NOTTE IMPOTENTE, NOTTE GUERRIERA
Dal diario di Frank Iero, 20 settembre 2017
Fanculo
anche queste dannate pillole! Ci stiamo rompendo la testa, io e il
Dottore, e non siamo ancora arrivati da nessuna parte. Mi chiedo se
davvero riuciremo a creare la ricetta della pace racchiusa in una
pillola bianca. Può davvero essere così facile? Dalla fatica che
stiamo facendo per sintetizzare i farmaci sto arrivando a pensare che
non lo sarà affatto.
Frank
chiuse il quaderno con stizza, gettandolo malamente nel cassetto che
poi chiuse a chiave. Non voleva che il Dottore pensasse che fossero
appunti e li leggesse inavvertitamente. Non voleva dare l'impressione
sbagliata; la B/L aveva bisogno di gente di cui fidarsi, soprattutto
per un compito delicato come il suo.
Si
strofinò gli occhi stancamente, sospirando. Erano mesi che stava
lavorando sulle pillole, anche se solo da poche settimane gli erano
state assegnate delle vere e proprie cavie da testare. Inizialmente
aveva pensato che fosse perché Il Dottore era certo di essere
arrivato a un punto risolutivo, e lui non si era sognato di
contestare. Era solo un assistente. Ma poi gli era diventato chiaro
che in realtà non erano in questa Casa di Riabilitazione perché
erano vicini alla vittoria, ma al contrario, proprio perché erano a
un punto morto e sperimentare sui prigionieri poteva dare quella
spinta di cui loro avevano un disperato bisogno.
E
quando lo aveva capito, aveva anche compreso perché fosse il Dottore
a capo del progetto, e non lui. A lui non sarebbe mai venuto in mente
di usare i prigionieri non come cavie per un farmaco quasi perfetto,
ma come strumenti di creazione. Il Dottore era davvero una persona
geniale, sotto certi punti di vista.
Si
alzò dalla sedia di plastica grigia, non prima di aver dato
un'occhiata allo slogan della B/L impresso come SreenSaver sul suo
Computer.
Keep
Smiling.
Lo
rassicurava sempre. Non c'era niente di cui preoccuparsi, la B/L
avrebbe pensato a tutto, li avrebbe tenuti al sicuro.
Niente
più guerre atroci, niente più persone care morte, niente più Jamia
per uomini che si sarebbero poi trovati distrutti alla loro perdita.
La
gente ne aveva un disperato bisogno, lui ne aveva
un disperato
bisogno.
Se
la Scarecrow non lo avesse assunto come Assistente del Dottore
probabilmente sarebbe impazzito.
Si
diresse con rinnovata decisione verso la porta che si aprì
automaticamente. Ci sarebbero arrivati. Avrebbero trovato la ricetta
per la felicità e non ci sarebbero state più Jamia da seppellire e
da piangere.
Lui
ci credeva con tutta la forza e la passione che aveva sempre messo in
ogni cosa che faceva, dal suo lavoro come ricercatore farmacologico
prima della guerra, al suo lavoro come assistente del Dottore adesso.
Attraversò
i corridoi bianchi, era tutto di un bianco accecante lì, quasi in
contrasto con i prigionieri che vi erano rinchiusi, animali che
avevano commesso i crimini più atroci e adesso sarebbero serviti
finalmente a qualcosa. Non avrebbero dato più la morte, ma la vita,
espiando le loro colpe. In effetti il bianco non era un colore
appropiato, era troppo puro, troppo luminoso per loro. Il bianco si
doveva meritare.
Camminò
velocemente per i larghi corridoi, superando le camere di detenzione
e arrivando velocemente al laboratorio, dove il Dottore stava ancora
lavorando al microscopio.
Rimase
in rispettoso silenzio, aspettando che il Dottore lo notasse,
reprimendo il brivido di impazienza quando l'uomo lo ignorò.
Doveva
essere paziente, solo le bestie non sapevano domare i loro istinti.
«È
tardi Frank, va pure a dormire» Disse finalmente l'uomo, alzando lo
sguardo dal microscopio per puntarlo su di lui. Era uno sguardo fermo
e rassicurante, lo sguardo di chi sapeva sempre cosa fare e come
risolvere le situazioni scomode.
«Non
vuole una mano qui? Posso...»
Lo
interruppe un cenno infastidito. Si morse la lingua, cercando di non
mostrare emozioni. Doveva essere ubbidiente. Questa, di tutte le cose
che gli erano richieste alla Scarecrow, era la più difficile.
Jamia
era solita a dire che lui non avrebbe mai ubbidito a nessuno, nemmeno
a Dio in persona.
«No
Frank. Fa come ti ho detto. Qui finirò presto e domani voglio che tu
testi nuovamente il farmaco. Ti ho lasciato tutti i dati e le schede
da compilare pre e post intervento.»
Frank
abbassò la testa, ubbidiente. Non gli piaceva testare i farmaci, o
meglio, i tentativi di farmaci, con esiti a volte davvero disastrosi.
Era faticoso convicere i prigionieri a collaborare laddove vi era
richiesto ed era nausenate avere a che fare con loro.
«C'è
un particolare soggetto che voglio che tu utilizzi, ti ho lasciato
tutti gli appunti.»
Frank
aggrottò le sopraciglia. Era strano che il Dottore richiedesse un
particolare campione, di solito non gli interessava particolarmente
chi stava testando, erano i risultati quelli che contavano, non i
campioni.
«Posso
chiedere come mai?» chiese, cercando di mantere il tono di voce
basso e rispettoso.
Il
Dottore smise di lavorare con le provette e lo guardò, soppesandolo,
decidendo chiaramente quanto poteva dirgli.
«È
un soggetto particolarmente violento » e il tono definitivo mise
fine alla conversazione.
Fece
un cenno del capo in segno di saluto e uscì, digitando il codice per
bloccare nuovamente la porta.
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Dagli appunti di Frank Iero, 25 settembre 2017.
Il
soggetto si presentava rabbioso e ingiurioso, ho avuto bisogno di due
guardie per trascinarlo fuori dalla camera. L'ho dovuto legare per
procedere. Dopo diverse scariche elettriche per testare la resistenza
del soggetto e per sovrastimolare i centri del dolore, ho iniettato
il farmaco. La reazione è stata migliore delle precedenti. Il
soggetto non è morto, nè è in coma vigile.
Presenta
però uno stato simile alla lobotomizzazione, con segni vitali
stabili ma cognitivamente ed emozionalmente assente o inadeguato al
contesto.
Si
deve considerare l'esperimento fallito, sebbene il fatto che il
soggetto non sia morto o in coma sia un evidente progresso.
Progressi.
Si chiese cosa significasse nel concreto, quando anche il più minimo
miglioramento era comunque troppo poco. Era abituato ad avere
pazienza, era un ricercatore, sebbene alle prime armi. Prima della
guerra si era appena laureato e aveva cominciato a lavorare da pochi
mesi. Sapeva che questi progressi erano lenti, ma si trattava di
qualcosa di così importante che ogni fallimento era una sconfitta
molto più grande.
Inarcò
la schiena, stirando i muscoli e sbadigliando. Era piena notte ed era
tutto dannatamente silenzioso e immobile. Perfino le guardie di turno
sonnecchiavano davanti ai loro schermi, consci che i sistemi di
guardia alle camere erano praticamente infallibili.
Chiuse
il quaderno lasciandolo sulla scrivania, in modo da ricordarsi di
stendere il rapporto più dettagliato l'indomani, e uscì dalla
stanza.
Aveva
bisogno di dormire e non pensare più. Erano questi i casi in cui gli
mancava la sua chitarra, gli mancava far scorrere le dita fra le
corde e creare una melodia che risuonasse con quello che sentiva, che
lo svuotasse da tutto quello che non riusciva a gestire, riversandolo
nella musica.
Fra
le cose che il partito della B/L aveva vietato, una delle prime era
la musica. Subito dopo i fumetti e piano piano l'arte in generale,
fino a lasciare un mondo quasi completamente bianco. Poteva capire
perché avesse proibito l'arte, ma era una delle poche cose che
davvero faceva fatica ad accettare. Sapeva che erano pensieri
pericolosi, ma suonare era come respirare ed era difficile vivere in
un mondo senza aria.
Per
Jamia.
Si
ripetè per l'ennesima volta, attraversando i corridoi per arrivare
alla sua stanza.
Fu
la musica a fermarlo. Era dannatamente assurdo che lui ci stesse
pensando proprio un minuto fa e adesso improvvisamente qualcuno
stesse cantando. Sospirò, preparandosi a chiamare un sorvegliante
per farlo smettere, quando le parole della canzone lo bloccarono in
mezzo al corridoio, con la mano sul pulsante della chiamata.
Cantalo
per i ragazzi, cantalo per le ragazze
ogni
volta che perdi cantalo per il mondo
Cantalo
dal cuore
Cantalo
fino a quando puoi
Cantalo
per le parole che odiano le tue budella
Cantalo
per la morte
Cantalo
per il sangue
Canta
tutti quelli che hai lasciato indietro
Cantalo
per il mondo
Sembrava
che stesse parlando di lui, del dolore che aveva provato, del sangue
di Jamia sulle sue mani. La voce era alta e limpida e portava con sè
un emozione difficile da non cogliere. Era come se stesse sputando
fuori dalle viscere ogni fottuta parola. Chiuse gli occhi, cercando
di restare stabile sulle sue gambe. Non stava parlando con lui.
Doveva solo respirare e chiamare la guardia. Non lo fece. Si lasciò
scivolare sul pavimento, accanto alla porta della camera, e si
rannicchiò contro il muro.
Era
così appassionato e convinto quando diceva che la cura per il dolore
era cantarlo, buttarlo fuori, viverlo e lasciare che colpisse gli
altri come un fottuto cazzotto. Il contrario di quello che il partito
diceva, il contrario di quello che lui aveva sempre cercato di fare.
Vivere il dolore come diceva la canzone l'avrebbe distrutto. Perché
avrebbe dovuto? Faceva male, faceva troppo male. La voce tremò e si
spense. Frank si morse le labbra. Era sbagliato ma avrebbe voluto
risentirla ancora. Avrebbe voluto avere una chitarra e suonarla,
avrebbe voluto entrare nella stanza e vedere colui che era in grado
di cantare in questo modo, perché non poteva essere davvero un
criminale.
Si
limitò a rialzarsi, asciugarsi le lacrime e stupirsi quando si rese
conto di averle versate. Era dalla morte di Jamia che non piangeva,
che si impediva di farlo, reprimendo tutto quello che sentiva, come
diceva il regime. Aveva funzionato, gli aveva permesso di continuare
a vivere, di superare gli orrori della guerra.
Ma
era stupefatto di come quell'attimo di assurdo abbandono lo facesse
sentire straordinariamente drenato e stanco ma inconfutabilmente
sereno.
Non
era una sensazione che era abituato a sentire.
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Dal diario di Frank Iero, 30 settembre 2017.
Ci
vado ogni fottuta sera. Ogni sera è una canzone diversa. Non ne
posso più, è come se mi stesse facendo a brandelli. Ma non riesco a
farne a meno.
Non
devo superare quella dannata porta. Ho imparato il codice di sblocco
a memoria, cazzone che non sono altro. Non devo aprirla. Non mi
interessa chi c'è al di là, se mi scoprono, se scoprono entrambi,
siamo morti.
Non
devo entrare.
Era
rannicchiato dietro la porta, solo una sottile lastra di metallo a
dividerlo da un prigioniero che non aveva mai visto.
Guardò
l'orologio. Mancava poco ormai, erano quasi le due di notte, subito
avrebbe cominciato a cantare.
Come
possono dirlo?
"Jenny
potresti tornare a casa?"
Perché tutti
sanno che tu non
Vorrai mai
tornare
Lasciami essere
chi ti salverà
Chiuse
gli occhi. Non poteva davvero essere così incosapevole del fatto che
lui lo sentisse ogni notte. Sapeva che era impossibile, ma sembrava
che stesse parlando con lui.
Ricordò
la sua casa, la sua vera casa non l'appartamento che gli aveva messo
a disposizione la Scarecrow, la casa che divideva con Jamia. Così
calda e famigliare, piena di poster, CD e casino, piena di loro.
«Voglio
tornare a casa» sussurrò contro il tessuto spiegazzato della
camicia.
Non
ci aveva più pensato da quando era morta Jamia, non aveva più
pensato a casa loro, a quanto era bello tornarci, quanto quel posto
fosse pieno di loro. Sentiva di averla tradita un po'. Lei adorava
quella casa e lui non aveva più voluto pensarci perchè faceva
troppo male.
Dubitava
che qualcuno potesse davvero salvarlo se non la B/L.
Diventerai
chi ci
salverà
Dalle nere e
speranzose sensazioni?
Lo capirai quando
la fine diventerà reale?
Abbraccia il tuo
cuore in questa oscurità
Diventerà la
luce che ti condurrà fuori
O fallirai e
rimarrai bloccato?
Si
lasciò scappare una risata amara. Il suo cuore. Quanto ridicola e
retorica poteva essere una frase del genere? Abbracciare l'oscurità
perché diventasse luce? Non esisteva una cosa del genere. L'oscurità
si vinceva accendendo la luce, non abbracciandola. Tuttavia la voce
era così insistente, così dolce quasi e rabbiosa al tempo stesso.
Non aveva mai sentito qualcuno cantare in questo modo. Come se ci
credesse davvero. Ogni notte si convinceva che si sedeva lì
solamente perché gli mancava la musica, non per le parole della
canzone o per il modo che aveva il prigioniero di cantarle. Era bravo
a convincersi delle cose. Era bravo a convincersi che si stava
alzando in piedi solo per andarsene, non per aprire finalmente la
porta. Era bravo a convincersi che stava entrando nella cella solo
per farlo stare zitto, non perchè voleva vederlo.
I
muri erano coperti di disegni in bianco e nero. Non vedeva tanto
rosso assieme da anni e per un attimo dovette distogliere lo sguardo.
Dopo tutto quel bianco il colore era dannatamente fastidioso.
Contrasse le mani guantate, grattandosi inconsciamente il collo.
Guardare quei disegni era come entrare nella testa di uno
schizzofrenico. Alcuni erano dipinti di morte, sangue e violenza,
neri con tocchi di un rosso violento e disturbante. Altri erano di un
rosso vivo e caldo, schizzi di vita, schiacciante e dirompente.
Scorci di paesaggi che non esistevano più. E unicorni. Questa era la
cosa più strana. Poteva capire il carro nero con la morte sopra, ma
gli unicorni proprio no.
Sembrava
che nemmeno un angolo fosse stato lasciato libero, come se per il
prigionero vedere anche solo un pezzetto di muro fosse inaccettabile.
«Chi
cazzo sei?» esclamò una voce, quella voce, dalla
parte
opposta alla porta. La luce era spenta, solo uno spicchio di luna
illuminava i dipinti sul muro e il rosso violento e abbagliante che
lampeggiava sulla testa del prigioniero.
Sono
i suoi fottuti capelli realizzò
Frank con stupore. Aveva tinto i capelli di un rosso davvero
accecante e anche se non si vedeva nient'altro se non loro,
istintivamente sapeva che quel colore era perfetto su di lui.
Riassumeva alla perfezione tutta la vita e la morte che si
percevivano nelle sue canzoni, quella dicotomia che si poteva trovare
anche nei suoi disegni e che lo aveva spinto ad aprire la porta.
Il
prigioniero si alzò in piedi di scatto, minaccioso. Gli venne da
ridere.
Lui
lo
stava minacciando? Era chiaramente pelle e ossa, la cura della Casa
evidentemente lo aveva piuttosto debilitato. Si reggeva in piedi a
stento. Cosa diavolo pensava di fare?
«Rispondi
cazzo!» ruggì il prigioniero, e lui scattò avanti, se non altro
per farlo stare zitto, perchè le guardie potevano pure dormire e non
accorgersi delle sue doti canori, ma un urlo ancora lo riconoscevano.
«Zitto»
si limitò a rispondere Frank, a pochi centimetri da lui. Aveva la
pelle pallida di chi non vedeva il sole da mesi, grandi lividi
macchiavano quel candore e la bocca spiccava, rossa di sangue
incrostato.
«Lavoro
qui» rispose poi dopo un attimo di esitazione di cui poi si odiò.
Lui
doveva essere orgoglioso di quello che faceva per la sua città,
l'approvazione del prigioniero non doveva interessargli.
Uno
sputo per terra chiarì comunque quello che pensava il ragazzo della
sua affermazione.
«E
perché sei qui? Vuoi provare il brivido di uccidermi personalmente?»
la voce continuava a essere rabbiosa, ma era anche incerta adesso,
come se non si spiegasse perché Frank fosse ancora fermo, divorando
con lo sguardo tutte le pareti della cella.
«Cos'hai
usato per il rosso?» sbottò poi Frank, incapace di trattenersi. Un
atteggiamento del genere gli avrebbe riservato solo guai con il
Dottore, ma era in un certo senso liberatorio lasciarsi andare.
«Un
carboncino puoi averlo nascosto, ma sicuramente non un intera scatola
di colori. Cosa hai usato?»
Vide
il prigioniero avanzare lentamente, con cautela ma senza esitazioni.
Era coraggioso, glielo concedeva.
«Non
lo immagini?» replicò sottovoce il ragazzo, allungando appena un
braccio perché fosse visibile sotto la luce debole della luna.
Improvvisamente
vide le ciccatrici sulla pelle pallida e liscia e capì.
Il
suo sangue.
Rabbrividì.
L'idea era terribile e macabra, però anche dannatamente
affascinante. Usare una cosa che richiamava la morte per
esorcizzarla, dipingendola sulle pareti e sporcandola con dipinti di
vita.
C'era
un piccolo letto in un angolo della stanza e il ragazzo vi si
diresse, senza smettere di tenerlo d'occhio. Si lasciò cadere con
cautela, quasi che muoversi o sedersi gli facesse male, e poi
continuò a fissarlo. Sembrava lo stesse soppesando.
«Perché
sei qui?» chiese ancora, questa volta più delicatamente.
«Per
la musica» rispose Frank senza pensarci. Una riposta per una
risposta. In fondo era giusto. In un lampo di terrore si chiese
quando mai a un'animale si concedeva la stessa giustizia riservata
agli esseri umani. Ma guardando il prigioniero seduto sul letto gli
sembrava solo un ragazzo stanco e impaurito che cercava di non darlo
a vedere, non un'animale.
Il
ragazzo non rispose, limitandosi a scostarsi un po', lasciando dello
spazio libero accanto a lui, in un chiaro invito.
Frank
si morse le labbra, esitando. Era entrato nella cella, aveva parlato
con il prigioniero, non lo aveva denunciato per le canzoni. Erano già
cose abbastanza gravi. Però il ragazzo lo guardava con degli occhi
verdi davvero disturbanti e non pretendeva che lui si controllasse,
misurasse ogni parola o che semplicemente facesse tutto quello che
lui voleva. Era facile scivolare accanto a lui, senza toccarlo, senza
guardarlo, fissando ancora i disegni sulle pareti. Era liberatorio
stare lì in silenzio, ascoltando il suo respiro, senza dover fare
nulla. Era bello stare accanto a qualcuno che lo guardava con
curiosità e non con sdegno.
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Dal diario di Frank Iero 3 ottobre 2017
Chi
ha disobbubbidito, infranto la legge, rubato, ucciso, si può ancora
considerare una persona?
Quand'è
che nella mia testa è diventato Gerard?
Erano
tre giorni che entrava nella cella di Gerard e si sedeva sul letto
accanto a lui, in silenzio. Gerard non diceva nulla, quando lui
apriva la porta si alzava e si sedeva, lasciandogli spazio. Lo stava
chiaramente aspettando, lo si capiva dallo sguardo che gli lanciava
quando Frank entrava. Non si chiedeva dove questo sarebbe andato a
finire o perché Gerard non gli chiedesse nulla. Si limitava a godere
il sollievo che per qualche strano motivo sentiva accanto a lui,
rannicchiandosi su se stesso quando Gerard cominciava a cantare.
Non
parlavano, nessuno dei due aveva più tentato una conversazione dopo
quella prima volta, e andava bene così. Non si era reso conto di
quanto avesse bisogno di stare semplicemente con qualcuno per il
piacere di farlo, non si era reso conto di quanto bene si sentisse
ascoltando il suo respiro e le sue canzoni. E questo andava contro
tutto quello che aveva creduto nell'ultimo anno, tutto quello che si
era costruito nella testa per andare avanti dopo la guerra,
accettando con fede cieca tutto quello che la B/L gli diceva. E
Gerard non aveva ancora aperto bocca, se non per cantare. Ma questo
era sufficiente. Le canzoni possedevano un violento e rabbioso
potere, quello di sbattere in faccia la verita a chi stava
ascoltando, impedendogli di chiudere ancora gli occhi. Era assurdo
che Gerard lo stesse facendo dubitare senza nemmeno parlare con lui
direttamente.
«Perché
hai i guanti?» la sua domanda lo colse totalmente alla sprovvista.
Contrasse
automaticamente le mani, tirando i polsini della maglia fino a
coprirle ulteriormente. Poi rilasciò lentamente il respiro che aveva
trattenuto e sorrise. Il solo pensiero di potergliele
mostrare era
terrificante nella sua semplice bellezza. Con calma si rimboccò le
maniche della maglia, togliendo i guanti senza esitazioni.
Le
sue nocche si scoprirono, assieme alle loro scritte.
Gli
occhi di Gerard si spalancarono e per la prima volta vide una luce di
eccitazione quasi infantile brillarvi dentro.
«Oddio,
ne hai altri?» chiese con la sua voce acuta, le parole sparate
velocemente, quasi non potesse aspettare che lui le recepisse per la
troppa impazienza.
Frank
non esitò prima di togliersi la maglia e voltarsi.
Rabbrividì
quando le sue dita fredde tracciarono i contorni della zucca sua
schiena. Era troppo tempo che nessuno lo sfiorava così, con
riverenza e innegabile affetto.
«L'arte
è l'arma, vero?» sussurrò Gerard, facendo scorrere le sue dita
lungo la colonna vertebrale, lentamente, deliberatamente.
«Eh?»
mormorò Frank, troppo sopraffatto per articolare altro.
«So
che nella mia scheda c'è scritto solo il mio nome e nient'altro. Noi
non siamo considerati persone qui, non è importante chi ero prima o
perchè sono qui dentro.»
Si
fermò un attimo, facendo riposare le sue dita sui suoi fianchi,
sopra le lettere incise sulla sua pelle.
Frank
non fiatò. Voleva saperlo, l'aveva voluto dal momento in cui aveva
posato gli occhi su di lui.
«Ero
un disegnatore di fumetti. Quando il regime ha cominciato con la
censura ho cercato di adeguarmi, ma quando l'ha proibito del tutto
allora ho smesso di cercare. Ho pubblicato i miei fumetti con l'aiuto
di altre persone, ho fatto manifesti con le pagine di V for Vendetta
da distribuire in giro, fino ad arrivare a dipingere i muri di
Battery City quasi ogni notte.»
Le
dita si erano scaldate e la sua pelle sembrava infucarsi sotto il suo
tocco.
Non
riusciva a respirare correttamente, nè a muoversi.
«L'arte
è l'arma e lo sanno anche loro.»
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Dal diario di Frank Iero, 4 ottobre 2017
Era
da un'anno che non guardavo i miei tatuaggi, e ora non riesco a
togliermeli dalla testa, non riesco a smettere di guardarmi le mani.
L'unica cosa che non ho voluto concedergli. L'ultimo centimetro di me
che mi rende libero. Era questo che intedeva Gerard? In quel
centimetro noi siamo liberi. E se siamo liberi siamo in grado di
pensare. È questo che spaventa tanto la B/L? Pensavo che la pace
avesse un prezzo, che la nostra sicurezza valesse alcuni sacrifici.
Pensavo di essere disposto a farli. Ma se ascoltare le dannate
canzoni di un prigioniero mi ha fottuto la mente, allora forse non è
un sacrificio che sono davvero disposto a fare.
I
miei tatuaggi sono il mio centimetro, e in quel centimetro io sono
libero.
Questa
volta quando Frank entrò nella sua camera non era a mani vuote.
Gerard
spalancò gli occhi guardando le scatolette di cibo nelle sue mani e
tese le mani, ansioso. Era la prima volta che abbassava così le sue
difese; Frank non riuscì a reprimere un brivido di piacere pensando
che Gerard stava iniziando a fidarsi di lui.
«Cazzo,
è cibo quello? Cibo vero?Cazzocazzo!» esclamò, un milione di
sillabe al secondo nell'impazienza.
Frank
rise e si sedette sul letto accanto a lui, tendendogliele e guardando
l'avidità con cui le prese e ci si tuffò dentro.
«Hai
ragione sai» esclamò improvvisamente Frank, distogliendo lo sguardo
da Gerard e puntandolo verso il muro. C'era una donna con una
maschera antigas, che avanzava aprendo il corteo a un enorme carro
nero.
Gerard
non rispose, però smise di mangiare. Poteva sentire il suo sguardo
addosso, pesante come il piombo e desiderato come un'sorso d'acqua
nel deserto.
«L'arte
è l'arma» Prese un respiro prima di continuare e
poi...semplicemente lo buttò fuori. Ne aveva un dannato bisogno.
«Io
ti ho solo sentito cantare, non hai detto nulla, non hai fatto nulla,
eppure io non riesco più a...cazzo» esalò, ostinandosi a fissare
la donna sul muro. Non sapeva perché, ma improvvisamente era
importante che Gerard non lo considerasse un mostro.
«Sai
cosa facciamo qui?» chiese bruscamente Frank, voltandosi finalmente
a guardarlo.
Gerard
masticava lentamente, non distoglieva lo sguardo da lui. Era di
un'intensità disturbante.
«State
sperimentando una sorta di farmaco che lobotomizza tutti» riassunse
poi. Frank lo guardò incredulo, poi rise, una risata che aveva una
sfumatura isterica decisamente preoccupante.
«Beh
è pittoresco ma più o meno è così.» la sua voce conservava
ancora tracce d'ilarità che perse quando proseguì, questa volta
senza distogliere lo sguardo da Gerard.
«Pensavo
che fosse una cosa buona. Che esistesse davvero una pillola che
potesse eliminare la rabbia, ricordare agli uomini come essere
felici, avevo bisogno di credere...» chiuse gli occhi, piegandosi
lentamente su se stesso, fino ad appoggiare la fronte sulle sue
ginocchia.
«Avevo
bisogno di credere che tutto avesse una ragione. La guerra e tutto
quello che aveva fatto, quello che ci aveva portato via. E che la
ragione fosse la B/L, che fosse la risposta, che lei potesse
mostrarci la via per una vita migliore. Dio.» si morse le labbra,
così forte che sentì il sangue scorrergli in bocca, caldo e
metallico. Non era pronto per la tempesta di emozioni che si stava
riversando su di lui, non era pronto all'effetto che rivelare quelle
cose a Gerard gli faceva. Nessuno avrebbe mai potuto prepararlo alla
straziante intensità del suo sguardo verde, dalla forza che emanava
solo stando fermo. Era stato solo una volta a cospetto di Korse, il
capo della Scarecrow, ed emanava lo stesso tipo di magnetismo.
Convinceva chiunque a fare quello che voleva, solamente guardandolo.
Erano uomini che credevano fermamente in quello che dicevano, che
facevano, uomini che non si limitavano a prendere passivamente la
propria vita, no, loro la rivoltavano, la mangiavano, fino a essere a
propria volta divorati dalle loro convinzioni.
Erano
uomini in grado di morire per quello in cui credevano. Uomini tali
suscitavano un tale senso di lealtà nelle altre persone, da portarle
a fidarsi ciecamente di loro, da portarle a morire
per loro.
Fu
lì che lo realizzò. Fu guardando il suo corpo pallido ed emaciato,
provato da mesi di sofferenza, fu guardando il verde dei suoi occhi
che divampava, indomito nonostante tutto.
Era
lui l'uomo che voleva seguire.
«Non
esiste Gerard. Una cosa del genere non esiste, e se esistesse avrebbe
un prezzo troppo fottutamente alto. Ed io sono dovuto arrivare a
schifarmi di me stesso per poterlo capire»
Improvvisamente
sentì una mano calda posarsi sulla sua nuca e questo minacciò di
fargli perdere davvero il controllo. Non lo meritava, non meritava
che Gerard facesse così, che lo toccasse, che cercasse di
consolarlo. La mano premette fino a che la testa di Frank non si
spostò sulle sue ginocchia, le dita lievi gli accarezzavano i
capelli, immergendosi dentro le ciocche scure e massaggiando
delicatamente la cute.
«Perchè
fai così?» chiese piano, un respiro più forte avrebbe potuto
spezzarlo.
«Non
lo merito, io...» la mano di Gerard scivolò sul suo viso, fino a
premere contro le sue labbra.
«Shhh»
sussurrò, lieve ma deciso. Era tutto quello di cui aveva bisogno per
calmarsi. Il respiro costante di Gerard, la sua mano sui capelli, sul
viso, sulle labbra. Il sangue pompava veloce e minacciava di
strapparsi via dalle arterie, era come tornare alla vita dopo mesi di
letargo.
Poteva
sentire l'aria entrare e uscire dai suoi polmoni, il sangue scorrere
in tutto il corpo, il cuore battere, la pelle bruciare per il
desiderio.
«È
questa la differenza fra noi e quelli della Scarecrow. Noi possiamo
sbagliare. A noi è concesso essere stupidi, e cieci e pazzi dal
dolore, tanto da fare cazzate enormi, tanto da uccidere. Noi siamo
esseri umani. Quello che loro vogliono farci diventare non lo sono.»
--------------
Dal
Diario di Frank Iero, 10 ottobre 2017
Devo
tirarlo fuori di qui. Non so quanto ancora riuscirò a proteggerlo
dagli esperimenti del Dottore. Non mi importa cosa sarà di me, ma
lui deve uscire da questo buco di merda.
Non
si stavano davvero toccando, seppure fossero stesi vicini. Si
sfioravano appena, ma era un calore a cui Frank si era appena
abituato, non pensava di essere in grado di gestire di più. Non
sapeva nemmeno se Gerard volesse qualcosa da lui, che non fosse cibo
o un po' di compagnia. Lui era il mostro che faceva esperimenti su
prigionieri che erano esseri umani, non animali. Il bianco dei
corridoi ora era accecante, troppo abbagliante, troppo perfetto; era
una tortura guardarlo.
«Perché
gli unicorni?» chiese improvvisamente Frank. Era una domanda che gli
danzava in testa da quando li aveva visti dipinti sul muro.
Gerard
rise, mostrando i piccoli denti perfetti e il labbro che si storceva
leggermente. Era soffocante stargli così vicino, anche se non si
toccavano.
«Mio
fratello crede che esistano davvero, da qualche parte»
Frank
si sollevò su un gomito, guardandolo incredulo.
«Sul
serio?» esclamò incredulo, Gerard annuì, gli occhi spalancati in
un espressione un po' folle e spiritata. Si sentiva un'idiota a
pensare che fosse adorabile, ma non poteva seriamente farne a meno.
Da quando aveva smesso di controllare ossessivamente tutto quello che
pensava, aveva scoperto di avere cose nella testa che minacciavano di
sconfinare e uccidere la sua, seppure poca, sanità mentale. Come il
desiderio di scoprire se la pelle di Gerard era davvero morbida come
sembrava. O se lo fossero le sue labbra. O sentire che gusto aveva la
piccola conca che si formava sopra la sua clavicola. O fare piani di
fuga per lui.
Cazzo.
«C'è
un esperimento che ho rimandato da settimane» da quando ti ho
sentito cantare la prima volta. Non lo disse ma Gerard parve
capirlo lo stesso, visto lo sguardo intenso che gli rimandò.
«Domani
ti preleverò dalla cella e dirò che voglio te per
quell'esperimento. Dovrò fare...» sospirò, chiudendo gli occhi.
Non c'era un modo carino per dire a qualcuno che doveva torturarlo
fino allo stremo per rendere tutto credibile.
«Dovrò
far sembrare tutto normale. Il Dottore sa cosa richiede
l'esperimento, non posso rischiare che lui entri e rovini tutto.
Dovrò farti male.»
Lo
sguardo di Gerard non lasciava il suo volto, bruciava dannatamente.
Così
male, ogni singolo nervo, ogni muscolo, ogni centimetro della sua
pelle. Era come se lo stesse uccidendo, senza nemmeno battere ciglio.
Improvvisamente
dovette farlo. Dovette alzare la mano e passarla frenentico lungo la
curva della sua guancia, sulla fronte, sulle labbra, sul collo. Ne
aveva solo parlato e già non poteva trattenersi dall'assicurarsi che
stesse bene, che fosse ancora lì con lui, che respirasse.
Sentì
il repiro di Gerard spezzarsi bruscamente, e lasciò cadere la mano,
mortificato. Era ovvio che Gerard non si fidasse, non lo volesse, ma
non importava. Non gli importava nulla, lui lo avrebbe difeso, lui lo
avrebbe salvato. Non poteva sopportare l'idea che ci potessero essere
altre persone, lì fuori, convinte che la B/L avesse in mano la
verità, convinte di fare la cosa giusta, senza che ci fosse Gerard a
risvegliarle. Non poteva sopportare l'idea che lui morisse.
«Sarai
ancora in grado di camminare, di muoverti. Di sparare. Sai sparare
vero?»
Gerard
annuì lentamente, afferrando di nuovo la sua mano e posandosela
sulla guancia.
Così
morbida.
Frank
avrebbe potuto piangere, se solo ne avesse avuto la forza e il tempo.
«Bene.
Dopo ti darò la pillola. Non sarà quella vera, allo stato attuale
delle cose ti ucciderebbe, o peggio, ti renderebbe un vegetale. Tu
dovrai finta di avere le convulsioni, e poi farai finta di morire.
Non si tratta solo di non muoversi Gerard. Dovrai morire davvero per
tutto il tempo che servirà alle guardie per metterti in un sacco
bianco e trasferirti nel furgone. Io lascerò scivolare una pistola
nel sacco.»
Quella
sarebbe stata la parte più difficile, dopo il torturare Gerard.
Erano giorni che ci pensava e non gli era venuta in mente un'altra
idea. L'istituto era troppo sorvegliato, un conto era infilarsi nella
cella di un prigioniero, un conto era uscire di lì con suddetto
prigioniero. Non avrebbero avuto chance.
«Loro
andranno a scaricare il corpo in un inceneritore, al confine col
deserto. Poi sarà solo fra te e loro. E quanto sei capace di sparare
veloce.»
sospirò,
terminando di illustrare il piano e aspettando la reazioni di Gerard.
Era un buon piano, lo sapeva, dava a Gerard molte più chance di
uscire che aspettare chiunque lui stesse aspettando per liberarlo.
L'unico vero rischio sarebbe stato per lui, quando le guardie non
sarebbero tornare col furgone.
Gerard
lo guardò, sembrava non voler fare altro che far scorrere il suo
sguardo lungo tutta la sua figura, con una fame che Frank aveva visto
rivolta soltando al cibo che lui gli portava ogni tanto.
Serrò
la sua mano sulla spalla di Frank, stringendo così forte da lasciare
sicuramente un livido.
«E
tu?» chiese, la voce soffocata.
Frank
spalancò gli occhi. Non pensava che a Gerard sarebbe importata
davvero la sua fine. Lui era solo lo scienziato strano che lo sentiva
cantare, gli faceva domande assurde e ogni tanto gli portava del
cibo. Non contava davvero.
«Io
cosa?»
Gerard
strinse le labbra, le sue narici si allargarono e Frank si bloccò
nella consapevolezza che Gerard era arrabbiato. La
mano
strinse ancora, finché Frank si lasciò sfuggire un gemito di
dolore.
«Tu
fottuto coglione! Non puoi aspettarti che io me ne vada così,
lasciandoti qui a morire se sono clementi con te, altrimenti a
sperimentare chissà quale formula assurda che ti renderà un
lobotomizzato sbavante. Sei un coglione, Frank! Non ti lascerò qui
da solo.»
Ok,
furioso rendeva più l'idea.
«Tu
non mi devi nulla Gerard, sono io in caso che devo qualcosa a te. Non
devi preoccuparti di...» lo schiaffo che arrivò in faccia fu così
forte e improvviso da zittirlo immediatamente, alzando la mano per
toccarsi la guancia offesa in un gesto istintivo.
Gerard
si alzò in piedi di scatto, lasciandolo solo nel letto a chiedersi
cosa diavolo avesse sbagliato.
Non
sembrava semplicemente furioso, sembrava ferito e impotente, sembrava
che gli stessero strappando il cuore dal petto.
«Non
posso lasciarti qui. Tu stupido figlio di puttana, non puoi venire
qui, renderti così indispensabile, farmi... cazzo Frank.» Gerard
camminava a grandi passi lungo la stanza, sussurrando ferocemente le
parole che probabilmente avrebbe voluto urlare.
Frank
si sedette sul letto, sbalordito, guardando la marcia furiosa del
ragazzo, la mente vuota. Non voleva dirlo. Non era vero, era solo la
sua fottuta testa che gli diceva cosa strane. Cazzo.
Poi
Gerard chiuse gli occhi, respirando profondamente e borbottando
qualcosa fra sè e sè. Quando li riaprì puntò il suo sguardo su
Frank, arrivando a grandi passi davanti a lui.
«Non
puoi arrivare qui e farmi innamorare di te in questo modo, dirmi che
vuoi salvarmi morendo per questo e aspettarti che io te lo lasci
fare, Frank. Questa è una cosa che non permetterò mai.» sussurrò,
cadendo in ginocchio davanti a lui, afferrandogli le mani.
Non
l'aveva davvero detto. Frank scosse la testa furiosamente, perché
Gerard faceva così? Perché gli diceva quelle cose? Non sarebbe già
stato punito abbastanza dalla B/L quando avrebbe scoperto quello che
aveva fatto?
«Non
è...» mormorò, cercando di divincolarsi dalla sua presa
inaspettatamente stretta. Era sempre stato così delicato con lui,
non pensava fosse capace di tutta la forza che stava sfoderando
stasera.
«È
vero, stupido cazzone. Non voglio perderti, non voglio assolutamente
che tu sparisca da sotto la mia vista nemmeno per il tempo necessario
a dire 'ciao'.» si interruppe, lasciando il tempo a Frank di
assorbire il concetto.
Sorrise
dolcemente quando Frank cominciò a restituirgli la stretta alle
mani, placandosi e sporgendosi verso di lui.
Le
sue labbra erano screpolate, la bocca era amara e con un sapore
orrendo.
Era
la cosa più buona che avesse mai assaggiato.
Si
baciarono con frenesia, quasi volessero distruggersi e poi
ricostruirsi, le lingue scivolavano una sull'altra, le mani si
aggrappavano alle maglie, strattonandosi. Più vicini, ancora più
vicini. Non bastava. Era come essere immersi dentro un incedio e
volerne ancora, voleva solo bruciarsi fino a morirne. Era umido e
disordinato e bellissimo.
Quando
Gerard si staccò e posò la fronte sulla sua, il suo sguardo era
acceso e luminoso.
«Ti
dico io cosa faremo. Tu farai il tuo dannato esperimento e poi
troverai una cazzo di scusa per salire su quel furgone con me. Dì
che vuoi fare un giro, dì che vuoi controllare le mie reazioni
post-mortem, dì quel cazzo che vuoi, ma sarai su quel furgone con
me. E scapperemo, assieme.»
Frank
si morse le labbra e annuì, non si fidandosi della stabilità della
sua voce. Poi pensò che non gli importava un cazzo di farsi vedere
debole e stupido da Gerard, perché lui gli aveva appena detto che si
era innamorato di lui, che lo voleva vicino, che voleva scappare con
lui.
Quindi
lasciò che la sua voce mostrasse tutto quello che provava, tutto lo
smarrimento a quello che sarà d'ora in poi, tutta la paura che
qualcosa andasse storto e che Gerard morisse, tutta la felicità nel
sapere che Gerard lo amava.
«Ti
seguirò ovunque» bisbigliò, il tono rotto e ansimante ma deciso.
Gerard
sorrise e posò un bacio lieve sulle labbra.
«Bene.
Allora lasciamo che questo cazzo di mondo esploda.»