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Autore: Katekat    30/01/2013    3 recensioni
Sirius è solo, intrappolato nella casa che odia. E' una lunga notte invernale, vissuta tra presente e passato. Gli ritornano in mente l'ultimo incontro con suo fratello e le circostanze in cui ha appreso della sua morte.
Ricordare è la punizione per la sua colpa: non aver salvato Regulus.
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Regulus Black, Sirius Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, II guerra magica/Libri 5-7
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Black heart never forgets



La sola funzione della memoria è di aiutarci a rimpiangere
Emil Cioran





Dicembre 1995
Grimmauld Place nr 12






Lo scroscio della pioggia nel grembo della notte assorda.
Il respiro glaciale dell'inverno si è rappreso sui vetri in una condensa lattiginosa.
Sirius alza il pugno e lo sfrega contro il vetro, smorzandone lo stridio di protesta con lo spesso guanto di lana.
Uno scivolo di limpido cielo notturno cola sullo schermo opalescente della finestra ghiacciata.
Le pupille dell'uomo si accostano ansiose a quell'insperato squarcio di mondo.
Il riverbero fumoso dei lampioni in strada scivola attraverso il vetro sulle ossa del suo volto, scolpendone gli zigomi, spigolosi come ali di gabbiano in volo. Ombre indugiano negli anfratti di quella maschera immobile; nere pennellate si allungano sul sottile labbro superiore e nell'incavo delle guance smorte.
Un lungo sospiro si gonfia nel petto scarno – s'impiglia rauco in gola e fugge infine in un sibilo tra i denti serrati.
Lo sfarfallio d'attesa nei suoi occhi si oscura dell'ennesima frustrazione: il mondo là fuori è una prigione solo un po’ più grande della casa che lo segrega – infinitamente più piccola di quella della sua memoria.
Dà le spalle ai ricordi, ma quelli sono ovunque.
Lo attendono appena aldilà del pallore nebbioso del vetro, nella vista dell'odiosa piazzetta quadrata, ingombra di case su tre dei quattro lati; appena un passo oltre le fragili difese della sua mente, nel riflesso impietrito dei propri occhi vivi, eppure anticamente morti.
La memoria è una maledizione e una malattia.
Ovunque si volti, essa è pronta a riprendere una caccia spietata. Soprattutto al buio s’intensifica quella crudele persecuzione.
Ma Sirius ha bisogno del buio per placare il bruciore liquido sotto le palpebre scottanti.
Tutto al buio gli riesce più facile. E’ ormai diventata la sua dimensione naturale.
Per così tanti anni è stato una particella febbricitante, pulsante di vita, nell'orrido tenebroso racchiuso dalle immense braccia rocciose di Azkaban, e il battito del suo cuore, lento e disperato, ha scandito, insieme a quello di tanti altri, la marcia inesorabile con cui si avvicina la Morte. Ma essa era più dolce dei fantasmi proiettati da un informe terrore… La Signora Nera scivolava con piedi di seta nel buio – appena un formicolio sulla pelle, l'arricciarsi di un brivido freddo sulla nuca… Il flessibile corpo, fatto d'ombra e d'aria, s'insinuava tra le sbarre e veniva a deporre un bacio silenzioso, indolore, sui farfuglii senza senso.
La Morte veniva a prenderseli, uno per uno, e poi tornava a sgusciare fuori dalle celle, lasciandosi dietro sorrisi ebeti di occhi immoti, cristallizzati nell'eternità senza memoria.
Ora la luce gli causa un dolore quasi fisico. Ogni raggio una stilettata nei suoi occhi: ferisce, scopre, denuda, viola. Smuove gli spettri sul fondo torbido dei suoi pensieri.
Per questo, nessuna luce è mai accesa in Grimmauld Place nr 12.
Al buio tutto è più facile.
Il buio mantiene i segreti.

Sirius si muove per le stanze, silenzioso e in penombra.
Raramente ha bisogno di tendere le braccia a sfiorare le pareti consunte: esse affiorano vivide dal pozzo di ricordi della sua infanzia, uguali a come le ha lasciate una volta.
Sono tornate a stringerglisi addosso quelle pareti; a soffocarlo gli alti soffitti scrostati; a ipnotizzarlo l'ondeggiare violento, a una folata di vento, dei lampadari barocchi.
Il tintinnio delle teste dei cristalli, che urtano l'uno contro l'altro, risuona come una risata melliflua:
«Sirius, Sirius. Sei di nuovo qui, sei di nuovo qui» sembrano cantilenare, prendendosi gioco della sua furia sofferente.

La figura emaciata si staglia livida contro l'opacità della finestra.
Il passato affiora silenzioso tutt'intorno a lui, come occhi nascosti in bui cespugli, serpeggiando con sguardo sottile lungo la schiena irrigidita e le spalle cascanti.
Sirius sente il sussurro diabolico della casa, malignamente eccitata dall'averlo di nuovo lì.
Nulla è paragonabile al tormento che lo attanaglia dentro per essere finito ancora una volta nel grembo delle sue più oscure paure infantili. Dopo aver lottato senza tregua per lasciarla, ora si trova ancora in quella casa, assediato dal cipiglio pretenzioso dei pesanti mobili di legno pregiato, dalla sontuosità scolorita dei tappeti, che sbuffano nuvolette asfissianti di polvere quando calpestati – persino dalle venature d'oro sbrecciato che ancora rilucono, qua e là, dai parati, quando sfiorate da una ditata di chiarore lunare.
Niente è stato toccato da quando si è trasferito lì.
Ragnatele ballerine ondeggiano negli angoli agli spifferi invisibili che s'insinuano ovunque, da buchi nascosti, da aperture fuggenti; i tarli perseverano nel loro incessante rosicare le viscere di vecchie credenze; di tanto, in tanto lo scricchiare legnoso del ventre delle poltrone polverose tradisce il fugace passatempo di qualche grosso ratto affamato.
Da quando è giunto lì, i roditori gli hanno dichiarato recisamente battaglia, decisi a mantenere i privilegi che hanno loro consegnato lunghi anni di solitudine e abbandono.
Strisciano da sotto armadi e scaffali, accompagnati da scricchiolii lamentosi del legno sofferente; si scavano, sfrontati, la tana nel velluto muffo dei divani, costellandoli di morsi affrettati; le lunghe code filiformi s'inseguono tra i piedi del massiccio tavolo in cucina; se la battono infine negli angoli ombrosi, inseguiti da sporadiche lingue di candele morenti – e sempre tornano a ripresentarsi.
Ma ogni loro provocazione è caduta nel vuoto. Insospettatamente, lo strano inquilino sembra non aver alcuna intenzione di rivendicare i propri diritti di padrone di casa; anzi, si muove in essa come un intruso lui stesso, e non ha tentato alcuno scherzetto per sbarazzarsi dei sorci.
E così essi spadroneggiano nella vecchia dimora del Gramo.
Sirius non è meno irrispettoso di loro, di quelli che ha ormai sarcasticamente ribattezzato "i miei piccoli amici squittenti": affonda con gli stivali fangosi nei divani di famiglia, scacciando prima eventuali ospiti importuni, e si lascia avvolgere da una soffocante nuvola di polvere e stantio. Reclina la testa irsuta sulla spalla e fa scivolare lo sguardo vuoto e apatico davanti a sé, sforzandosi d'indovinare le forme acquattate nella penombra. Gli risulta piuttosto facile: i suoi occhi trafiggono il buio meglio di quelli di un gatto; riescono perfino a seguire le infinite peripezie sorcine dentro e fuori dalla stanza.
Si chiede, vagamente, come facciano i topi a sopportare la reclusione in quell'orrida, trista dimora.
Si dice che, se potesse, farebbe cambio in ogni momento con la pelle sudicia di quelle creature e infilerebbe di corsa il primo buco che porti all'esterno per non tornare mai più nei paraggi di Grimmauld Place nr. 12.
Chissà, forse le spoglie dimesse di un topo sarebbero sufficientemente sicure per camuffarlo agli occhi inquisitori dei Mangiamorte, come furbescamente ha intuito Peter anni prima.
Ma, ecco... quando quei due nomi – "Mangiamorte" e "Peter" – saltano fuori dalla trappola a scatto dei suoi pensieri, le labbra pallide si tendono in una linea amara e gli occhi si velano, inghiottiti da un gorgo di fantasticherie tormentose.
Le palpebre si adombrano, incalzate da ondate di furia gelida e oscuri propositi di vendetta.
Spazzati via dopo un niente, perché quasi sempre, a completare la funesta trinità di tetri pensieri, ci si mette l'ultimo, il più terribile di tutti, il più inconfessato, il più doloroso, il più incancellabile, addirittura più opprimente del ricordo di Azkaban – quasi altrettanto infelice. Regulus.



*

Dicembre 1979
Godric’s Hollow
Casa dei Potter




Nel dicembre del 1979 – un dicembre particolarmente freddo, anche per le medie stagionali – Sirius Black è un diciannovenne alto e pallido, dai capelli neri portati troppo lunghi, la sciatta eleganza che contraddistingue ogni suo gesto. La sua non è una bellezza  premeditata: come solo la vera bellezza, è frutto del caso. Spontanea.
Sprizza dalla sua figura e lo riempie come fa la luce del sole con un bicchiere colmo d'acqua, facendolo risplendere, brillando attraverso di esso.
Sirius è bello e cupo.
Dietro la risata candida, gutturale, che somiglia al latrato di un cane, dietro il luccichio malizioso degli occhi affilati, dietro le pose spavalde e scomposte che pur tuttavia mai perdono la loro innata attitudine "aristocratica" (Sirius riesce ad avere classe anche con la bocca piena di pasticcio di carne e purè di patate, o scaraventato in un fosso fangoso dal suo amico lupastro quando ha la luna storta), c'è qualcosa. Qualcosa che si porta dietro da sempre e che mai lo abbandonerà.
C'è il buio.
Basta che sia solo, che i suoi amici si allontanino, che sia distante dagli occhi e dalle orecchie di chicchessia, perchè la luce che irradia si spenga, sopraffatta dall'oscurità che, a partire dal suo nome, si sprigiona su tutta la sua persona, avvolgendolo.
Sirius, dentro, è nero. Nero come il suo nome, i suoi occhi, i suoi capelli.
Ma non è malvagio.
Lui forse è stato l'unico della sua famiglia a scampare alla tentazione – e al destino – del Male.
Perchè, anche se di cognome fa Black, il suo è il nome della stella più brillante del cielo – ergo tutta quella luce non può essere semplicemente inghiottita; è più forte del buio che lo trascina, cercando di farlo suo.
Sono ormai due anni che ha abbandonato la sua casa.
Ormai si rifiuta perfino di chiamarla così.
Ora la sua casa è un'altra, quella che lo ha accolto e ospitato come un figlio perduto da tanti anni e miracolosamente ritrovato.
Scherzosamente, Charlus Potter lo definisce "il figliol prodigo". Ma gli occhi gli brillano quando lo dice, e la sua manona assesta una pacca poderosa sulla spalla di Sirius che risponde a sua volta col suo sorriso sornione, sollevando solo un angolo della bocca.
Quest’anno si sono appena diplomati e hanno lasciato Hogwarts per sempre, entrando a far parte dell’Ordine della Fenice. Sono combattenti, ora, arruolati in prima fila per opporsi all'ascesa di Lord Voldemort e all’imperversare dei suoi seguaci.
Tra quei seguaci, nascosto sotto un cappuccio e un mantello neri, ci potrebbe essere Regulus.
Sirius ci pensa ogni volta che combatte un Mangiamorte a viso coperto, ogni volta che sente di qualcuno che ha ucciso o fatto prigioniero un Mangiamorte. Il cuore gli salta sempre un battito, anche quando si tratta di un accenno di volata su qualche pagina del Profeta: non riesce a sbarazzarsi da quel fastidio sottile, come un prurito sottopelle, tra i capelli, al pensiero che si possa trattare di suo fratello; non ha pace finchè non si accerta dell'identità dell'uomo mascherato.
Accade ogni volta: l'ansia, la fretta, l'urgenza di sapere, quasi ossessiva – e poi la scoperta, il sollievo, lo sgonfiarsi pian piano della bolla di angoscia. Che poi riprende a dilatarsi ad ogni nuovo duello, ad ogni nuova battaglia di quella guerra senza fine.
Sirius sa – sente – che prima o poi si incontreranno. E scontreranno.
E che non farà nessunissima differenza che siano fratelli o meno, che portino o meno lo stesso cognome. Con Bellatrix, ad esempio, non ha mai fatto differenza.
Ma Regulus? Davvero non significa niente per lui? Davvero sarebbe pronto a ucciderlo a sangue freddo, senza tremare, come se si trattasse di un cane qualsiasi, di un nemico come tanti altri? E anche se fosse in pericolo la sua vita, davvero oserebbe alzare la mano su suo fratello?
Ma la scelta non è granché: c'è Regulus da una parte, il Mangiamorte, e dall'altra un mucchio di persone cui vuole bene – James, prima di tutto, e Lily, Remus, Peter, Marlene... Un sacco di gente. Gente che gli è stata accanto nel bene e nel male, con cui condividerebbe tutto, cui si affiderebbe ad occhi chiusi, senza esitazioni.
Si è creato una nuova vita con queste persone, lontano dall'egida soffocante e cupa della sua famiglia. Lontano da Reg.
Non sono mai stati uniti.
Eppure, da piccoli, c'è stato un tempo in cui...




E’ il giorno di Natale quando vengono a portargli la notizia.
Lui, James, Lily, Remus e Peter sono tutti riuniti a casa dei Potter.

Sirius ricorderà per sempre l'abete verde scuro che troneggia maestoso e immobile in un angolo, dispiegando sui rami sfere di cristallo trasparenti nelle quali danzano luci fatate. Ghiaccioli traslucidi pendono dagli aghi, e una spolverata di neve li imbianca. Un abete vero, non uno di quei finti giocattolini sintetici e spennati che addobbano le case Babbane.
Se ne sono occupati personalmente lui e Remus: hanno chiesto il permesso a Silente e, accompagnati da Hagrid, sono andati nella Foresta Proibita a procurarsene uno.
Hanno deciso, di comune accordo, che è meglio lasciare un po’ da soli i due piccioncini: d'altronde, James e Lily meritano di godersi i loro primi mesi di sposini lontano da preoccupazioni e fatiche – e, soprattutto, da terzi incomodi. 
Nel 1979 festeggiano dunque il Natale nella casa nuova dei Potter a Godric's Hollow.
Stanno per mettersi a tavola, davanti al tacchino fumante che fa lacrimare gli occhi dalla fame al solo vederlo, quando qualcuno suona al campanello.
James va ad aprire. I suoi capelli arruffati si riflettono sulla porta a vetri dell'ingresso.
Grande il suo stupore quando appaiono la barba bianca e i capelli bianchi di Albus Silente, in piedi sulle scale spazzate dalla neve. Solo il pesante mantello color amaranto e il cappello dello stesso colore gli consentono di distinguersi dalla coltre immacolata che lo circonda e che uniforma il paesaggio.
Non si sa come sia arrivato lì: non ci sono ombre sulla neve intorno, ne’ fiocchi sulla tesa del cappello o sulle spalle. I suoi abiti sono meravigliosamente asciutti, anche se la punta arcuata del lungo naso comincia ad arrossare, segno che il suo proprietario è piuttosto infreddolito, sotto il pesante tabarro.
«Professore!»
Il Preside si scusa per essere giunto senza preavviso, dice che è stata una cosa... ehm, improvvisa, ma che non può essere assolutamente rimandata.
James si affretta a fargli spazio nell'ingresso. C'è qualcosa, nella voce del Preside, di insolitamente grave.
Intuisce immediatamente che dev’essere successo qualche guaio. E il cuore gli si stringe, mentre di là viene il vociare dell'allegra comitiva, il tintinnio di piatti e bicchieri, le risate – e sopra tutto, la risata canina di Sirius.
Il battito gli si fa lento e torpido nel petto.
Chi sa perchè, ma non appena Silente varca la porta, e anche prima che pronunci qualsiasi parola, ha la nettissima sensazione che sia lì per Sirius. Tra tutti quanti, proprio lui.
Non James, nè Lily, nè Remus, nè Peter.
Sirius.
Quando entrano in sala da pranzo, Black si sta ancora sbellicando per qualcosa che evidentemente ha detto Lily. Lei tiene le mani sui fianchi, con un cipiglio che vorrebbe essere serio, ma un angolo della sua bocca si solleva suo malgrado. Non è possibile resistere alla risata contagiosa di Felpato, stravaccato sulla sedia come suo solito, dondolando sulle gambe posteriori.
Remus tiene lo sguardo fisso su di lui, le labbra curve in un sorriso pieno, gli occhi scintillanti, palesemente divertito dell’ilarità dell’amico.
Peter si volta quando James e Silente entrano.

«Sono mortificato di dovervi disturbare. Sono qui per parlare con Sirius» dice Silente con voce tranquilla.
Il sorriso si congela lentamente sul volto di Sirius. Tiene lo sguardo fisso sul Preside e non lo sposta, come se vedesse in anticipo, nella sua mente, cosa debba dirgli.
«Possiamo parlare in privato, per favore?»
«Certo, andate pure di là.» James scorta il Preside in salotto.
Sirius lo segue dopo un po’. Anche la sua andatura sembra essersi fatta d'un colpo cauta e rigida.
Silente si è accomodato sul divano, sollevando i lunghi lembi dell'ampia veste da Mago.
I suoi occhi si posano benevoli su Sirius, che sta ancora in piedi, le mani affondate nelle tasche.
«E’ meglio che ti siedi, Sirius...»
«Grazie, professore, preferisco stare in piedi, se non le dispiace.»
Il tono suona più brusco del voluto. C'è qualcosa, nella voce di Felpato, improvvisamente più roca, più aspra, come se grattasse contro le pareti della sua gola. Se la schiarisce; i suoi occhi neri tornano a guizzare sull'uomo seduto sul divano, che in tutto questo tempo non si è mosso né ha distolto lo sguardo da lui, sereno e imperturbabile come sempre.
«Allora? Di cosa voleva parlarmi, professore? Problemi al Quartier Generale?»
Mentre lo dice, simulando una voce leggera che non gli appartiene affatto, non ci crede nemmeno lui. Se Silente avesse voluto discutere di questioni inerenti l'Ordine, avrebbe potuto farlo benissimo davanti a James e tutti gli altri. Tutti fanno parte dell'Ordine, non è un segreto per nessuno.
No, evidentemente c'è sotto qualcosa che interessa lui e lui solo.
«Non c'è fretta, Sirius» lo blandisce l’anziano Mago, «beviamo prima qualcosa.»
Fa apparire, con un gesto rapido e sicuro, una bottiglia trasparente e un paio di bicchieri, nonostante lui stesso abbia rifiutato, appena un attimo prima, qualsiasi bevanda o cibo James abbia insistito per offrirgli. Bottiglia e bicchieri atterrano sul tavolino basso davanti al divano. Il tappo vola via a un cenno della bacchetta e la bottiglia si inclina da sola a mescere due generose dosi di idromele.
Uno dei due bicchieri si solleva con grazia e volteggia silenziosamente verso Sirius, ma lui non lo prende. «No, grazie.» Di fronte allo sguardo educato di Silente, si sente in dovere di aggiungere qualcosa, per far apparire meno scorbutico il suo rifiuto: «Non bevo... prima dei pasti.»
Mentre dice queste parole, un lampo sarcastico gli attraversa lo sguardo. Per un attimo un angolo della sua bocca si torce in su, ma subito dopo il suo volto torna ad annuvolarsi e gli occhi precipitano di nuovo in un'ombra cupa.
«Insisto.» La voce di Silente è gentile, ma Sirius ha come l'impressione che non accetterebbe un secondo rifiuto.
Stizzito, afferra il bicchiere sospeso davanti a sé, ma non lo porta alla bocca.
«Di cosa voleva parlarmi?» ripete, fissando l'anziano Mago.
Sente qualcosa muoversi su e giù nel suo petto, qualcosa che vuole essere liberata. Vuole che glielo dica e che la faccia finita, qualunque cosa sia.
Silente trae un lungo, profondo respiro che gli fa ondeggiare i baffi bianchi. I suoi occhialini a mezzaluna sembrano velarsi all'improvviso, come di una preoccupazione grave.
«Si tratta di Regulus.»
Ecco. Ci siamo, si dice Sirius, e il suo cuore prende a battere più forte, come quello di un corridore che accelera per la volata finale.
«Come ben sai, tuo fratello si è unito alle fila di Voldemort da quasi un anno, ormai...»
Tipico di Silente, pensa Sirius: girare intorno alla faccenda prima di affondare il colpo mortale. In un'altra occasione apprezzerebbe la sua delicatezza e il suo tatto di sondare il terreno prima di avventurarsi oltre, ma adesso gli provoca solo un moto di stizza.
Non vuole aspettare. Non vuole sentire niente.
Vuole che gli dica perché è venuto e basta.
Non ha bisogno di ascoltare la storia di Regulus daccapo. Non gli interessa sapere cos'abbia combinato in quell'ultimo anno, di quali crimini si sia macchiato – dopo il primo, dopo il Marchio.
«Veniamo al sodo.»
La voce quieta di Silente si interrompe bruscamente, ma il Preside non sembra arrabbiato. Si limita a guardare intensamente Sirius al di sopra degli occhiali a mezzaluna, e una luce inspiegabile scintilla in essi.
Sospira di nuovo, ancora più profondamente, poi lo guarda all'improvviso e Sirius sussulta, perchè il suo sguardo è come una lama – se ne sente trafitto in profondità e, per un attimo, si dimentica come si fa a respirare.
«Non lo immagini, Sirius?»
La voce dell'uomo è grave, vibra di una grande pietà trattenuta. Sul suo viso, l’espressione di un indicibile dolore.
Sirius si irrigidisce, come colpito da una fattura. Il vetro che stringe tra le dita è diventato caldo e appiccicoso di sudore. Se lo rigira cautamente nel palmo madido, cercando il contatto con la superficie ancora fredda.
Si sente improvvisamente più conscio di ogni sua sensazione e di ogni singola parte del suo corpo. Del pavimento saldo, duro sotto i suoi piedi –  eppure ora non gli sembra più così solido, anzi, vacilla pericolosamente, come la tolda di una nave in un oceano tempestoso.
E’ forse uno scherzo dei suoi occhi, ma le pareti del salone dei Potter ondeggiano nel suo campo visivo e per un attimo è tutto buio.
E in quel buio compare una luce: piccola dapprima, si fa via via più grande, fino ad occupare tutto il suo campo visivo. Talmente intensa da abbagliarlo.
Poi quel sipario di luce si apre e Sirius ha come una visione, dall'alto, di un puntino nero, lontano lontano, laggiù sul fondo della luce. E’ circondato da un riflesso verdastro, ma tutt'intorno c'è del nero. Nero liquido, nero agitato da corpi frementi che emergono da esso, strisciando sempre più verso il puntino.
E ora non è più un puntino, ma una figura umana, piccola piccola, lontanissima, eppure non c'è dubbio di chi si tratti. Lotta per non lasciarsi sopraffare, ma sempre più debolmente. Mani scheletriche sono su di lui, tutt'intorno a lui; mani che lo trascinano giù. Le sue unghie afferrano per l'ultima volta, impotenti, la nera, liscia pietra dell'isolotto roccioso.
Un attimo dopo la sua testa nera torna al nero delle acque che si richiudono ribollendo su di essa, ricoprendolo completamente, nascondendolo alla vista. Rimane solo il riflesso verde del bacile vuoto al centro.
Quel riflesso si dilata, torna la luce di prima, e altrettanto rapidamente scompare, sostituendosi ad esso il bagliore chiaro e nitido delle lampade del salone dei Potter, che riverberano sugli occhiali del Preside.
«E’ morto?»
Non c'è espressione nella voce di Sirius. Non c'è colore, non c'è alcuna sfumatura – piatta e fredda e grigia come metallo asettico.
Non chiede quand'è successo, come l'abbia saputo.
Dice solo: «E' morto?» e senza aspettare risposta si dirige verso la finestra.
Sente l'idromele sballottare nel bicchiere che ancora stringe in mano. Lo stringe più forte, aggrappandosi ad esso.
«E' morto?» ripete per la terza volta.
Non ha bisogno di una risposta, ma al tempo stesso la pretende, con quella nota accorata nella voce che dice chiaramente che non si sentirebbe in pace finché non abbia ricevuto un sì o un no.
«Sì» scandisce la voce del Preside alle sue spalle.
Come se quella sillaba gli avesse precipitato addosso un macigno sproporzionato, le spalle diritte di Sirius si curvano, la fiera testa si piega in avanti, e i capelli calano a nascondergli il viso.
Si appoggia con una mano alla finestra e il suo fiato appanna il vetro. Fuori continua a nevicare, ma a fiocchi radi e deboli. Le dita premute contro il vetro tremano, pallide, agonizzanti. Premono talmente forte che i polpastrelli sono sbiancati.
Dura un minuto, forse. Poi le spalle e la testa si raddrizzano e le dita si rifugiano in tasca, per nascondere il tremito.
Si volta lentamente a fronteggiare il Preside. I suoi occhi sono rossi, ma asciutti.
«Ha avuto quello che meritava. Sapeva quale fine avrebbe fatto quando è diventato un Mangiamorte.»
«Non lo pensi davvero, Sirius. Non posso credere che lo pensi davvero.»
In quel momento, non visto, di soppiatto, Remus sgattaiola nella stanza.
Sirius fa un altro sorriso storto, amaro, sofferente.
Smette subito.
Abbassa lo sguardo sull'idromele che stringe in mano, lo solleva lentamente facendo il gesto di portarselo alla bocca, ma prima che gli sfiori le labbra scaglia il bicchiere lontano.
Quello va a frangersi contro la parete con uno schianto assordante, schizzando idromele dorato ovunque, sulla tappezzeria, sui divani, sul tappeto...
Silente non dice niente. I suoi occhi sono gravi e pieni di pietà. Fa un cenno a Remus, il quale risponde annuendo impercettibilmente.
Il Preside si alza ed esce dalla stanza con appena un fruscio dell’ampio manto color porpora, lasciando i due amici soli.
«Lily non sarà contenta» dice all’improvviso la voce di Remus, dall’angolo della stanza dove si è rifugiato, accanto ai cocci del bicchiere infranto e alla carta da parati grondante.
Sirius ride.
Ma c'è qualcosa di storto, che deforma in modo innaturale la sua risata canina, rendendola più selvaggia e meno umana del solito. Si spegne in un gorgoglio soffocato, incastrato nel fondo della gola.
Remus lo sente lottare per respirare. Non dice nulla – copre in pochi passi la distanza che li separa e lo abbraccia.
«Mi dispiace, Sirius.»
«Di cosa?» ringhia, «Un Mangiamorte in meno.»
«Era il tuo unico fratello. Ora sei solo.»
«Sono sempre stato figlio unico, Remus, ricordi? Non ho mai avuto nè padre, nè madre, né fratello. Sono solo da sempre.»
Remus sospira contro il suo maglione. «Gli volevi bene, lo so.»
Lo sente irrigidirsi pericolosamente e la ragione lo ammonisce che sarebbe meglio non continuare, ma il cuore, testardo, prosegue: «Ti senti in colpa per lui. Per non essere riuscito a salvarlo.»
«Lui non ha mai voluto essere salvato» dice Sirius a fatica, dopo un minuto di silenzio.
«Nemmeno tu. Voi Black amate la vertigine del vuoto; volete tramontare. Amate la morte, più che la vita. Ma tu sei stato più fortunato di Regulus: hai incontrato amici più testardi della tua ostinazione. Non ti permetteremmo mai di mollare, mai.»
Sirius non risponde. Guarda fuori dalla finestra il paesaggio silenzioso immerso nella neve e immagina che il corpo di suo fratello riposi lì da qualche parte sotto quel manto immacolato, sceso dal cielo a purificarlo dai suoi peccati, a cancellare le sue colpe, a restituirgli il diritto al suo riposo eterno.
Regulus è morto. L'ultimo filo che lo lega alla sua famiglia è spezzato.
Sirius è solo per sempre.
Ma, dentro di sé, è contento che ci sia Remus, appena al di là della sua solitudine.



*


Dicembre 1995
Grimmauld Place nr 12




Ma ora Remus non c'è. E questo è il diciassettesimo Natale dalla morte di Regulus.
Sirius è davvero solo, stavolta. Non sa che la sua solitudine non durerà a lungo.
Questo sarà anche l'ultimo Natale della sua vita, ma lui non può immaginarlo.
La morte non gli fa paura. In un certo senso, è già morto, dunque è una realtà che conosce bene.
E’ morto durante la sua infanzia, lo ha ucciso suo padre, ma soprattutto sua madre; è morto con Regulus prima, con James e Lily poi; con Marlene, Dorcas, Gideon, Fabian e tutti gli amici e colleghi che se ne sono andati prima di lui. A preparargli la strada, sogghigna, disperatamente tetro, a scaldargli il posto
E’ morto insieme alla coscienza di Alice e Frank.
E’ morto ad Azkaban, lapidato dall’infamante accusa di tradimento.
È morto quando Codaliscia è fuggito, ancora una volta – e ancora una volta negandogli la libertà e il riscatto.
Sirius muore un po’ ogni volta che la lingua biforcuta di Mocciosus gli insinua frecciate sibilline, accuse velate, nelle orecchie, facendogliele scivolare giù fino al cuore. Sono parole che pesano come macigni, lo rendono irrequieto, riempiono di lampi i suoi occhi spiritati, facendolo apparire più che mai una maschera che di vivo ha solo quello: gli occhi.
Gli occhi che aveva lui, che erano anche i suoi.
Ha sbagliato tutto con Reg, ma non può tornare indietro.
È stanco. E’ stufo di essere additato come un traditore: dai Black prima, da Minus poi. Di essere ricercato come un criminale dall’intero mondo Magico, presunto colpevole di un crimine che tuttora non esiterebbe a commettere, nemmeno se Harry gli si parasse di fronte pregandolo di risparmiare la vita a Codaliscia ancora una volta.
È stufo di vedere gli innocenti spazzati via dalla faccia della terra mentre i malvagi continuano ad avvelenarla e a consumarla, come parassiti.
È stufo che non ci sia giustizia, a questo mondo. 
Ed è stufo soprattutto di essere solo: lo è stato durante la sua infanzia prima, ad Azkaban poi; e ora lo è di nuovo, solo, qui nella sua vecchia, tetra casa.
Con solo i ratti come compagni.
E la memoria, a rosolarlo a fuoco lento.
Questa sarà una lunga notte. Una notte di ricordi.



*


1976
Grimmauld Place nr 12



Oggi Sirius Black lascerà la sua casa per sempre.
 


«Che stai facendo, per Salazar?» La sua voce irritante ti coglie alle spalle.
Chino sul baule, fingi di non averlo sentito. Speri che se ne vada, tuo fratello è più molesto di un tafano.
Passi leggeri, poi la punta dei suoi lustri stivali di pelle – quelli che mammina gli ha regalato l’ultimo Natale – invadono il tuo campo visivo, il tuo spazio vitale.
Il suo odore ti da’ fastidio. Lo respiri ogni volta che passi davanti alla sua stanza, ogni volta che ti sta vicino – troppo vicino. Ti infastidisce forse perché è così diverso dal tuo. Da piccoli, invece, tu e Reg avevate esattamente lo stesso odore.
«Perché stai riempiendo il baule?» La sua voce è sospettosa, insopportabilmente petulante.
«Mammina non ti ha insegnato che fare domande è cattiva educazione?» lo provochi sarcastico, scavalcando il baule con un’ampia falcata – molto canina, a dire il vero – e urtandolo di proposito con la spalla.
Una smorfia di dolore appare sulle labbra delicate di Reg. Si massaggia il petto, lì dove l’hai colpito, con la mano, al di sopra del maglioncino di cashmere. Disgustosamente pregiato. Disgustosamente pretenzioso. Disgustosamente costoso. Fa a pugni con la sua espressione chiusa, diffidente, contrariata.
Stai cercando la tua bacchetta. Rovisti sotto l’armadio, dietro il letto, nei cassetti. Non riesci a trovarla e il tuo nervosismo aumenta di minuto in minuto.
Regulus è dietro di te, immobile, e non dice nulla. Senti i suoi occhi perforarti accusatori e la cosa non contribuisce a rallegrarti.
«Per le mutande di Merlino, ma dove è finita?» Ti fermi al centro della stanza, le mani sui fianchi, ogni tanto te ne passi una nei capelli, afferrandoti le ciocche nere e stringendo, quasi fino a strappartele, come a voler spremere dalle meningi quell’informazione che ti sfugge – proprio adesso, in un momento così cruciale.
Chiudi gli occhi, coprendoti il viso con le mani, sforzandoti di ricordare… Il mal di testa che inizia a pulsare dietro l’occhio sinistro non aiuta.
«Stai cercando la tua bacchetta, vero?»
Il tuo sorriso storto è nascosto dalle dita, ma il sarcasmo increspa sordo e tetro la tua voce, mentre dici:
«Certo che no. Mi sto fingendo pazzo aspettando che tu te ne vada.»
Regulus ti guarda incerto, non sa se prenderti sul serio o no, e la cosa peggiora di colpo il tuo malumore.
«Hai capito, fratellino? Porta le tue chiappe Serpeverdi fuori dalla mia stanza. Va’ a giocare con la tua scopa, chiedi alla mamma se puoi leccare i cimeli di famiglia, gioca a Sparaschioppo con Kreacher, fa’ quel che cavolo di pare e non seccarmi più con le tue domande idiote.»
Il viso pallido di tuo fratello prima sbianca, poi arrossisce. Il suo labbro inferiore trema leggermente per la rabbia; è così umiliato che sembra non trovare parole.
«Lo dirò alla mamma» riesce infine a sibilare, stringendo i pugni.
«Che cosa– di grazia – le dirai?»
«Che vuoi andartene.»
Rimani un attimo in silenzio, spiazzato tuo malgrado dalla perspicacia di tuo fratello, ma d’altronde non potevi pretendere di nascondere a lungo i tuoi propositi…
«Chi ti dice che voglia andarmene? Sei per caso impazzito, Reggie caro?»
Reggie è il soprannome che detesta. Solo vostra madre lo chiama così, ogni tanto, quando è sicura che tu sia a portata d’orecchio. Alza apposta la voce, come una vecchia gatta rauca, e si produce in quei miagolii disgustosi che ti strizzano lo stomaco in un pugno di bile.
Ma Regulus non abbocca alla provocazione. «Stai riempiendo il baule con tutte le tue cose» continua, ostinato, «I tuoi vestiti mancano dall’armadio. Hai messo tutto dentro tranne la tua scopa. Dove stai andando, Sirius?»
La testardaggine con cui ti pone quella domanda ti fa quasi sorridere.
Gli volti le spalle con noncuranza. «Non sono affari tuoi.»
Continui a ispezionare la stanza e la memoria in cerca della bacchetta. Nel frattempo, raccogli qua e là oggetti vari dal pavimento, gettandoli nel baule. Non che ti serva molto, per la fuga.
«Stai andando da quel Potter, vero?»
Digrigni silenziosamente i denti, dentro di te, pur senza girarti. Ti chiedi come faccia Regulus a indovinare così facilmente e così in fretta. A Hogwarts è ben noto il sodalizio malandrino con James, né ti sei mai preoccupato di nasconderlo a Regulus, quand’era nei paraggi.
Non ci giureresti, ma avverti una nota di profondo disappunto nella sua voce. Come se…
«Anche se fosse? Sei per caso geloso, Reggie?»
Lo vedi stringere di nuovo i pugni. Quando vuoi, Sirius, sei insopportabile.
«Sì, sto andando da James» ti limiti a confermare, scuotendo con sufficienza le spalle. «Ne ho abbastanza di tutti voi. Non voglio più vedervi.»
Una parte di te registra il sussulto che scuote le spalle di Reg, ma l’altra parte preferisce ignorarlo.
«Me ne vado. E tu resterai qui a marcire, per sempre. A farti abbracciare da quella disgustosa vecchia megera con le sue zampacce aristocratiche e a farti vestire e impomatare come un animaletto imbalsamato, e... sai una cosa? Penso proprio che finirai come i nostri cari Elfi Domestici: appeso al muro dalle amorevoli mani di nostra madre in persona. Ed è questo che vuoi, vero, Reg? Saresti disposto a tutto pur di assecondarla, perché continui ad elogiarti e tu a gonfiarti di soddisfazione come un pavone vanesio. Sei ridicolo. Ridicolo, patetico ragazzino.»
Gli volti di nuovo le spalle.
Non temi ritorsioni. Sai che Regulus non ti attaccherebbe mai, né di petto, né alle spalle. Semplicemente, non è nella sua natura il confronto diretto, il corpo a corpo. Lui è tipo da sotterfugi e vendette covate nell’ombra, non certo da battaglia aperta.
Infatti non lo senti lanciarsi su di te.
Ma all’improvviso, anche se non si è avvicinato, anche se non ha mosso apparentemente un muscolo, ti senti scagliato in aria come da un turbine di vento e luce.
Atterri, faccia a terra, sul pavimento di legno. Senti il tuo naso spezzarsi con un sonoro crac, ammortizzato dalla spessa moquette polverosa. Inali tonnellate di polvere che ti fanno girare la testa.
Puntellandoti su una mano, giri la testa indietro. Eccolo lì, tuo fratello, in piedi con l’aria oltraggiata di un re che invoca vendetta, con in mano la bacchetta – la tua bacchetta, la riconosceresti tra mille.
Il tuo orgoglio ferito ti fa fremere come una belva. Ma sorridi, mentre ti rimetti in piedi.
Sorridi un sorriso pericoloso e abbagliante, mentre con il dorso della mano strofini via il sangue che cola dalle narici.
«Ma che bravo, hai imparato anche qualche incantesimo di difesa, allora? Oltre alle maledizioni e alle fatture che ti hanno insegnato i tuoi amichetti? Chi ti da’ lezioni, Voldemort in persona?»
Tutto il colore e la vita defluiscono dal viso di Regulus. I suoi occhi si sbarrano per il terrore – o l’ammirazione?
Cerca di metterci più odio possibile mentre dice:
«Ti credi tanto spavaldo a pronunciare il nome dell’Oscuro Signore? Credi di essere coraggioso?»
«E tu?» replichi in un impeto di rabbia assassina, tanto che Reg indietreggia istintivamente. «Tu ti credi così furbo a riverirlo, a chiamarlo “Mio Signore”? Credi che leccargli il culo ti farà diventare più forte, o più coraggioso, o più intelligente?» Scoppi in una risata aggressiva, corrosiva. «No, no, mi dispiace, piccolo Reggie. Per quello non basterebbe neppure l’incantesimo più potente che un Mago conosca…»
Regulus alza di nuovo la bacchetta, vinto dall’odio.
Ma tu sei più veloce. Ti aspettavi quella mossa.
Lo placchi come un giocatore di rugby – è uno sport babbano di cui hai sentito la Evans discutere con Marlene – abbrancandolo alla vita prima che possa scagliarti un altro incantesimo, stavolta non di difesa.
Regulus è un Cercatore. È piccolo, è agile, è scattante, ma la rabbia gli appanna la vista, gli intorpidisce le membra. Non riesce a sfuggire. Senti le sue ossa agitarsi follemente nella tua stretta, le sue unghie graffiarti un lato del viso, fino alla tempia, mentre con l’altra mano gli immobilizzi il polso. Stringi forte, incurante dei lamenti che gli sfuggono tra i denti, finchè le sue dita non si aprono e la bacchetta scivola con un tonfo sordo sulla moquette. Tunk.
Potresti anche lasciarlo andare, adesso, ma qualcosa te lo impedisce. Qualcosa – di perverso, di malvagio, di sadico – dentro di te ti induce a guardare dall’alto tuo fratello, fermo sul pavimento senza possibilità di muoversi, riversandogli addosso tutta l’irrisione e il sarcasmo possibili.
Facendogli sentire chi ha vinto. Dimostrandogli chi è il più forte.
Proprio come una volta fece con te Bellatrix, quando eri solo un bambino…
Per un attimo quel ricordo ti destabilizza, ti confonde. Un moto di fastidio – e la consueta rabbia bruciante che ormai associ a lei – ti sorge nel petto. Contrariato dall’associazione inconscia, automatica, che è scattata dentro di te.
Ma tanto tu sai benissimo di non essere come lei, di non somigliarle nemmeno lontanamente.
Bellatrix è una bestia. È malvagia fin nell’animo. Tu invece…
Già, tu invece non stai mettendo sotto tuo fratello valendoti della tua superiore forza fisica, dopo averlo deriso e provocato e insultato?
Che c’entra, dice una voce dentro di te, la meno buona, Reg se lo merita. È un imbecille.
E’ diverso. Tu sei diverso da Bellatrix.
Tu non faresti mai del male a un innocente.
Eppure, man mano che continui a pensarci, un senso di penosa incertezza, di scomoda agitazione, ti cresce dentro.
Perché guardi tuo fratello negli occhi, vinto, abbattuto, sotto di te, in lacrime di frustrazione – e sì, anche di dolore, perché non ci sei certo andato per il sottile – e nei suoi occhi, così simili ai tuoi, non ci vedi niente che possa giustificare le tue azioni.
Non c’è colpa. Solo una smisurata innocenza.
E, per Merlino! I suoi occhi sono proprio uguali ai tuoi. Uguali identici. Sono proprio i tuoi.
Con un impulso improvviso, gli lasci andare i polsi che hai tenuto inchiodati fino a quel momento a terra, per impedirgli di difendersi, e ti scopri a pensare che non è stato un atteggiamento molto onorevole il tuo, ingaggiare una lotta così impari. Non è stato molto “Grifonesco”.
Sì, hai agito per legittima difesa, insorge la solita vocina, Regulus aveva una bacchetta e stava per affatturarti, ma tu l’hai provocato, hai scelto apposta ogni singola parola per ferirlo e indurlo allo scontro, e sai benissimo di essere molto più forte, fisicamente, del tuo fratellino.
Sai come importi su di lui, come sopraffarlo, non per niente hai sempre vinto in tutte le lotte che facevate da piccoli.
Tanto tempo fa. Quando ancora giocavate insieme.
Quando Reg era sì, sempre piccolo e ossuto, ma aveva lo sguardo caldo e la bocca ridente, quando si rivolgeva a te.
Tanto tempo fa.
Ti sollevi, liberandolo dal tuo peso, e allunghi una mano ad afferrare la bacchetta. Ti rialzi soffiando via la polvere e la strofini in una piega della t-shirt che indossi, cercando di cancellare le impronte. Le impronte di Regulus. La bacchetta non è sua, d'altronde.
Poi borbotti un “Epismendo”, puntandotela contro il naso. Istantaneamente, le ossa rivanno al loro posto, incastrandosi di nuovo perfettamente tra loro, ricomponendo la fisionomia diritta e austera del tuo profilo perfetto.
Soddisfatto, fai un passo avanti, calpestando il tappeto della stanza.
Sei piuttosto bravo a scuola. E lo saresti molto di più se non fossi così scansafatiche e non passassi praticamente i tre quarti del tuo tempo in punizione con James. L’altro quarto lo impiegate a inventare stratagemmi per farvi mettere in punizione e questa cosa fa sollevare puntualmente gli occhi al cielo per l’esasperazione a Remus e ridacchiare ammirato Codaliscia.
Il pensiero di James ti risolleva un po’ le viscere, che avevi lasciato da qualche parte nei calzini, dopo il battibecco con Regulus. Il volto del tuo migliore amico basta a cancellare ogni senso di colpa, e la stessa presenza di tuo fratello nella stanza.
Imbaldanzito, agiti la bacchetta e cominci a far fioccare oggetti vari dagli angoli della stanza, dritto all’interno del baule.
«Non glielo hai detto, vero?» La voce di Regulus si leva un po’ distorta, umidiccia, come se si stesse sforzando per trattenere le lacrime.
Eppure non puoi ignorare la soddisfazione cattiva che la impregna all'improvviso, come inchiostro nero e spesso. Basta quel tono a farti rizzare i peli sulle braccia, mentre cerchi disperatamente di ignorarlo.
«Detto cosa? Di che stai parlando?» La tua voce è dura, ma eviti accuratamente di girarti a guardarlo negli occhi.
Quegli occhi simili ai tuoi. Quegli occhi proprio identici ai tuoi.
Una risatina gorgoglia alle tue spalle. Reg tira su col naso, mentre un tramestio pesante annuncia che si sta rimettendo in piedi.
Vorresti che fosse ancora a terra.
Vorresti soprattutto chiudergli la bocca, fermare quelle parole prima che vengano pronunciate. Ma è troppo tardi.
«Non glielo hai detto, al tuo amichetto Potter, perché vuoi veramente andartene da questa casa?»
Tunk. La bacchetta ti è scivolata tra le dita.
Ti chini rapido a raccoglierla mentre senti la fronte imperlarsi di sudore freddo. Dentro di te, il cervello si mette in moto velocemente cercando di pensare a qualcosa, qualsiasi cosa, per fermarlo.
«Qualunque sia il tuo stupido piano, non ci cascherò, Reg.»
Peccato che dentro di te tu sappia benissimo che ha ragione, così come lo sa lui. E questo da’ forza – e crudeltà – alle sue parole. Perché ora lo sa, sa che è lui il più forte tra voi due, sa che questo è il tuo punto debole, il tuo segreto più oscuro, e non puoi difenderti.
«Perché non glielo hai detto, Sir? Eppure siete così… amici
La sua voce sibillina si conficca come uno spillo nella tua testa, affondando parola dopo parola, aprendoti come un cuneo il cervello.
«Sta’ zitto, Reg. Tu non sai nemmeno cosa vuol dire essere amici.»
Vorresti ferirlo, ma hai perso questo potere; l’hai perso pochi minuti fa, quando quella risata cattiva è salita dalla gola di tuo fratello, scaturita dalla frustrazione e dall’umiliazione che prova per colpa tua.
«Nemmeno tu, a quanto pare. Tra i veri amici non dovrebbero esserci segreti, o sbaglio?»
Senti i suoi passi lievi venire verso di te. All’improvviso, il pensiero di averlo vicino, di respirare di nuovo il suo odore – il suo odore che non è il tuo, non più – ti cola fuoco liquido nelle vene.
Come un cobra aizzato da un bastone, ti volti su te stesso brandendo la bacchetta. Un po’ tremante, la punti contro il suo petto, costringendolo a fermarsi. Costringendo te stesso a rimanere lucido, a smettere di tremare.
Con l’altra mano ti asciughi il sudore dalla fronte. A questo gesto, ti sembra di intravedere un lampo soddisfatto nello sguardo di Reg.
Lui è tranquillo. Ha quel ghigno distorto sul viso che lo rende più simile a te che mai. Che te lo fa odiare.
«Ora basta. Chiudi il becco, Reg, o sarà peggio per te.»
«Perché, altrimenti cosa fai? Mi uccidi?»
Avanza verso di te, lentamente, con le braccia spalancate, in una muta, assurda provocazione. Lo scintillio nei suoi occhi, nel suo sorriso, è insostenibile.
«E’ dura sentirsi dire la verità, vero, Sir? Non ti piace che i tuoi amichetti ti conoscano per quello che sei veramente…»
«Sta’ zitto, Reg. Non te lo ripeterò ancora. Non costringermi a…»
Lui scoppia a ridere e tu ti rendi conto dell’assurdo capovolgimento della situazione. Fino a un minuto fa eri tu a deriderlo e insultarlo, ora è lui che ha il coltello dalla parte del manico.
Altrettanto improvvisamente, la risata di Regulus si interrompe e il suo sguardo si fissa su di te. È freddo, è calcolato, è privo di sentimento.
È uno sguardo che non gli appartiene. È crudele, è sadico, è pazzo.
È vostra madre che ti guarda, attraverso gli occhi di tuo fratello.
È sempre stata lei a spiarti, ovunque tu andassi, con i suoi occhi aguzzi e dissennati.
Anche la voce che fuoriesce dalle sottili labbra esangui di Reg non è la voce di Reg:
«Perché non sei un bravo bambino, Sirius? Perché non fai il bravo
Ecco, è questo il momento esatto in cui impazzisci.
Dentro di te, scatta qualcosa. Qualcos’altro prende fuoco. Perdi il controllo.
È solo un puro caso che tu non lo uccida, che la bacchetta non colpisca il bersaglio, annientandolo all’istante.
È solo perché la tua furia è troppo fisica, troppo sanguigna e istintiva – solo perché ti sei slanciato in avanti ancor prima di sollevare la bacchetta – che Regulus non muore. È solo perché ti da’ più soddisfazione prenderlo a pugni che scagliargli fatture che tuo fratello ha salva la vita.
Senza nemmeno rendertene conto, ti trovi a scagliare lontano la bacchetta e, obbedendo al più primordiale degli istinti, gli balzi addosso colpendolo con foga inaudita. Il corpo gracile di Regulus stramazza a terra con un grido soffocato. Uno spruzzo rossastro esala insieme al suo gemito, mentre il labbro squarciato perde copiosamente sangue, colando sul colletto inamidato e sul maglioncino di cashmere che si impregna immediatamente.
Non sai nemmeno tu cosa ti abbia fermato. Cosa ti impedisca, tuttora, di fare a pezzi quell’idiota di tuo fratello, fargli sputare fino all’ultima goccia di quello schifoso sangue di cui va così fiero.
Vorresti averlo sotto di te per fargli rimangiare le orribili parole che ti ha riversato addosso.
Ma anche se fosse possibile che si scusasse, sai che non cambierebbe molto. Quelle continuerebbero a risuonare come un motivetto monotono nella tua testa. Da lì, niente potrebbe cancellarle.
Anche se Reg non le avesse pronunciate, non potresti comunque dimenticarle. Non potresti strapparti dal cuore il momento in cui le hai udite per la prima volta, dove, e da chi. Niente potrebbe fartelo dimenticare.
Sono schegge di metallo nel sedimento limaccioso della tua anima. Da lì, ti avvelenano lentamente. Sono indissolubilmente legate a un miscuglio di emozioni violente, rosse come il sangue, rosse come la vergogna, come la rabbia. Sono dolore, e umiliazione, e impotenza, e raccapriccio. Sono nausea impastata con odio.
Ecco perché hai reagito in modo così violento. Dovevi impedire che quelle parole sporcassero anche le labbra di tuo fratello. Sono parole che non gli appartengono, che lui non dovrebbe conoscere, lui che dovrebbe preservare ancora intatta la sua innocenza.
Anche quella voce non gli apparteneva, e quegli occhi non erano i suoi.
Forse è stata la tua immaginazione delirante, un raptus di pura psicosi, a sovrapporre l’odiato volto al suo e a riversarti brividi di orrore lungo il corpo, al solo sentir ripetere quelle parole.
“Perché non sei un bravo bambino, Sirius? Perché non fai il bravo?”
«Non. Dirlo. Mai. Più.»
La tua voce scandisce le sillabe come rintocchi funebri.
Reg è a terra, raggomitolato come senza più vita. E in effetti tutta la vita sembra aver abbandonato il suo volto terreo, che forse lo sembra ancor di più per via del contrasto sanguigno che lo imbratta dal mento in giù.
Distogli lo sguardo da lui, prima che il senso di colpa torni a morderti la coscienza.
Incominci a gettare l’ultima roba rimasta, alla rinfusa, nel baule. Non ti curi di usare la Magia, anzi… in questo momento hai bisogno di impegnare le mani, di fare qualcosa di “fisico”, altrimenti le chiuderesti volentieri intorno all’esile collo di cigno, femmineo nella sua grazia alabastrina, di Reg. E poi le useresti con piacere per martellarti la testa fino a perdere la memoria e la coscienza.
Ma sai che non succederà. Ricordare sarà da oggi in poi la tua maledizione.



*


Dicembre 1995
Grimmauld Place nr 12



Da quel lontano 1976 non sei mai più tornato a casa. Non hai mai più rivisto i tuoi.
Di Reg hai saputo della sua morte da Silente. Per un attimo, davanti a quella finestra gelata, ti sei ricordato di quell’ultima volta in cui vi siete visti. E di tutta la rabbia e la repulsione che hai dovuto seppellire e imparare a controllare per rimettere piede in questa casa.
Ricordi, Sirius. Se potessi dimenticare, sarebbe più felice. Ma non puoi dimenticare.
Nemmeno il quadro appeso giù nell’ingresso dimentica. Anche solo passarci davanti, con le tende ben tirate, ti fa pizzicare la pelle di disgusto. Quel fiato ripugnante solleva ancora la vecchia stoffa tarmata, accompagnando ogni respiro dell’occupante della tela. Le daresti fuoco, se non fosse protetta da incantesimi astuti, e se non rischiassi di distruggere l’intera casa. Non che ti dispiacerebbe, ma ora è il Quartier Generale dell’Ordine. Non puoi fare un simile torto a Silente, distruggendoglielo in quattro e quattr’otto.
E poi, fra non molto, arriverà Harry. E i Weasley. E ci saranno Remus e Alastor e Kingsley.
E perché no, verrà a farsi un bicchierino di Whisky Ogden Stravecchio anche quel lestofante ubriacone di Mundungus, lui e le sue pulci di vecchio bastardo randagio.

Mediti su tutto questo davanti a una bottiglia di whisky.
Sei seduto sul pavimento gelido, la schiena addossata alla gelida parete sotto la finestra da cui hai appena sbirciato fuori. Immerso nel buio. Solo il bagliore affilato dei tuoi denti, dischiusi in un sorriso ringhioso, permette di localizzare il tuo viso. E il riflesso della bottiglia sciaguattante che sollevi a intervalli periodici, con gesti meccanici, accompagnata da un gorgoglio avido nella gola e un sospiro di soddisfazione a ogni sorso.
Ma ogni sorso è troppo breve e il whisky non basta a cancellare i ricordi.
Cerchi di consolarti guardando al futuro, ma non ti riesce tanto bene. Sei troppo abituato a soffocare nel passato per poterti librare verso il domani.

E pensi che magari, quando la guerra sarà finita, quando Voldemort morirà – perché tu non ci credi all’immortalità, tu che hai visto la Signora Nera faccia a faccia e che te la porti dentro, a ogni passo, non puoi pensare che esista qualcuno che non muore, quando tu stesso muori ogni giorno – tu ed Harry potrete vivere insieme, lì. In Grimmauld Place nr 12.
Odieresti meno questa casa, se Harry fosse qui con te. E potrebbe diventare una vera casa, se qualcuno venisse ad abitarla, a portarvi un po’ di luce e di gioia.
Se Harry venisse, ti toccherebbe rassettare mobili e tappeti, spolverare, mettere in ordine, liberarti degli orrendi cimeli, delle vestaglie strangolatrici, dei Doxy annidati nelle tende, dei medaglioni che non vogliono saperne di aprirsi. Dovresti ripulirla e farne una degna abitazione per il tuo figlioccio.
E tu saresti felice. Oh, sì, saresti l’uomo più felice e più triste del mondo, perché a quel punto non potresti davvero più abbandonare quella casa, saresti vincolato ad essa per sempre.
Ti aggrappi a quel pensiero, a Harry, per andare avanti.
Sì, quando la guerra sarà finita…
Quando Voldemort morirà

Il torpore comincia a invaderti.
Hai quasi chiuso gli occhi quando si leva, lenta e impastata, la tua voce ubriaca di whisky scadente, ormai muffito. Canticchi un motivetto stonato con quella tua voce arrugginita che suona come una vecchia fisarmonica lamentosa.
Le nebbie dell’alcol ti avvolgono rapidamente.
Ti trovi ben presto isolato al centro della tenebra semicosciente, tu e la tua canzone gracchiante che si interrompe a tratti, tra un singhiozzo e un colpo di tosse, e prosegue così, a scatti, a volte flebile e stridente come un cardine male oliato, a volte grave e tonda come il rombare di una frana sul dorso di un monte.
Stranamente, a mano a mano che il canto prosegue e la sonnolenza ti sopraffa, le parole cambiano. Nella tua testa, assumono un suono diverso. Assumono vita propria. Strisciano direttamente dalla porta aperta dello scantinato buio dei tuoi pensieri, resuscitando lo stagno melmoso dei tuoi ricordi più distruttivi.
Dal passato, dal profondo, dall’orrido, si insinuano, pesanti come piombo, parole lontane lontane, che messe insieme risuonano, ripetute all’infinito, come una cantilena spettrale, priva di senso, eppure tremenda, pur nell’inconscio del sogno.
Perché non sei un bravo bambino? Perché non sei un bravo bambino? Perchè? Perché, Sirius? Perchè perchè perchè...”
Tunk. La bottiglia cade a terra. La mano che la reggeva rimane ferma e aperta, mentre sulla bocca del suo padrone si spengono le ultime note stonate e il sonno ti ruba la coscienza. Ma non ti da’ tranquillità.
Per tutta la notte, ti rigiri e ti agiti nel sonno, svegliandoti a più riprese senza ricordarlo, precipitando di incubo in incubo. Unica colonna sonora quella frase che ti assilla e ti tormenta.
Questa notte non puoi avere pace. Il passato torna a riassalirti: se non sottoforma di ricordo, nelle spoglie del sogno – e non è meno terribile.

Nella stanza accanto, l’Ippogrifo Fierobecco raspa nervosamente un angolo di moquette lisa con il grosso artiglio coriaceo. Sente i mugolii agitati del suo padrone, preda dell' incoscienza, che ha dimenticato di dargli la cena, troppo preso dalla malinconia e dalla contemplazione della finestra spenta per ricordarsi di lui.
Ma Fierobecco non si perde d’animo.
Il suo ferino occhio arancione ruota con eleganza da un lato, l’artiglio scatta fulmineo nella penombra, uno squittio spiaccicato e lo schiocco del rostro possente che sparge brandelli sul pavimento.
Almeno a qualcosa servono, i topi.




Fine


  
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