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Autore: Callie_Stephanides    01/02/2013    15 recensioni
[Thor/Loki] Sconvolto dalle parole di Frigga, Loki sceglie di abbandonare Asgard e, soprattutto, Thor: se restasse al suo fianco, infatti, il figlio di Odino non potrebbe mai essere felice. Tornato su Jotunheim solo per morire, tuttavia, l’erede rinnegato di re Laufey diventa il cuore di una nuova strategia di guerra. E di pace.
(...) “Symrer.”
“È bello. Ti si addice.”
Loki si puntellò sul gomito. “Come fai a dirlo?”
“Anch’io ho pensato a un fiore, quando ti ho toccato.”
Loki schiuse le labbra, ma non riuscì a rispondere.
“Chi te l’ha dato doveva amarti molto, per vederti come sei.” (...)
[ATTENZIONE: questa fanfiction s'inserisce nell'universo narrativo di Anemone. La comprensione degli eventi raccontati è dunque subordinata alla lettura della one-shot succitata e del sequel, But never doubt I love]
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Sif, Thor, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Incest, Mpreg
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Fiorirà la neve'
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Fictional Dream © 2013 (01 febbraio 2013)
Thor © Marvel Comics, Marvel Studios, Paramount Pictures.
Questa fanfiction è il tributo di una fan e non rivendica alcun diritto sull’opera citata, né persegue finalità lucrative. Non si ritiene infranto alcun copyright o altro diritto depositato.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright dell’autrice (Callie Stephanides - Fictional Dream).

*

Mais les yeux sont aveugles. Il faut chercher avec le cœur.
― Antoine de Saint-Exupéry, Le Petit Prince



1. Ti ho trovato

Dei tanti significati che può assumere il ritorno, Loki scelse quello più desolato, estremo e spietato come il destino cui l’aveva avviato una nascita maledetta. Su Jotunheim, infatti, tornò a morire: voleva farlo là dove Fenrir era caduto, in una piana di neve e roccia che gli aveva regalato il giorno più triste, eppure una speranza che valeva un’intera vita.
Si era venduto a un’illusione puerile e la disperazione con cui percorse il Bifrost incontro al niente ne rappresentava il meritato castigo.

Thor ti ama. Come potrebbe altrimenti?

Le parole di Frigga gli avevano aperto gli occhi e spaccato il cuore: se fosse rimasto accanto al principe di Asgard l’avrebbe rovinato per sempre, poiché nessuno avrebbe mai creduto a una scelta. I più benevoli avrebbero pensato a un incantesimo d’amore e li avrebbero guardati con compatimento. I malevoli, invece, avrebbero forse colto l’occasione per contestare il diritto di Thor a essere re. Come fidarsi, in fondo, di chi concede a un mostro di raggirarlo?

Se lo ami, lascialo andare.

Accettò il consiglio.
Nessuno, tuttavia, avrebbe anche potuto imporgli di vivere un altro giorno: non possedeva più nulla, dunque era pronto a diventare niente.

*


Jotunheim era il deserto che ricordava, una distesa monocroma che a fatica beveva qualche raggio stento della stella; eppure tutto gli pareva diverso, perché aveva imparato a guardare con occhi nuovi e dei vecchi restavano appena le lacrime. Strizzò più volte le palpebre per non lasciarle cadere. Alle sue spalle, l’iridata via degli Æsir si dissolse in nebbia.
Casa, pensò. Sei tornato a casa.
Il vento del settentrione lo strinse in un gelido abbraccio e gli strappò un sussulto. Per la prima volta dal giorno in cui era nato, si accorse di sentire il freddo pungere la pelle. Sorrise, ma era una smorfia tragica: a mancargli, un tempo, era la consapevolezza del calore; ora, invece, a vincerlo era la certezza di non poter dimenticare.
Fiutò l’aria, alla ricerca di una traccia che guidasse la sua marcia. La pista sapeva di ghiaccio e muschio marcio. L’odore soffocante degli incendi che appestava ogni luogo ai tempi della Grande Guerra era svanito. In cielo, a ovest, uno stormo d’anatre selvatiche sfregiava la volta cupa.
La vita tornava ad appartenere alla terra che l’aveva cresciuto: Fenrir ne sarebbe stato felice.
A Loki, tuttavia, non importava più.

*


Lo chiamarono Gríma (1), perché notte avrebbe veduto dal primo all’ultimo giorno di una vita che – così almeno si auguravano i vecchi – non sarebbe durata abbastanza da diventare un peso. Se a Brant (2), ultimo villaggio degli avamposti meridionali oltre la cinta di Útgarða – una dozzina di capanne di paglia e legno, terra dura e tanta fame – non lo gettarono dal dirupo, era solo perché non c’erano stati altri nati quell’anno e un cucciolo cieco (così suggeriva il buonsenso) era comunque preferibile all’estinzione della razza.
La faglia di Brant segnava il confine tra le terre di Þrymheimr e quelle di Glæsisvellir, ma costituiva soprattutto un’ideale frontiera politica: le genti che abitavano le lande del meridione, infatti, osservavano un atteggiamento di cauta neutralità nei confronti della guerra. I più consideravano Laufey un pazzo sanguinario, che aveva esaurito le risorse di una terra già poverissima per inseguire un’ambizione scellerata; poiché, tuttavia, il buonsenso è sempre meno popolare della crudeltà, si contentavano di una fronda silenziosa: nessuno sentiva il bisogno di nutrire lupi e corvi con budella e occhi marci.
Gríma era l’ultimo di una famiglia di cacciatori che il reclutamento coatto aveva trasformato in soldati e poi condannato a una morte prematura. Lo allevarono i vecchi del villaggio, pregando ogni giorno le Norne di reclamare quel figlio mal riuscito della neve perché non dovessero continuare a sfamarlo. Smisero solo intorno al suo decimo anno, quando Gríma ammazzò il primo bufalo quadricorno di una serie destinata ad alimentare una fama leggendaria.
“Come puoi, se non vedi niente?” gli chiese il venerabile Padda, decano della comunità.
Gríma sorrise. “No, io vedo bene, onorato padre, ma non con gli occhi.”
Aveva il fiuto di un leone d’inverno e l’udito più fine di un lupo. Riconosceva volume e peso della preda dall’impercettibile scricchiolio che produceva affondando nella neve; se aggredito, all’aria domandava d’indicargli la posizione dell’avversario. All’alba dei centoquindici anni, misurava dodici piedi e nessuno pareva più ricordare le origini di un nome indossato come una bandiera: era Gríma poiché chiamava giorno la notte e non temeva il buio.

*


Loki Laufeyson cominciò a morire molto prima di raggomitolarsi nel buco in cui aveva già vissuto gli ultimi giorni da Jotun, arreso alla fame, al freddo, alla cancrena del cuore e di mille ferite riaperte. Se qualcuno glielo avesse chiesto, anzi, avrebbe condiviso volentieri quanto imparato in quei mesi: non tutti avevano la fortuna di spegnersi una volta e per sempre; c’era anche chi era costretto a respirare ogni giorno la propria agonia, maledicendo una vita più crudele di mille morti.
Loki cominciò a morire non appena abbandonò Asgard, lasciandovi il cuore che aveva regalato a Thor Odinson – e senza cuore, no, non vive nessuno. Nemmeno un mostro dagli occhi verdi.

La radura dell’ultima imboscata non conservava traccia di Fenrir: non un brandello di pelliccia, non un osso. Nella sua immaginazione, il lupo che chiamava madre sarebbe stato ancora lì ad aspettarlo, freddo e immobile in un deserto bianco – un’illusione che lo costrinse a sentirsi stupido e patetico oltre ogni dire.
Si vive e si muore soli, pensò e cercò con lo sguardo la frattura nella roccia che conduceva all’angusta grotta in cui il suo corpo si sarebbe raffreddato. Dalla feritoia – lo ricordava bene – s’intravedeva il cielo.
Quello di Jotunheim era candido o grigio, ma l’agonia l’avrebbe tinto d’azzurro e reso comunque felice.

*


Gríma scelse un lupo come compagno di vita intorno ai cinquant’anni: raccolse il primo per caso, spinto dal rimorso d’avergli ammazzato la madre; continuò per abitudine, solitudine e forse persino simpatia per una bestia che gli somigliava, poiché era forte, indipendente e mai servile. Se paragonata alla sua, la vita di quei leali gregari era un battito di ciglia, eppure ne accettava la morte come un pegno d’amore: di ciascuno ricordava il nome, la consistenza del pelo, l’umidore della lingua.
A ciascuno aveva riservato una tomba lungo la faglia, sebbene i vecchi scuotessero il capo e gli ricordassero come la pietà fosse tanto più virtuosa quanto prossima a uno specchio.

Gríma amava i lupi più degli Jötnar?

Gríma aveva il buonsenso d’evitare risposte che non sarebbero piaciute a nessuno.
Viveva ai margini del villaggio. Non conosceva il proprio viso, ma aveva l’udito fine e sapeva quanta repulsione suscitassero le sue iridi depigmentate e lo sguardo cieco.
“Ha occhi da lupo,” diceva qualcuno.
“È un figlio dei lupi.”
Su Jotunheim, come ad Asgard, dare a qualcuno del ‘figlio di lupo’ era appena più generoso che chiamarlo cagna (3). Se di padri non ne avevi, però, imparavi ad accontentarti e a fingere indifferenza. Accompagnarsi a un lupo, soprattutto, non mancava di procurarti qualche vantaggio: Leiptr, il giovane maschio che lo seguiva ovunque in quei giorni, sapeva riconoscere al primo sguardo il ghiaccio cedevole, stanava le prede che trascinavano altrove l’agonia e scoraggiava persino i ladri più abili. In caso di tormenta, inoltre, poteva trasformarsi in un’eccellente bestia da tiro e permettergli di riparare in un luogo sicuro prima che la pelle vetrificasse.
Leiptr aveva due anni, una pelliccia candida e occhi quasi bianchi; poteva immaginarlo, almeno, da come lo chiamavano tutti a Brant: Íss Grímason.

Ghiaccio figlio della Notte.

Suonava bene.


Quella mattina la neve pareva cenere, tanto sottile e fitta cadeva; Gríma se la sentiva sulla pelle, impalpabile come polvere e mille volte più fredda.
Levò il viso e annusò l’aria: il Grande Freddo era ormai imminente, così la fame che accompagnava la stagione delle tormente e delle notti infinite. Il fiato di Leiptr gli intiepidiva la pelle nuda del polpaccio. Seguendo un’abitudine ormai consolidata, si piegò sul lupo e ne strofinò la testa.
“Meglio muoversi in fretta,” mormorò. “La migrazione volge al termine: presto non ci saranno più capi da cacciare.”
Leiptr gli comunicò la propria soddisfazione con un paio di latrati secchi, deflagranti nel silenzio dell’alba. Gríma verificò la dotazione del tascapane e strinse le fibbie che gli assicuravano arco e frecce alla schiena. Le dita si muovevano agili, leggendo punte e spigoli. Il coltello aveva la lama scheggiata in più punti, ma era ancora una buona arma. Aveva selci affilate in abbondanza e corde di budello, carne secca per due giorni e una spessa pelle d’orso a proteggergli il capo e le spalle. Immobile al suo fianco, il lupo seguì quieto l’ispezione, finché, con un fischio, non lo invitò a correre.
“Chi avrà l’onore della prima preda, Leiptr?”
Gli rispose un ululato festoso, poi solo un’eco stenta: cominciava la caccia e l’intelligenza naturale del compagno gli ricordava come il fiato non andasse sprecato invano.
Non quando vivevi una vita in cui ogni respiro poteva essere l’ultimo.

Alla piana delle paludi arrivarono che la stella era già alta nel cielo, sebbene la spessa coltre di nubi ne riducesse la luce a un impercettibile barbaglio; lungo la strada aveva ucciso tre folaghe, che pendevano ora inerti dalla cintura, e un giovane orso, la cui carne era troppo amara perché potessi goderne, ma che aveva grasso in abbondanza per ammorbidire le pelli e tirar fuori qualche candela. L’aveva scuoiato con cura e abbandonato la carcassa alla fame delle fiere di Jotunheim: non dubitava che i leoni d’inverno avrebbero apprezzato, come pure le gazze marezzate che, cibandosi di carogne, erano fedeli compagne dei cacciatori.
L’aria, ferma e gelida, gli strappò una smorfia scontenta, poiché solo il vento poteva consentirgli di fiutare la presenza di una preda e scegliere una corretta strategia di caccia. Senza odori, invece, era costretto a ricordare la soffocante prigione di una notte perenne.
Batté due colpi contro la coscia: Leiptr, docile, si portò subito al suo fianco. “Guarda per me,” sussurrò. “Riconosci un branco?”
Il lupo liberò un debole uggiolio e abbassò le orecchie.
“Molto bene… Allora spingi il maschio più grosso nella mia direzione e attento a non farti incornare.”
Leiptr gli leccò la mano e scivolò via rapido e silenzioso come di consueto.
Nulla di quanto seguì, tuttavia, rispettò il rassicurante copione delle antiche abitudini.
Nulla.

Gríma attese a lungo il ritorno del lupo, poi, quando gli parve evidente che Leiptr non avrebbe assecondato il suo bisogno di riaverlo al proprio fianco, abbandonò con cautela il terrapieno su cui era rimasto in attesa.
Non c’erano stati né latrati, né il bramito caratteristico dei quadricorni braccati; non fiutava sangue, né il fetore acido della paura: quale fosse la ragione dell’inspiegabile ritardo del lupo, non era imputabile a un incidente di caccia.
“Leiptr!” chiamò a gran voce, battendo in terra la picca. “Leiptr?”
Gli rispose poco dopo un uggiolio inquieto, la nota confusa e stridula con cui, da cucciolo, manifestava la propria insicurezza.
“Che hai visto?” domandò, mentre procedeva incontro al suono.
Il lupo si drizzò sulle zampe posteriori e afferrò per un lembo la pelliccia che gli scivolava lungo i fianchi, strattonandola con energia.
“Cos’è che vuoi dirmi, eh?”
Leiptr ringhiava e raspava la terra, tradendo una frustrazione rabbiosa che conosceva bene.

Un lupo senza parole e uno Jotun senza sguardo: difficile anche solo immaginare un confronto più improbabile.

“Guidami, allora… Fammi toccare.”
Leiptr, per tutta risposta, riprese a tirarlo per la pelliccia, finché la consistenza del suolo sotto i suoi passi non mutò: benché i suoni continuassero a raggiungere ovattati il suo orecchio attraverso il filtro dello spesso manto nevoso, riusciva ora ad avvertire una debolissima eco.
“Roccia… Roccia cava,” grugnì, prima d’inginocchiarsi e tastare il terreno.
Il lupo gli menò un paio di musate impazienti, poi gli chiuse con attenzione il polso tra le fauci e lo strattonò sulla destra. Gríma si mosse carponi secondo la direzione indicatagli, sino a incontrare il vuoto.
“C’è un’apertura. Una tana? Hai trovato una tana?”
Leiptr lo anticipò con un agile balzo.

Una renna ferita?
Un vecchio maschio in agonia?

Tese la mano, certo d’incontrare il pelame corto e setoloso di una facile preda, ma le dita lo smentirono.
Era sottile. Era liscio. Era gelido. Era…
Dopo il polso cercò la mano, poi risalì lungo un braccio esilissimo: era tanto gracile che sembrava un miracolo respirasse ancora. A valutare le ossa e la lunghezza delle gambe, non poteva avere più di dieci, quindici anni.

Un cucciolo?
Chi può aver abbandonato un cucciolo in questo deserto?

Dal brontolio chioccio che avvertì, Leiptr aveva ripreso a leccarlo.
“Bravo, tienilo al caldo,” disse, poi si sfilò di dosso la pelliccia e la usò per coprire il giovanissimo Jotun.
“Torniamo a casa, prima che il tempo peggiori. Di carne secca ne abbiamo comunque in abbondanza.”
Al sicuro tra le sue braccia, il cucciolo sollevò a fatica le palpebre.
Se avesse posseduto uno sguardo, Gríma avrebbe scoperto che aveva gli occhi verdi.

*


“Hai preso un altro lupo?”
Matr (4) dello spaccio accettò con soddisfazione una bella pelle di martora e gli consegnò un barilotto di latte di cerva.
“No, perché?”
“Hai avuto un figlio da qualche straniero, allora? Di solito…”
Gríma si strinse nelle spalle e gli regalò un sorriso enigmatico. “Non credo che siano affari tuoi, Matr. Non ne ricaveresti comunque niente.”

Erano trascorse ormai due settimane dal giorno in cui aveva trovato il cucciolo: se il tempo era peggiorato con ammirevole costanza, altrettanto poteva dire delle condizioni di quella povera creatura. Nonostante le cure prestate e l’affettuosa dedizione di Leiptr, che non ne abbandonava mai il capezzale, non aveva ancora ripreso conoscenza; il suo corpo, consumato da una febbre violenta, era scosso da un tremito continuo, né, a dispetto della spessa pelliccia d’orso in cui l’aveva avvolto, la situazione accennava a migliorare.
Poteva chiedere l’intervento del vecchio Orka, che da generazioni curava gli Jötnar di Brant, ma l’istinto gli suggeriva di temporeggiare. C’era qualcosa di anomalo in quel ritrovamento; qualcosa che passava per la pelle e per l’odore di un cucciolo che non era più certo fosse tale.
L’aveva sentito, almeno, e le sue dita non tradivano mai: si era già accoppiato e ben più di una volta.
Uno Jotun dell’età apparente di dodici anni non avrebbe dovuto possedere un simile istinto.
Spazzato dal vento, il villaggio sembrava deserto. In lontananza, ad aguzzare la vista, ti avrebbe schiaffeggiato lo splendido orrore della faglia, cicatrice aperta sulla superficie altrimenti liscia e immobile della piana; Gríma, tuttavia, non aveva niente che potesse distrarlo da un costante e cupo rimuginare.
Il cucciolo senza nome aveva perduto l’innocenza, ma non era l’unica anomalia: il capo, infatti, non riusciva ruvido al tatto come quello di tutti gli Jötnar, poiché mancava delle escrescenze cornee tipiche della razza. Alle corna larghe e piatte, che costituivano il vanto dei maschi più forti, sostituiva una morbida criniera, simile alla pelliccia di una volpe. Anche la forma del viso, la struttura delle membra non rispondeva ai canoni di Jotunheim: era tutto più affilato, più fragile, eppure più armonioso. Per la prima volta sorprendeva le proprie dita a tracciare i contorni di qualcosa che sfuggiva all’esperienza e alla memoria della pelle.

“Leiptr?”
Il lupo lo accolse sulla soglia della capanna. Le braci erano ancora vive e l’ambiente intriso di un invitante odore di pino.
Gríma si mosse con sicurezza tra gli arredi e raggiunse il giaciglio di paglia e pellicce su cui languiva il giovane Jotun.
Perché l’aveva raccolto? Non aveva una risposta da dare; una ragione, almeno, che gli sembrasse valida. Gli Jötnar non erano pietosi, poiché vivevano abbastanza a lungo da apprezzare il buonsenso della natura: il futuro è dei forti, i deboli devono farsi da parte. Gríma per primo aveva rivendicato il proprio diritto a esserci mordendo e combattendo, né aveva mai pensato di contestare l’opinione dei vecchi – che un cieco fosse carne morta, cioè – poiché in essa coglieva un’innegabile verità. Era un cacciatore, in fondo, e i cacciatori predano i capi deboli.
Eppure non aveva accettato che quel cucciolo morisse.
Tese la mano e gli accarezzò la guancia. Bruciava come di consueto e, come sempre, non reagì al contatto. Leiptr lo allontanò con un paio di musate, rivendicando il privilegio di scaldare il cucciolo.
“Attento a non soffocarlo, grosso come sei,” rise e poi bollì un po’ di latte.

*


La prima volta in cui riprese conoscenza, Loki non rimase lucido abbastanza a lungo da realizzare d’essere ancora vivo. A confortarlo, infatti, una lingua ruvida che ricordava bene, come il tepore di una pelliccia densissima, che sapeva di cane e d’inverno.
“Madre,” sospirò, accettando di buon grado un’energica lappata.
Quello doveva essere il mondo che l’aspettava al di là della vita: una terra di ombre e di pace, in cui ritrovare Fenrir e i giorni in cui la solitudine non gli pesava.
Gli occhi chiusi, la testa pesante, si lasciò cullare dal respiro quieto del lupo sino a sprofondare di nuovo nel sonno.
Quando si destò per la seconda volta, tuttavia, il suo sguardo naufragò in due pallidi laghi celesti e non riuscì a reprimere un grido inorridito.
“Tranquillo… Nessuno vuole farti del male,” disse il mostro, premendogli sulla fronte un palmo gelido.
Loki rimase immobile, pietrificato da una duplice evidenza: non solo non era riuscito a morire per l’ennesima volta, ma era caduto nelle mani del popolo che più disprezzava al mondo.
Il suo.
“Ti senti meglio? Riesci a…”
Per tutta risposta, Loki artigliò al volto lo Jotun, benché gli costasse fatica persino respirare. Il mostro si ritrasse di scatto, incredulo più che incollerito. Alle sue spalle, un grosso lupo bianco scoprì i denti e liberò un brontolio minaccioso.
“Buono, Leiptr. Non è successo niente.”
Loki si guardò intorno, il fiato corto e il cuore in gola. L’ambiente in cui si trovava non ricordava i fasti di Asgard, né lo squallore che aveva segnato i suoi primi anni di vita. C’era un grosso braciere a riscaldare l’aria e le pareti erano coperte da pelli conciate. Su un tavolaccio languivano i resti di un pasto spartano: carne secca e un pane quasi nero.
“Non devi avere paura.”
Si avvolse nelle cocche della pelliccia, imbarazzato da una nudità che lo faceva sentire ancora più scoperto e vulnerabile.
“Perché sono qui?”
Il mostro sorrise. “Ti ho trovato.”
Era un sorriso caldo.

2. Indimenticabile

“Voglio parlare con mio padre!”
Sif roteò gli occhi e rinsaldò la presa attorno alla sua vita. “Dovresti almeno tenerti in piedi per…”
Thor tentò di divincolarsi, ma una fitta lancinante gli attraversò l’addome e gli strappò un uggiolio penoso.
“Come volevasi dimostrare…”
Thor strinse i denti e cercò il sostegno della parete. Potevano anche scorticarlo vivo, a quel punto, ma dubitava di poter sperimentare un dolore più forte di quello che l’aveva travolto non appena aveva compreso d’essere stato abbandonato.

Loki non era più tornato a trovarlo.
Loki era scomparso.

“Lady Eir ha detto che non devi muoverti dal letto, finché ogni ferita non sarà guarita: se non te lo ricordassi, sei stato a un passo da Hel.”
Ci sono dentro, pensò. Senza di lui, io…
“Ragiona! Cosa ti aspetti di ottenere presentandoti davanti a Odino in queste condizioni? È già un miracolo che non ci abbia punito per aver disobbedito.”
Thor stirò le labbra in una smorfia ostile. “Per disobbedire, uno dovrebbe almeno riconoscere la giustizia degli ordini impartiti, e tu ne hai vista?”
Sif rimase in silenzio.
“Sono stato un idiota,” mormorò, prima di lasciarsi scivolare in terra.
“Thor…”
“Voleva dirmi addio e me ne sono accorto tardi, come sempre! Era disperato ed io…”
Sif gli si inginocchiò davanti e lo abbracciò. “Loki è orgoglioso fino al punto d’essere stupido… Non sei stato forse tu a confidarmelo?”
Thor non riuscì a sostenere lo sguardo della guerriera.
“Posso dirti solo questo, e sai che non sono in grado di mentire: se è quello che vuoi, lo ritroveremo. Ti aiuterò, perché ti amo più della mia vita e perché Loki è diventato la tua; lo desideri al punto che non posso nemmeno odiarlo, tanto è parte di te.”
Thor strizzò con forza le palpebre. Una piccola lacrima gli solcò lo zigomo, per morire sulle labbra di Sif.
“Promettimi solo che me lo lascerai schiaffeggiare sino a spellarmi le mani… Guarda come ti ha ridotto…”
Thor accennò un sorriso. “Dopo di me.”
“Queste sì che sono le parole di un principe.”

*


“Ti ho sentito piangere fino all’alba.”
Loki si volse sul fianco.
Gríma – così si chiamava lo Jotun cui doveva la vita – gli risparmiò almeno l’inquietante vacuità del suo sguardo.
“No, non è vero,” mentì.
L’altro scosse il capo e rimase in silenzio. Loki chiuse gli occhi.

Sei diventato un vigliacco.
Sei un bugiardo patetico.


Si era svegliato nel cuore della notte, madido di febbre e consumato dalla sete. Le braci accese proiettavano ombre pallide sulle pareti. Leiptr aveva percepito la sua inquietudine e gli aveva leccato il viso; l’aveva allontanato con fastidio, catturato da un quadro che aveva riaperto in un sol colpo tutte le ferite della memoria.
Gríma riposava in terra, accanto al fuoco; gli aveva ceduto il proprio letto, offerto una casa, salvato una vita che non valeva più niente.

È così che mi ha visto Thor, la prima volta? Un mostro dalla pelle bluastra, raccolto davanti a un pugno di tizzoni?

Un’onda travolgente di nostalgia e tristezza l’aveva investito, riempiendogli gli occhi di lacrime.
Si era tirato la pelliccia fin sul capo, per soffocare i singhiozzi, ma Gríma aveva le orecchie di un lupo e, a quanto pareva, il sonno molto leggero.
Aveva pianto davvero tutta la notte; pianto al punto da svegliarsi con la gola ulcerata e gli occhi avvelenati dal sale. Non si era mai concesso un abbandono tanto miserevole, nemmeno quando era il bambino che sognava la madre di un altro. In quei giorni, tuttavia, non possedeva abbastanza da poter soffrire una perdita: precipitare dal cielo, invece, ti ricordava l’insostenibile fragilità d’ogni castello in aria.

“Mi piacerebbe chiamarti per nome.”
Gríma aveva un timbro piacevole, la cadenza lenta di chi asseconda solo il proprio ritmo. Era taciturno e questo aveva concorso a rendere, se non piacevole, almeno sopportabile la convivenza; inoltre evitava di fargli domande stupide e non poteva leggergli la disperazione in viso.
“Perché?”
Tornò a guardarlo.
Gli occhi ciechi dello Jotun vagavano nel vuoto; le sue dita, invece, intrecciavano con incredibile rapidità una rete da uccellagione.
“Tutti devono averne uno, per sapere chi sono.”
Hai scelto l’interlocutore sbagliato, pensò. “Symrer (5).”
“È bello. Ti si addice.”
Loki si puntellò sul gomito. “Come fai a dirlo?”
“Anch’io ho pensato a un fiore, quando ti ho toccato.”
Loki schiuse le labbra, ma non riuscì a rispondere.
“Chi te l’ha dato doveva amarti molto, per vederti come sei.”
Loki si rannicchiò tra le coltri e morse il pugno sino a lacerare la carne, pur di reprimere un singhiozzo disperato.
Un giorno, forse, avrebbe ripreso a piangere dentro, in silenzio e nell’ombra.
Non era ancora quel giorno, tuttavia.
Non si era ancora asciugato abbastanza.

Gríma completò la rete senza una parola, poi, altrettanto silenzioso, si sdraiò al suo fianco e lo strinse a sé.
Per quanto gelido fosse quel corpo, Loki si accorse di non sentire più freddo.

*


“Cos’è che ha combinato?”
Sif sgranò gli occhi incredula. Hogun, per tutta risposta, le indicò Himinbjörg. “Domanda a Heimdall, se non ti fidi, ma ti assicuro che la nuova non ti piacerà più di quanto non renda contento il sottoscritto.”
Sif slacciò le fibbie della spada e la lanciò in un angolo della sala.
Volstagg e Fandral evitarono cauti qualunque apprezzamento.
“Su Midgard… A fare che, di grazia?”
“Il mercenario.”
Ogni replica le morì in gola.
“Sarebbe bello chiamare in conto una burla, ma è la triste verità. Abbiamo un principe degradato a tirapiedi d’uno di quei ridicoli, mortali feudatari da cacatoio. Heinrich der Löwe (6), lo chiamano. Indovina chi gli arma il braccio?”
“E Odino gliel’ha concesso?”
“Odino accetterebbe qualunque compromesso, pur di togliersi di torno chi ci ha quasi fatto cadere il cielo in testa.”
Sif trasse un profondo sospiro. “Dovremmo raggiungerlo… È pur sempre…”
Hogun scosse il capo. “Se ci avesse voluto con sé, non avrebbe esitato a domandare.”
“Thor non è abbastanza lucido da misurare opportunità e rischi.”
Voltagg manifestò il proprio disappunto con un gran rutto. “Thor deve farsela passare… E se per superare la pena di un cuore infranto gli toccherà ammazzare pidocchi o beccarsi lo scolo dai midgardiani, non saremo noi a impedirglielo.”
“Be’… Magari lo scolo…” mormorò Fandral.
Sif, tuttavia, non ascoltava già più.

Note:
(1) In norse antico è uno dei modi usati per indicare la notte.
(2) In norse antico, dirupo, precipizio.
(3) Su questo cliché infamante della letteratura norrena, vi rimando a una scheda assai esaustiva.
(4) In norse antico, pasto.
(5) Anemone in norvegese.
(6) Enrico il Leone, soprannome di Enrico XII di Baviera. Secondo la cronologia di Anemone, Thor è nato nell’anno cristiano Novecentonovanta; poiché ha nella storia circa centocinquanta anni, gli eventi qui richiamati riferiscono alla Crociata dei Venedi degli anni quaranta del Millecento.

   
 
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