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Autore: Shichan    03/02/2013    4 recensioni
Il basket e Aomine l’avevano salvato.
Ma c’era stato anche un tempo – e se ne vergognava terribilmente – in cui aveva maledetto entrambi con tutte le sue forze.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Altri, Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono proprietà di Fujimaki Tadatoshi.
Note: per lo più note utili, senza dilungarmi sui miei soliti sproloqui.
Non so quanti capitoli comporterà tutto ciò: la mia idea sarebbe di evitare di farne millemila allungando una pappardella inutile, ma l’argomento che vorrei trattare è a mio avviso delicato e complesso abbastanza da non poter essere liquidato in due parole – e il mio rinomato non-dono della sintesi fa il resto.
Il rating è indicativo: per quel che c’è nella mia testa, dovrebbe rimanere arancione, ma non escludo un cambio in corso d’opera (più da arancione a giallo, che non da arancione a rosso).
Infine, un ringraziamento speciale ad OhBirds: se leggete AoKise da parte mia è perché mi ama abbastanza da minacciarmi con ogni mezzo di comunicazione possibile (L)

 

 

 

La sua vita alle medie, prima di conoscere il basket, era descrivibile con poche parole che rappresentavano né più né meno quel che, dopotutto, era ciò che riempiva le sue giornate: compagne di classe attirate da un nome visto in copertina e associato a quel modello in erba che era, compagni invidiosi della facilità con cui riusciva nello sport qualunque esso fosse, e la noia.
Una noia che lo consumava dentro senza trovare in lui alcuna resistenza; l’aveva fatta, all’inizio, certo. Ma rendersi conto di come non potesse combatterla con niente di quel che poteva essere a sua disposizione l’aveva fatto desistere, alla fine.
Delusione. L’aveva provata capendo che sarebbe stata un circolo senza fine – sport, successo, invidia, noia.
Poi c’era stato il basket, preso in considerazione soltanto per merito di un compagno che non aveva forse nemmeno mai incrociato per i corridoi o che, se lo aveva fatto, non doveva aver attirato particolarmente la sua attenzione. Aomine che gli aveva mostrato con quanto entusiasmo si potesse seguire una disciplina sportiva, che persino per lui – per Kise – potevano esistere dei limiti o degli ostacoli tali da sembrare insormontabili. Quel coetaneo che riusciva a provare tanti di quei sentimenti che immaginarseli nello stesso momento era quasi impossibile, e tutti per la semplice soddisfazione di fare ciò che si ama.
Il basket e Aomine l’avevano salvato.
Ma c’era stato anche un tempo – e se ne vergognava terribilmente – in cui aveva maledetto entrambi con tutte le sue forze.


«Eh?» rispose, sempre che la si potesse definire una risposta, lo sguardo sul ragazzo più grande di fronte a lui, la sorpresa impossibile da mascherare.
«Eddai, hai sentito, Ryouta-kun.» fece quello, un impaccio leggero nel tono, di quelli che nemmeno con tutti i servizi fatti insieme gli aveva mai sentito nella voce: «Sto con un ragazzo.» ripeté comunque, paziente.
Kise tacque. Non era, la sua, una reazione negativa alla notizia: l’ambiente della moda – modelli, fotografi, stilisti e addetti al trucco – era abbastanza vario e con personalità fra le più spiccate. Volente o nolente, come in tanti altri ambiti lavorativi e non, se non eri di mente aperta lo diventavi stando quotidianamente a contatto con le persone. Non era una questione di tolleranza – non c’era proprio nulla da “tollerare”, a dirla tutta –, ma di vivere le persone per quelle che erano ti insegnava a valutarle per quel che facevano e per come si comportavano con te, più che per i loro gusti o modi di vivere il privato.
Ciò che aveva sorpreso Ryouta, oltre che la naturalezza del più grande – non avevano un rapporto così stretto da essere l’uno il confidente dell’altro – era stato il fatto che avesse detto una cosa simile ad un collega.
Jun, diciannove anni e a sua volta modello, era un senpai sul lavoro con cui aveva avuto modo di collaborare diverse volte; era simpatico, affabile, un bravo ragazzo. Nel loro ambiente ci voleva un attimo a fare un passo falso, sebbene per i modelli giovani fosse per certi versi più semplice. D’altra parte, però, il pubblico dei modelli della loro età era prevalentemente composto da ragazze adolescenti o poco più grandi; non ce n’era uno più volubile, anche senza il bisogno che il loro sogno venisse infranto dalla scoperta che il loro idolo era omosessuale.
Per questo non lo si andava a confidare al primo che passava.
Per questo lui, Ryouta, ne era rimasto così sorpreso e il suo silenzio sembrava aver smorzato l’ottimismo dell’altro, a giudicare dal velo di preoccupazione nel suo sguardo in quel momento.
«Scusami.» disse infatti «Non pensavo ti creasse problemi.»
«No, no, no senpai!» lo interruppe subito, agitandosi sulla sedia «Mi ha solo sorpreso che fossi venuto a dirlo a me, perché non abbiamo mai parlato di cose troppo private anche se abbiamo lavorato spesso insieme.  Ma non mi crea nessun problema, insomma, perché dovrebbe?» proseguì, un sorriso incoraggiante che gli si dipingeva sulle labbra.
Dopotutto lo pensava davvero: Jun aveva sempre lavorato bene con lui, sempre con umiltà e voglia di mantenere un clima tranquillo – e c’era chi invece la metteva sempre sul competitivo – o era stato pronto ad un consiglio visto che era nell’ambiente da qualche anno più di lui.
La reazione del più grande fu immediata e palese: aveva sospirato sollevato, rilassandosi, e aveva sorriso di nuovo.
A riprova del fatto che non si stava sforzando, Ryouta si chinò appena verso di lui, come a condividere un segreto: «State insieme da tanto? Lavora con te?» domandò incuriosito, perché non riusciva proprio ad immaginarsi che tipo di ragazzo potesse piacergli – forse, infantilmente e inconsciamente, se lo figurava con qualità incredibili che potessero spiegare perché un maschio preferisse un ragazzo ad una ragazza. Non era un pensiero che aveva formulato con cattiveria, ma per istinto, un luogo comune che coinvolgeva anche i più aperti mentalmente – ma era solo il primo impatto, in alcuni casi, per fortuna.
Jun sorrise, e di certo da fuori poteva sembrare uno dei tanti sorrisi che dispensava spesso, con il carattere affabile che aveva; ma a Kise sembrò notare lo sguardo addolcirsi, in un certo senso.
«Questo mese è un anno.» rivelò l’altro modello «Siamo negli stessi corsi all’università.»
Kise non aveva fatto troppe domande, lasciandolo libero di raccontare quello che più preferiva: Jun gli aveva accennato al fatto che lui e il suo ragazzo erano stati anche in classe insieme alle superiori, ma tra loro non c’era stato mai più di un rapporto superficiale che si ha fra compagni. Avevano parlato, scambiato idee, ma non c’era mai stata una frequentazione fuori – Jun era impegnato con il lavoro di modello già dal liceo e l’altro (Akira) era occupato con le mansioni del Comitato Studentesco di cui faceva parte.  Si erano salutati al diploma come tutti gli altri.
Aveva scoperto la sua omosessualità in seconda media, gli disse. C’era un amico di suo fratello maggiore che lo aiutava nello studio, e si era accorto di guardarlo nello stesso modo in cui i suoi compagni guardavano le ragazze, coetanee o più grandi che fossero. C’erano stati diversi segnali, dopo quella che avrebbe potuto prendere per una cotta infantile o confusione adolescenziale, come molti la chiamano o cercano di liquidarla. Cose che potevano sembrare sciocche, ma che sommate tutte insieme gli avevano reso ovvio l’orientamento sessuale; in prima liceo aveva avuto la prima relazione seria, per così dire.
Inaspettatamente, gli aveva spiegato, all’università era sembrato naturale parlare come se l’avessero sempre fatto; forse, aveva aggiunto Jun, era stato perché erano in un ambiente nuovo, entrambi senza altre persone già viste o con cui erano in confidenza, e si erano avvicinati naturalmente.
Stava per aggiungere altro, ma il suo manager era entrato in camerino per chiamarlo, e l’altro aveva interrotto il racconto, scusandosi con un sorriso e promettendo di parlargliene ancora se Kise avesse voluto o se fosse capitato a breve di incontrarsi di nuovo.
Gli aveva fatto un cenno con la mano, ricambiando il sorriso.

Com’era prevedibile, Kise non aveva parlato a nessuno della confidenza che l’altro modello gli aveva fatto; non solo perché non sarebbe stato da lui – non erano amici di vecchia data, certo, ma per le questioni serie Kise non era un chiacchierone, specialmente se erano affari privati degli altri. Inoltre, se anche avesse voluto raccontarlo a qualcuno, non vedeva davvero come alle sue conoscenze potesse interessare.
Al Kaijou non parlava di quel che riguardava il lavoro, se si voleva escludere Moriyama-senpai che gli chiedeva di presentargli delle modelle, anche perché Kasamatsu lo avrebbe preso a calci, letteralmente.
In ambito lavorativo, invece, non aveva rapporti così stretti. Se anche avesse voluto dirlo a qualcuno, non sarebbe stato praticabile.
Per questo, quando a cena – e senza preavviso – sua madre pronunciò con nonchalance un: «Ryouta, ma Jun-kun è gay?» rischiò di mandare per traverso il boccone di riso che aveva appena portato alla bocca, con il risultato di una reazione che non avrebbe potuto essere più ovvia di così.
Sua madre era di mente abbastanza aperta sull’argomento, rispetto a molte persone della sua età; ciò che lo stupiva era la perspicacia. La donna aveva incontrato Jun una, forse due volte – non lo accompagnava più tanto spesso come all’inizio, sul lavoro, da quando aveva Ritsuko-san come manager. Per lo più doveva averlo visto sui servizi che avevano fatto insieme, visto che li conservava tutti da qualche parte, ma non era una cosa che traspariva così tanto, non lo aveva scritto in faccia, tant’era che lui era stato preso alla sprovvista. E, a dirla tutta, non si reputava così lento da non cogliere segnali ovvi… che l’altro, però, non aveva mai lanciato.
«Tu come…?» borbottò confuso – gli sembrava abbastanza inutile cercare di negare dopo la propria reazione –, lanciando un’occhiata a suo padre.
Di lui non aveva mai ben capito la posizione sull’argomento; non era esattamente ciò di cui parlavano un padre e un figlio, per quanto aperti potessero essere l’uno con l’altro. Sapeva che non amava il classico “troppo che storpia”, ma come concetto generico e applicabile a tutte le cose.
Lo vide voltarsi verso la moglie, l’espressione dubbiosa: «Jun qual è? Quello con la famiglia che gestisce il tempio?»
«No, caro, quello è Yamashita-kun.»
Ryouta sorrise: suo padre sembrava fare più fatica a ricordare chi fosse il collega di cui parlavano, piuttosto che ad accettarne l’orientamento sessuale.
«Ad ogni modo» riprese la donna, tornando con lo sguardo sul proprio figlio «ho avuto quella sensazione. Chiamalo istinto femminile.» spiegò semplicemente.
Ryouta annuì, ma pensò che l’istinto delle donne – o di sua madre – era terrificante, a volte.

Quando al vibrare del cellulare, portando lo sguardo sullo schermo aveva visto che la chiamata in arrivo era da parte di Momoi, era stato sia sorpreso che incuriosito: non capitava così spesso che lui e l’ex manager si sentissero, da quando erano finite le medie.
«Momoicchi?!» aveva risposto allegro, davvero felice di sentirla.
«Ki-chan, sei al lavoro?» aveva chiesto scrupolosa, facendolo sorridere; era sempre stata attenta a quel genere di cose. Aveva scosso la testa per riflesso, anche se lei non poteva vederlo naturalmente.
«No, sono a casa, dimmi.»
Nei dieci minuti abbondanti in cui erano stati al telefono la ragazza gli aveva spiegato nei dettagli il perché della chiamata; con la pausa estiva – testuali parole – “Daichan si era fatto pigro in maniera imbarazzante”. Quando lei gli aveva proposto un programma di allenamento per mantenere la forma fisica, si era naturalmente rifiutato.
Immaginare il moro e i suoi rifiuti poco gentili verso la ragazza lo aveva fatto ridacchiare, facendogli guadagnare un “Ki-chan!” indignato da parte dell’altra.
Gli aveva spiegato poi che aveva pensato di organizzare una partita, forse l’unica cosa che potesse convincerlo a muoversi; a quel punto aveva preso in considerazione chi chiamare: Sakurai, della squadra di Aomine, non era stato difficile da convincere. Imayoshi era stato fuori discussione, perché avrebbe approfittato della pausa per studiare essendo al suo ultimo anno. Wakamatsu difficilmente avrebbe saltato di gioia per una giornata con Aomine anche quando non era necessario – e così Kise era venuto a sapere di qualche retroscena della Too.
«Così ho pensato che poteva essere carino sentire la vecchia squadra. Tu ci sei Ki-chan?» aveva domandato. Era stato difficile immaginare che la vecchia Generazione dei Miracoli potesse riunirsi per qualcosa del genere; era vero che il basket li accomunava, ma era anche vero che non si erano esattamente lasciati come una squadra felice. O come una squadra e basta.
Ma erano cambiati, si era detto, tutti loro. Quindi poteva non essere un’idea malvagia.
«Contami, Momoicchi! Proverò a chiedere ai senpai, se serve. O siamo al completo?» aveva domandato. Era abbastanza sicuro che, se l’ex manager li aveva già chiamati, Kagami e Kuroko avessero dato la propria disponibilità.
«Tetsu-kun e Kagamin hanno già detto di sì!» aveva esclamato contenta, e non c’era voluto molto al biondo per riconoscere nel tono di voce di lei la contentezza per la possibilità di vedere l’ex sesto membro della Generazione dei Miracoli: «Ho chiamato Midorin, ma non poteva. Non penso potrà nemmeno Akashi-kun.» aveva aggiunto, e non c’era stato nemmeno bisogno di chiedere perché.
«A Mukkun però non ho ancora chiesto! E penso che Kagamin chiederà a qualche senpai, o a Himuro-san.» aveva concluso – mentre Kise, con uno sforzo di memoria, richiamava alla mente un viso che si potesse accostare al nome “Himuro”, ricollegandolo al compagno di Murasakibara nella Yosen.
Si erano salutati con la promessa di aggiornarsi non appena lei avesse saputo con precisione chi si sarebbe presentato.

Quando lui e Kasamatsu raggiunsero il campo a cui si erano dati appuntamento – o meglio, dove Kise e Momoi si erano accordati per l’incontro – fu chiaro, a giudicare dai presenti, che più che ad un allenamento quella giornata sarebbe somigliata ad un tentativo di uccidersi a vicenda, legalizzato dal “è solo una partita di basket”.
Non erano gli ultimi, ma i presenti bastavano già da soli a far venire il legittimo dubbio di come sarebbero state formate le squadre: Sakurai ed Aomine, tralasciando Momoi, erano gli unici due della Too. Escludendo lui e Kasamatsu, il resto erano membri del Seirin: Kagami e Kuroko – com’era stato prevedibile e confermato – il capitano Hyuuga, ed infine Kiyoshi Teppei.
«Momoicchi» chiamò la ragazza, avvicinandosi dopo un saluto generico: «non è un po’…» lasciò cadere la domanda, perché lo sguardo verso il campo dove Kagami e Aomine si stavano dicendo qualcosa di non meglio identificato (ma certamente poco lusinghiero) parlava da sé.
Il fatto che fossero in numero pari, l’aveva per un attimo portato ad abbassare la guardia; quando, perciò, Momoi si voltò in sua direzione – guardando però oltre lo stesso Kise – esclamando con un sorriso: «Mukkun!» il biondo pensò che Kagami e Aomine sarebbero anche potuti sopravvivere se messi in due differenti squadre, ma con l’aggiunta di Murasakibara e considerando quanto poco amasse Kiyoshi del Seirin, dubitava che avrebbero impiegato molto a trasformare quel favore personale a Momoi in una rissa.
E non era facile immaginarsi a fermare l’ex centro della Teikou. Nemmeno in gruppo.
«Himuro-san.» sentì aggiungere alla ragazza, e voltandosi riconobbe il moro che camminava accanto a Murasakibara e che gli sorrise: «Scusami, Momoi-san. Sono riuscito a portare Atsushi, ma non a convincerlo a giocare.» ammise, nel tono una nota tra il divertito e le scuse vere e proprie.
Kise vide la ragazza avvicinarsi ai due, probabilmente indagando sul perché il più alto non avesse intenzione di giocare, ma fu distratto dal richiamo di Kasamatsu – «Kise, muoviti a prendere il fratino!»

A metà della partita, Kise aveva invidiato a Murasakibara non tanto il suo stare ad un angolo del campo a trangugiare snack vari, quanto la sua scelta di non partecipare; non aveva ben capito se fosse per pura pigrizia o perché non poteva sopportare Kagami o Kiyoshi nella stessa squadra, ma si era rivelata una scelta saggia.
Come il ritiro di Kuroko aveva testimoniato, nessuno di loro aveva fatto i conti con il caldo soffocante. Se persone come Aomine e Kagami, troppo presi da un pallone da basket ovunque fossero, sembravano non risentirne abbastanza da volersi fermare, altrettanto non era stato per l’altra matricola del Seirin.
Ad un certo punto era sbiancato così tanto che la stessa Momoi prima e Hyuuga poi – in squadra con Kuroko – gli avevano consigliato di fermarsi, possibilmente riposando all’ombra, e di bere per reidratarsi.
Così le squadre, dapprima cinque contro quattro, si erano ritrovate con pari numero di giocatori da ambo le parti: da un lato – da metà partita in poi senza Kuroko, appunto – erano stati Hyuuga, Kagami, Kasamatsu e Himuro.
Quest’ultimo e l’ace del Seirin avevano dimostrato che, pur non giocando insieme da tempo, questo non gli impediva di ritrovare in un attimo l’affiatamento di una volta. Si conoscevano troppo bene e si erano allenati insieme troppe volte e per anni, per avere davvero problemi; in più, come poi Kuroko gli aveva detto mentre si cambiavano per tornarsene ognuno a casa propria, “Himuro-san ha un modo di giocare abbastanza simile a Kagami-kun. È sorprendentemente facile prendere il tempo con lui”.
E, doveva ammetterlo, l’accoppiata Kasamatsu-Hyuuga si era rivelata – forse per l’esperienza, forse perché entrambi capitani – più pericolosa di quanto si potesse credere all’inizio.
Dall’altra parte lui, Sakurai, Kiyoshi e Aomine si erano ben difesi: Sakurai non aveva avuto nulla di cui rimproverarsi, nei tiri da tre, rispetto a Hyuuga e Kise aveva iniziato a capire perché il Seirin si sentisse tanto al sicuro con Kiyoshi a dar man forte sotto canestro.
Eppure, nonostante il punteggio finale con davvero pochissimo di scarto, nonostante la sensazione provata nel giocare con avversari comunque di altissimo livello, nonostante il pensiero che lo aveva sfiorato per un attimo di come sarebbe stata una squadra formata da tutti i validi elementi delle varie squadre, era stata un’altra la cosa che l’aveva totalmente preso durante il match.
Era stato strano, all’inizio: era vero che avevano giocato insieme, nella stessa squadra e soprattutto quasi ogni giorno degli anni delle medie nell’uno contro uno, ma Kise non si era davvero mai reso conto di quanto conoscesse i movimenti di Aomine.
Forse perché quando aveva dovuto copiarli era stato principalmente nella partita ufficiale contro la Too, e in una situazione in cui doveva usare tutto contro Aomine e non certo a favore.
Invece era stato strano ritrovarsi non a dovergli andare in contro ma seguirlo di nuovo, cercarlo con lo sguardo non per una controffensiva ma per passargli la palla, o essere pronto ad un suo passaggio; vederne i movimenti, anticiparli e sapere già dove spostarsi non per rubargli palla, ma per essere di supporto o approfittare di una sua buona posizione per il tiro.
Strano.
Ad un certo punto, quando dopo un passaggio Aomine era andato a segno con un tiro di quelli che normalmente scoraggiavano i suoi avversari, una consapevolezza l’aveva colto quasi all’improvviso: era quello, che Kuroko aveva provato alle medie? Era così che si sentiva l’ombra di una luce forte come quella di Aomine?
Quel pensiero era stato spazzato via proprio dall’ace della Too, che gli aveva circondato amichevolmente le spalle con un braccio, con quel fare complice che era stato la normalità un tempo, commentando il suo passaggio.
Dejà-vu.
Sorridendo, e tornando in difesa.
Dejà-vu.

«E a quel punto, Aominecchi è andato a segno di nuovo! Praticamente lui e Kagamicchi hanno monopolizzato la prima metà della partita!» commentò imbronciandosi: «Poi però Kurokocchi è uscito perché con quel caldo non stava bene, e Kagamicchi ha rallentato un po’. Aominecchi invece sembra instancabile, ma non lo sente il caldo?» riprese il resoconto della partita che aveva occupato gran parte del suo pomeriggio.
Immerso nella vasca da bagno mentre sua madre si muoveva nell’antibagno, recuperando i panni dalla lavatrice ormai spenta e ascoltando passivamente la vena particolarmente logorroica del figlio.
«Santo cielo, Ryouta.» commentò con una risata sommessa e divertita, di quelle che le mamme rivolgono spesso ai figli, specie se li conoscono come le loro tasche «Alla tua età i tuoi discorsi dovrebbero essere monopolizzati dalle ragazze, non dai compagni del basket.» fece notare, in un modo bonario per prenderlo in giro.
«Ma mamma, dovresti vedere Aominecchi giocare! In confronto alle medie è persino migliorato!» si lamentò il biondo, spruzzando un po’ d’acqua con un movimento istintivo.
La sentì sospirare rassegnata, un accenno di risata ancora nella voce quando si raccomandò di non restare troppo a mollo nell’acqua, uscendo con un: «Non sei mai stato obiettivo, da che ricordo il tuo parlarmi di lui.»
Scosse la testa, inumidendo involontariamente i capelli alla base del collo, sentendo la porta del bagno richiudersi; beh, magari non era proprio obiettivo nel tessere le lodi dell’ex compagno di squadra, ma i complimenti erano meritati! Era innegabile che Aomine fosse uno dei giocatori più forti per quanto riguardava le squadre liceali.

«Non è stato strano, no.»

Semmai, lui aveva “viziato” Aomine nel suo atteggiamento, ai tempi delle medie, giustificando molte cose che – a conti fatti e con il senno di poi – non avrebbe dovuto prendere alla leggera. Ma a quei tempi non erano nemmeno una vera squadra, ed erano niente più che ragazzini. Esattamente come ora, se non si considerava la differenza di un concetto di “squadra” finalmente sulle spalle, come esperienza.

«Per quanto a quell’età potevo capire che farmi piacere un ragazzo
significava provare per lui le pulsioni che dovresti provare per una ragazza
.»

Ma al di là di quello, anche volendo non aveva potuto fare più di tanto; Aomine per lui era sempre stato lo scoglio da superare, il limite da raggiungere, l’idolo a cui guardare e sì, anche qualcuno che a modo suo l’aveva salvato – dalla noia, dall’accontentarsi, dal rassegnarsi.
Ma lui, per Aomine, non era stato niente di tutto quello: forse solo uno stimolo quando la stanchezza ti avrebbe obbligato a interrompere l’allenamento, e lui invece aveva ancora l’energia di concedergli l’uno contro uno, giorno dopo giorno.
Non bastava, non era bastato, però. Quindi, aveva pensato alla fine delle medie quando la loro “squadra” si era sgretolata come niente, non era stato un legame così forte, evidentemente.
Forse non era proprio mai stato un legame.

«Penso che ci siamo capiti, su cosa intendo, giusto?»

Perché se lo fosse stato, non sapeva allora né adesso che nome avrebbe mai potuto dargli.
Dopotutto come chiamavi l’ammirazione quasi cieca, che faceva male abbastanza da averti limitato nel tuo potenziale pur di vederlo brillare sul campo com’era stato in passato, che era stata assoluta tanto da mantenere da qualche parte dentro di lui – anche dopo aver deciso di non ammirarlo più per poter fare un passo in avanti – il desiderio di non vederlo cadere, fermarsi, perdere?

«Quando parlo di ‘pulsioni’, dico.»

Sbatté un paio di volte le palpebre, gli occhi che furono appena sgranati, lo sguardo fisso sulla mano.
Sotto l’acqua, vicino al bacino.
Troppo vicino.
Mossa inconsciamente, l’immagine dell’ex compagno di squadra nella mente, le parole di Jun nelle orecchie.
Portò la mano libera a coprire le labbra, allontanando l’altra dal proprio corpo.
…Non poteva essere, no.

 

   
 
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