Libri > Altro
Ricorda la storia  |       
Autore: Littlefinger    01/02/2013    1 recensioni
[Miti di Cthulhu]
"Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano."
“Il richiamo di Cthulhu” di H.P. Lovecraft
[Scritta per l'iniziativa "Sfiga Fandom Fest 2010: I miti di Cthulhu, Azathoth" su Fanworld.it]
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
"Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l'incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d'ignoranza in mezzo a neri mari d'infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano."
“Il richiamo di Cthulhu” di H.P. Lovecraft

L’equazione

Tratto dalla corrispondenza fra Paul Howard, MD, primario dell’Our Mother’s Piety Hospital, istituto di massima sicurezza per pazienti con forti turbe psichiche, e il professor Elijah Olafsson, PhD, direttore del Centro Studi Cosmologici della California.


26 giugno 1984. Sacramento, California.
    Caro Elijah,
    ti scrivo questa lettera per aggiornarti sulla storia del tuo collega, Albert Theodore Rosenberg, che venne ricoverato al mio istituto qualche mese fa. Ebbene, il professore Rosenberg è stato trovato morto nella cella d’isolamento dell’Our Mother’s Piety Hospital. L’infermiera del turno notturno l’ha trovato riverso a terra in un lago di sangue alle 23.15 del 23 giugno. Si è piantato una penna nella carotide: non ci sono spiegazioni su come il paziente possa essersela procurata. In un angolo della stanza è stato ritrovato un foglio, di cui ho allegato una fedele trascrizione a questa mia, su cui ha scritto le sue ultime deliranti parole, perfettamente in tono con i suoi discorsi apocalittici. Ho seguito attentamente il suo caso come mi avevi chiesto e non credo di poter concordare con la tua valutazione. Può sembrare un controsenso, ma la pazzia di Rosenberg era, come dire, lucida, anche se non sono sicuro sia lecito parlare di pazzia. Nonostante ciò, leggendo i suoi ultimi pensieri mi scorre un brivido freddo lungo la schiena; non credo siano le parole di un pazzo ma, anzi, di una persona brillante. Credo che i motivi del suo gesto estremo siano da ricercarsi nel suo lavoro piuttosto che nella sua condizione psichica.
    Fin da quando è stato ricoverato ha sempre mostrato una nitida consapevolezza, esponeva con molta chiarezza le sue assurde teorie e non cadeva mai nei farneticanti deliri di cui mi raccontasti. Era sempre molto garbato e arguto nelle sue argomentazioni e tutto sembrava fuorché pazzo. L’unica nota stonata in quel quadro era il profondo orrore che trasudava dai suoi discorsi. La spiegazione andava cercata nelle occulte letture in cui si dilettava il professor Rosenberg: non conoscevo, e tuttora non conosco, nessun uomo di scienza così profondamente ispirato dall’esoterismo e dalla magia. Mi suonava incredibilmente sbagliato pensare che un uomo di tale levatura fosse interessato a simili sciocchezze. Nonostante ciò le sue teorie cosmologiche erano supportate da una ferrea base di fisica e di matematica. Non mi reputo certamente un esperto del settore, ma non sono nemmeno un neofita, conosco quelle basi della materia che mi permettevano di capire la plausibilità dei suoi ragionamenti.
    In particolare il mio animo è rimasto profondamente inquietato dai suoi riferimenti a entità aliene alla nostra realtà dalle quali, a suo parere, dipendeva la nascita dell’universo. Più volte mi fece leggere i suoi appunti, fogli straripanti di formule e equazioni, per mostrarmi le prove delle sue teorie, ma la maggior parte di esse mi erano incomprensibili. Citava ripetutamente una formula che doveva ricavare per completare il suo lavoro, dato che fino a quel momento non aveva nulla per, cito le sue esatte parole, “far ingoiare il rospo ai miei sciocchi colleghi”. Per il primo mese i colloqui con il professore furono sempre cordiali. Dai toni accesi dal punto di vista della discussione, ma sempre tranquilli. Poi lentamente il suo atteggiamento cambiò: sembrava essere diventato impaziente. Durante le nostre sedute giornaliere passeggiava per il mio studio e s’interessava poco alla conversazione. Spesso farfugliava qualcosa a proposito di un’equazione che sembrava essere risolubile e ammettere una soluzione univoca. Ogni volta che si avvicinava a una finestra lanciava uno sguardo inquisitore verso il cielo e poi si ritirava, lontano dalla luce. Col passare dei giorni diventava sempre più silenzioso, fino al punto da rifiutarsi di parlare delle sue teorie dicendo semplicemente che prima o poi anche noi avremmo capito, che tanto tutto era segnato. Le infermiere mi dissero che non usciva più dalla sua stanza, in cui teneva sempre le persiane chiuse, e mangiava sempre meno, indebolendosi. La settimana seguente dovemmo trasferirlo al pronto intervento e nutrirlo tramite flebo. Sembrava quasi che avesse perso la volontà di vivere. Incuriosito da quell’inspiegabile cambiamento, frugai nella sua stanza e trovai il quaderno che gli era stato dato dopo il ricovero: era stato frequentemente adoperato e mostrava un’usura non indifferente. Le prime pagine erano molto ordinate e vi erano esposte le sue teorie e vari ragionamenti e ipotesi sull’argomento. Era tutto scritto in maniera chiara e con un impeccabile uso della lingua. Vi era anche una notevole quantità di formule matematiche che mi risultarono troppe ostiche da comprendere. Va esplicitato che sul quaderno non c’era nessuna data, ma associai quella prime pagine ai giorni dei nostri primi colloqui, quelli più accesi e dibattuti. Con il procedere della lettura mi accorsi che l’ordine andava sempre più velocemente degenerando. La scrittura diventava più fitta e confusa: parole e equazioni si alternavano senza soluzione di continuità e alle volte si accumulavano sui bordi del foglio. Vi erano diversi grafici ma erano stati coperti dalle altre scritte. Anche là si notava un estremo cambiamento nella personalità del professor Rosenberg, ma non si trovava nessuna indicazione del motivo. Le pagine caotiche e incomprensibili continuavano per quasi tutto il quaderno, fino a un punto in cui s’interrompevano all’improvviso. Non saprei dire se l’interruzione era sensata perché, a onor del vero, non avevo compreso nulla di ciò che vi era scritto. Dopo una decina di pagine bianche la scrittura riprendeva, ma in un’altra lingua! I caratteri erano filiformi, per cui mi ricordavano l’arabo e al tempo pensai appunto che fosse proprio quella lingua. Ora non ne sono più tanto certo e sono convinto che fosse un linguaggio estraneo alla nostra cultura, nulla che aveva a che fare con l’umanità, ma qualcosa che Rosenberg aveva imparato da antichi e orribili culti che aveva studiato. Come nella prima parte, anche là le parti scritte - assumendo che quei segni fossero una scrittura - s’intervallavano regolarmente a formule e simboli matematici. Il quaderno si concludeva con un’equazione - non la ricordo con precisione ma era terribilmente complicata - circondata da punti interrogativi e una strana frase in inglese: “Danzate e ballate! Danzate e ballate in Suo onore”; il suo senso potrai capirlo quando leggerai, se non lo hai già fatto, le sue ultime parole.
    Comunque, dopo una settimana di cure riprese le forze e poté tornare nella sua stanza, per cui riprendemmo le sedute. Quando gli chiesi il perché di quel suo cambiamento, non mi seppe rispondere e mi disse che non ricordava nulla di quanto fosse avvenuto nei giorni precedenti. Non ricordava né il suo improvviso mutismo né la sua inappetenza. Come se nulla fosse accaduto riprese a esporre nuovamente le sue assurde teorie. In parole povere, riprese la solita routine e continuò per tre settimane. Ormai mi ero convinto che il professor Rosenberg non fosse pazzo, ma solo un po’ eccentrico e che l’incidente che ti costrinse a farlo ricoverare solo una banale casualità, come lui aveva sempre affermato. Ammetto che quando gli infermieri vennero ad avvertirmi stavo preparando le carte per le sue dimissioni.
    Nulla più di sbagliato! Rosenberg aveva dato fuoco alla sua stanza. Il medico di turno aveva visto del fumo filtrare da sotto la porta e aveva subito chiamato la sicurezza. L’allarme antincendio non era suonato perché Rosenberg l’aveva manomesso. Quando entrarono nella stanza trovarono il paziente, circondato dalla fiamme, con le braccia al cielo che urlava frasi in qualche lingua sconosciuta. Mi dissero che sembrava stesse pregando. Un uomo della sicurezza aggiunse che aveva chiaramente sentito il professore pronunciare più volte la parola “Azathoth”.
    Avviai subito un’inchiesta interna per capire come un paziente di fosse procurato il necessario per provocare un incendio. Rosenberg ne era uscito indenne, e lo feci rinchiudere nella cella d’isolamento, soprattutto per la sua sicurezza. Là non c’era nulla che potesse usare per farsi male, solo mura imbottite.
    Il giorno successivo andai a parlargli perché ero curioso. Dal punto di vista clinico questo caso è stato uno dei più interessanti che ho avuto modo di seguire durante tutta la mia carriera.
    Mi trovai di fronte a un uomo completamente diverso. Il suo tono era sempre pacato e gentile, ma era sottilmente sarcastico e alle volte scostante. Quando chiesi le motivazioni del suo gesto mi rise in faccia e mi disse che ero troppo stupido per capire. Continuò a inveire, sempre molto compostamente ammetto, contro tutto e tutti: ce l’aveva con te, John, perché credeva che volessi appropriarti delle sue teorie; ce l’aveva con me perché lo ritenevo pazzo; ce l’aveva con tutto il mondo perché “gli uomini sono stupidi e si credono il centro dell’universo”; soprattutto, fatto molto interessante, odiava se stesso per aver elaborato la sua blasfema teoria. Continuava a ripetere che era stato un errore e che certi fatti andavano ignorati. Una frase particolare, che continuava a ripetere incessantemente, mi è rimasta in mente: “Non può essere giusto! Ho sbagliato, devo aver sbagliato!”
    Quando provai a interagire con lui per spiegargli che la scienza in sé è sempre positiva, mi aggredì. Non fisicamente, ovviamente. Il suo corpo era immobile e non rappresentava più i suoi sentimenti, come se non interagisse più con la mente ma fosse solo un guscio. Mi aggredì verbalmente con molta eleganza.
    Disse che ero uno sciocco ad abbandonarmi fiduciosamente nelle braccia della scienza, tutto quello che ella ci offriva non era che un ingannevole velo che copriva la vera natura della realtà: caos e orrore. In virtù delle sue teorie era meglio non porsi domande la cui risposta ci avrebbe fatto impazzire.
    Fu la nostra ultima conversazione: era la mattina del 23 giugno.
    Alla fine le sue convinzioni l’hanno portato al suicidio, ma mi domando se fosse veramente pazzo. E se invece le sue teorie fossero corrette e si fosse ucciso per via degli empi orrori con cui la sua mente è venuta a contatto? Come ti ho già detto, ero pronto a dimetterlo prima dell’incidente dell’incendio perché non dava nessun segno d’instabilità. Eppure all’improvviso ha fatto quel che ha fatto.
    Perché?
    Ripeteva sempre che la teoria era bloccata da un’equazione che non riusciva a semplificare, una formula che non riusciva a scrivere in eleganti termini confrontabili con altre grandezze note. Forse in cuor suo credeva che nei suoi calcoli ci fosse un errore e che le conclusioni fossero false. Forse questo lo teneva in vita: la speranza di poter confutare gli incommensurabili abomini che il suo genio aveva intuito.
    E se fosse tutto vero? Se avesse finalmente risolto quell’equazione dimostrando che quegli orrori di cui parlava esistono veramente?
    Mi hai detto che al tuo centro non ha lasciato niente di scritto, mentre il quaderno che usava qua all’istituto è andato perduto nell’incendio. Da un lato non potremo mai sapere se avesse ragione o no, ma d’altra parte abbiamo la certezza che nessuno potrà riprendere quelle ricerche abominevoli. Inoltre non sapremo mai se la sua morte è dipesa da una lucida motivazione derivante dai suoi calcoli oppure semplicemente se la pazzia abbia superato i limiti di sopportazione.
    Eppure i suoi discorsi di quella mattina erano lucidi e razionali. Non era un pazzo a parlare ma un uomo, uno scienziato, che aveva intuito qualcosa di terribile, così terribile da fargli perdere fiducia nella scienza. Da fargli odiare la Natura stessa! Quali ripugnanti mostruosità l’hanno così terrorizzato da farlo arrivare a piantarsi una penna nel collo?
    Dentro di me sento che Rosenberg non era pazzo, probabilmente con il suo genio era avanti coi tempi, troppo avanti. Possa Iddio perdonarmi ma credo che avesse ragione. La sua storia mi ha svuotato di ogni iniziativa, ci sono cose che gli uomini non dovrebbero conoscere. Non ha senso proseguire la ricerca delle nostre origini se dobbiamo scoprire che non c’è altro che caos.
    Non voglio credere che non siamo altro che un rigetto dei piani di entità primeve, ma sento che è così. Rosenberg mi ha convinto, sono certo che ha risolto la sua equazione! Che motivazioni ci sono per continuare a vivere in un mondo che da un momento all’altro potrebbe cessare di esistere? Credo che la vita non abbia più senso.
    Sono molto scosso.
    Saluti,
    Peter.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Altro / Vai alla pagina dell'autore: Littlefinger