora tarda. Intanto, iniziava a udire un motivetto che gli sembrò allegro, e che dimostrò che la sua teoria che sosteneva che lo strumento usato dal bambino misterioso fosse un violino era ben fondata. 
Quando fu abbastanza vicino all’albero e al ragazzino in vestaglia si fermò, con la coperta stretta fra le braccia. Lo osservò a lungo, mentre l’altro continuava imperterrito a suonare. Aveva i capelli color dell’ebano, che verso le punte tendevano ad arricciarsi dolcemente; gli occhi erano grandi e d’un azzurro molto intenso, e benché non stessero puntando a nulla in particolare sembravano costantemente attenti, quasi come se, al posto di guardare semplicemente, studiassero.
Forse era un poco più piccolo di John, ma lui non avrebbe saputo dirlo con certezza.
Dopo qualche minuto, il biondino concluse che l’altro non si era accorto della sua presenza, o che, cosa più probabile, non voleva far notare all’altro di averlo fatto, e così si schiarì la gola e parlò con voce malferma.
«Non hai freddo?» domandò.
L’archetto smise di muoversi sulle corde del violino, e il moro fermò ogni suo movimento in un unico brusco scatto. Dopodiché, volse lentamente il viso verso John.
«L’hai portato per me, vero?» chiese a sua volta, indicando con lo sguardo il piumone.
Sulle prime John fu turbato da quell’assenza di risposta: i suoi genitori gli avevano insegnato che non bisogna mai porre una domanda se prima qualcuno ne ha posta una a te. Però decise di lasciar perdere.
«Sì. Ti ho visto dalla mia finestra, e ho pensato che il tuo fosse un abbigliamento insolito per una notte d’inverno.» ammise.
«Lo so.»
A quel punto, il biondino alzò un sopracciglio.
«Cosa significa che “lo sai”?»
«Ho notato che mi stavi guardando. Tu riuscivi a vedere me, ma anche io riuscivo a vedere te. Posso prenderla?» 
«Come ti chiami?» chiese John, decidendo in quel momento che la regola sui quesiti non aveva particolare importanza. Comunque, gli tese la coperta.
«Sherlock. Sherlock Holmes.» affermò il moro, afferrandola e coprendosi in fretta.
«Piacere di conoscerti, Sherlock Holmes. Io sono John Watson.»
Dicendo questo si accasciò a terra, poggiando la schiena contro il suo albero e accarezzandone la corteccia.
«Come mai sei qui a quest’ora?» aggiunse poi.
«Potrei chiederti la stessa cosa.» commentò Sherlock.
«Intendevo dire che…» non lo sapeva, cosa intendeva dire. «Non ti ho mai visto da queste parti.» osservò, abbandonando il precedente discorso.
«Non esco molto.» spiegò il moretto, sedendosi a sua volta; mentiva, lui usciva spesso. Solo che solitamente erano nascondigli, quelli in cui andava. Angoli di mondo suoi e suoi soltanto.
«Capisco.» mormorò John, sfregandosi le mani sulle braccia per riscaldarsi. «Suoni molto bene.» azzardò, anche se dubitava che la sua opinione sarebbe potuta interessare a Sherlock, visto lo scarso entusiasmo con il quale si stava rapportando con lui.
Sherlock assottigliò gli occhi e inclinò la testa di lato, osservando attentamente il volto dell’altro. Poi, mantenendo quell’espressione stranita, biascicò: «Grazie.»
Seguì un silenzio più o meno prolungato e anche relativamente pesante, ma questa volta non fu John a doverlo rompere.
«Tu vieni spesso qui? Sembri molto affezionato a quest’albero.»
Sherlock si era infatti accorto di come le carezze che il biondo gli dedicava fossero delicate e gentili.
John sorrise per un breve attimo, e poi annuì.
«Sì, quasi ogni giorno. Vengo qua a leggere, o semplicemente a riposare. O a parlargli.» poggiò la testa contro il tronco ruvido. «L’hanno piantato quando sono nato, è una cosa che mio papà mi ha ripetuto svariate volte. Per questo sento un legame fra noi due. Lui forse non può rispondermi, e… beh, in generale non può fare molto, ma è l’unico amico che ho.»
Gli sorrise, calmo, e Sherlock non poté fare a meno di ricambiare.
«Sei così strano, John Watson.» osservò poi, chiedendosi come facesse ad essere felice pur stando così le cose. Lui non aveva amici, ma era proprio per questo che non sorrideva spesso. A John sorridere veniva naturale.
«Non si può dire che tu non lo sia, Sherlock Holmes.» disse John. 
John quasi non poteva credere che qualcuno stesse parlando con lui, e che addirittura riuscisse a sorridergli. Non era mai stato molto popolare fra i bambini della sua età, per questo aveva sempre avuto bisogno del suo Albero, contro il quale ora poggiava la schiena uno strano ragazzino che pareva essere spuntato dal nulla.
All’improvviso, nella mente di John si insinuò una strana idea, che tuttavia non riuscì a evitare di elaborare: sembrava che Sherlock fosse una sorta di sostituto della pianta; come se lo spirito di essa fosse fuggito dalla sua gabbia, e si fosse andato a materializzare in lui. Al biondo piaceva credere che quel suo violino fossero un po’ come le foglie dell’Albero, che col vento erano solite frusciare, producendo rilassanti melodie.
Scosse la testa, abbandonando le sue fantasie, e prese una decisione.
«Ti va di andare a casa?» domandò.
«Intendi casa tua?»
«Sì, casa mia, non ti sto chiedendo di tornartene da dove sei venuto. Solo che fa freddo qua, ed è buio..»
«Hai paura del buio, John?»
Ancora, lo stava facendo ancora. Troppe domande e poche risposte.
«Credo sia normale, mamma e papà mi hanno detto che mi passerà.»
«Non devi avere paura del buio. Non può farti del male.» Sherlock si alzò, sistemandosi meglio la coperta sulle spalle.  «Andiamo a casa.» accordò, tendendogli la mano.
John sorrise, grato, e mentre annuiva accettò l’aiuto che gli veniva offerto, servendosene per alzarsi.
Attraversarono la strada deserta, e fecero molta attenzione ad entrare in casa senza far rumore; quando furono in camera di John, lui si tolse la giacca e Sherlock posò il piumone sul letto.
«Allora, si può sapere come mai eri là fuori a suonare, a quest’ora e con questo freddo?» chiese il ragazzino dagli occhi nocciola, andando a sedersi sul davanzale della finestra, lasciando le gambe a penzoloni.
«Ero lì fuori a suonare perché a suonare in casa mi avrebbero sentito e mi avrebbero fatto smettere, ovviamente. Suono sempre quando sono annoiato, e sono uscito senza pensare ad altro se non a questo, perciò ho scordato che siamo in inverno.» spiegò il moro, tastando il morbido materasso del letto di John per poi sedercisi.
«Ma a quest’ora dovresti essere a letto, non a pensare al modo migliore per evitare la noia.»
Si accorse troppo tardi di ciò che implicava la sua frase, e si sbatté una mano sulla fronte. Infatti, la risposta pronta e logica di Sherlock arrivò un secondo e mezzo dopo.
«Potrei dirti la stessa cosa.» sentenziò. «Ma scommetto di sapere perché sei sveglio.»
A John si illuminarono gli occhi al pensiero che fra loro stesse iniziando una sorta di giocosa conversazione, e non si lasciò scappare l’occasione.
«Va bene, allora giochiamo a indovinare. Adoro gli indovinelli!» 
Sherlock inarcò un sopracciglio per via dell’improvvisa ondata di entusiasmo dell’altro.
«Come mai, in questo momento, non sono a letto a dormire?» chiese quindi John.
«Semplice. Speravi di vedere Babbo Natale.» rispose seccamente Sherlock.
«Va bene, lo ammetto, hai indovinato. Ora chiedimi qualcosa su di te.»
Le iridi ghiacciate del bambino in vestaglia fissarono a lunga il viso dell’altro, prima di decidere se stare al gioco oppure no.
«Come ho imparato a suonare il violino?» chiese poi, decidendo che non sarebbe successo nulla se avesse assecondato l’altro per un po’.
«Penso che tu l’abbia appreso da solo, non so quanto resisteresti a una lezione convenzionale.» ipotizzò John.
Sherlock aggrottò le sopracciglia, infastidito. 
«Sarei sicuramente in grado di resisterci.» assicurò, contrario al fatto che qualcuno stesse mettendo in dubbio le sue capacità. «Però forse non lo farei volentieri, ecco. In ogni caso ho imparato da solo, hai ragione.» 
John emise un risolino divertito vedendo la reazione di Sherlock, e fu entusiasta di aver indovinato.
«Bene, andiamo avanti. Che cosa ho chiesto a Babbo Natale?»
Sherlock pensò a lungo, mentre con gli occhi studiava la cameretta di John centimetro per centimetro cercando di capire quali fossero i suoi gusti, ma non riuscì a concludere in maniera soddisfacente e così si rassegnò e andò sul classico.
«Un nuovo giocattolo? Tipo, non so… un trenino elettrico? O dei nuovi soldatini?»
John scosse la testa.
«Niente di tutto questo, zero punti. Tocca a te.»
«Io che cosa gli ho chiesto, invece?»
Si guardarono per un lungo attimo, John stava cercando in lui qualche indizio ma non era facile dedurre una cosa del genere con così pochi elementi. In più, John non era tanto bravo a indovinare, ed era proprio quello che lo divertiva del gioco: se veramente non sai la risposta a qualcosa, quando poi la scopri, in un modo o nell’altro, ti senti molto soddisfatto.
«Potresti aver chiesto… degli spartiti per imparare a suonare nuove melodie?»
«Sbagliato. Continuiamo.» 
John batté le mani, e Sherlock raccolse le gambe sul letto, incrociandole e assumendo un’espressione concentrata. In fondo doveva ammettere che quel gioco era molto divertente, soprattutto considerato che finalmente non era costretto a giocarci da solo.
_____
 
Quando il cielo stava iniziando a schiarirsi e ormai mancava poco all’alba, nonostante la grande forza di volontà le palpebre di entrambi stavano iniziando a essere veramente pesanti. Avevano continuato a farsi domande per tutto il tempo, interrompendosi solo qualche volta per approfondire un discorso portato alla luce da una particolare risposta, e avevano scoperto talmente tante cose su loro e le loro vite che stentavano a ricordarle tutte. 
John sbadigliò, e Sherlock si stropicciò gli occhi.
«Forse è ora che io torni a casa.» mormorò stancamente.
Non l’avrebbe mai ammesso, come per la storia di Babbo Natale, ma non aveva per niente voglia di andarsene. 
«Sì, hai ragione. Prendi la coperta, così non soffrirai il freddo. Tanto non mi serve.» propose John.
Sherlock annuì, se la avvolse attorno al corpo e si avviò verso la finestra. Fece scendere John dal davanzale, assicurandogli che sapeva quel che stava facendo, e il biondino si fidò.
Un attimo prima di uscire, si girò a guardare un’ultima volta John, facendogli un cenno con la testa, in segno di saluto.
Non aveva mai vissuto una cosa del genere, con nessuno; aveva vagato in lungo e in largo in cerca di posti nuovi e disabitati dove cercare una qualsiasi forma di divertimento o di semplice intrattenimento, ma non aveva davvero mai pensato che forse una persona era tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno. Una persona con cui stare, una persona con cui, semplicemente, parlare.
«Un amico.» disse John.
«Come, scusa?» domandò Sherlock, confuso.
«Era questo ciò che avevo chiesto a Babbo Natale.»
Rimasero in silenzio per un po’, tutti e due riflettendo su quelle parole. Poi, Sherlock parlò.
«E com’è andata, pensi di aver ricevuto il tuo regalo?»
«Senz’altro.» assicurò, con voce ferma, John. «Tu, che cos’avevi chiesto?»
«Un’avventura.»
Di nuovo il silenzio s’impadronì dell’aria circostante, ma questa volta durò di meno, perché tutto quanto era già loro famigliare.
«Sei soddisfatto?»
«Assolutamente.»
Si salutarono a vicenda con la mano, e Sherlock balzò giù dalla finestra senza la minima difficoltà.
«Comunque sia, sono contento che tutti e due siamo riusciti a vedere Babbo Natale.» disse Sherlock, alludendo al fatto che i due si fossero, di fatto, consegnati i regali più belli l’un l’altro, facendosi così da Babbi Natali.
John rise.
«Già, abbiamo avuto entrambi due regali al prezzo di uno! E’ stato un piacere conoscerti, Sherlock Holmes.» gli disse.
«Anche per me, John Watson. Dico davvero.» rispose Sherlock, sincero.
John spalancò gli occhi e arrossì leggermente, in una maniera che fece sorridere l’altro bambino per la seconda volta da quando si erano incontrati.
«Ci vediamo.» lo salutò quindi il biondo.
«Certo. Ti riporterò presto la coperta.»
 
This is me praying that this was the very first page,
not where the story line ends.
My thoughts will echo your name until I see you again.
These are the words I held back as I was leaving too soon:
I was enchanted to meet you too.
 
Angolo del finalmentescrivoqualcosaèdanovembrecheciprovo.
Buon pomeriggio, mondo. Prima di tutto, vorrei dire che questo è il mio "debutto" nel fandom, perché sebbene io ne faccia parte da duemila anni e tre quarti(...) non ero mai riuscita a scriverci qualcosa sopra perché sono una ciabatta. Niente quindi è il mio debutto -spara coriandoli-. In ogni caso.
Sono felice di pubblicare qualcosa, finalmente, perché la scuola mi sta impedendo di vivere ultimamente, e scrivere nuovamente, anche non sono proprio al massimo, mi ha fatta nyannare all'infinito. L'idea per tutto ciò mi è venuta da un video che vi inviterei a guardare, questo. E appunto, vi inviterei a guardarlo perché niente è la cosa più figa del mondo. La fanfic non è uscita proprio come me l'aspettavo, non è niente di particolare, sul serio, ma è uscita così e non poteva essere altrimenti evidentemente. Poi, la canzone, per quanta poca ce ne sia, è Enchanted di Owl City. Ascoltatela perché è veramente bellerrima.
Ultime cose. Ho messo "nessuna coppia" perché sì, sono una fan sfegatata della Johnlock e li intendo, sicuramente, come coppia, però erano piccoli e si erano appena conosciuti, perciò non ci sono veri e propri elementi slash.
Dedico questa storia alla mia amica Elisa perché oggi compie diciannove anni e io le voglio un bene dell'anima e siccome siamo lontane è l'unico modo in cui posso "farle un regalo" ;//w//;
E niente, la smetto di blaterare. Spero solo che vi sia piaciuta, e spero di aver contribuito alla meravigliosa raccolta che già c'è su di loro, che sono veramente perfetti. A presto!
  
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