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Autore: hugmedevonne    04/02/2013    23 recensioni
"bisogna usare ogni attimo che ti rimane da vivere, per vivere davvero."
"forse mi piaceva il sangue che scorreva sulla pelle pallida che mi portavo appresso."
hai mai amato un fantasma?
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ATTENZIONE: le tematiche sono leggermente violente. se sei autolesionista, smettila di farti del male, non lo meriti.

NOTA BENE: QUESTA NON E' UNA FANFICTION! NON RECENSITE "CONTINUA, BELLA!" grazie.




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Tracciai l’ultima parola dell’ennesimo racconto che avevo scritto distesa sull’erba.

Fin da quando ero piccola ho sempre amato sfogarmi con la scrittura di vari testi.
Forse era quello il mio unico modo per comunicare con le persone, visto che da quando iniziò la prima media nessuno sentì mai la mia voce. Quando facevano l’appello io alzavo la mano, intenta a scarabocchiare i miei pensieri confusi su un foglio stropicciato. Al momento delle interrogazioni, i professori mi facevano avvicinare a loro perché non riuscivano a capire quello che dicevo, per il mio tono di voce leggero e bassissimo. Avevo paura di essere giudicata. Insomma, ormai la società era così: anche se non parlavi, trovavano un modo di giudicarti. Io ero l’asociale della scuola, quella “strana”. Non era la prima volta che mi affibbiavano un nomignolo, ormai ci ero abituata. Per questo avevo delle cicatrici sui polsi.
- Eri autolesionista?-
- “Autolesionista”. Che brutta parola. No, più che altro ero una ragazza morta in passato, che amava incidersi i ricordi della sofferenza che aveva provato in vita. Forse, amavo il colore del sangue sulla pelle pallida che mi portavo appresso.-
- Se è vero che ti tagliavi, dove sono le tue cicatrici?- mi prese il polso e me lo indicò.
- Sono scappate. Avevano paura del mio sorriso vero. Che fifone.- ridacchiai.
- Quindi, hai smesso?-
Le presi il braccio. Anche a Hope piaceva segnarsi i ricordi sul polso. Sospirai.
- Sì. E dovresti anche tu.- lo sapevo da un mese, ormai.
Lei sbarrò gli occhi, coprendosi velocemente il polso con la manica lunga del maglione. Forse era troppo presto farle scoprire che sua madre sapeva che si tagliava. Lei si era così impegnata per nascondere il suo gioco. Non era divertente se finiva presto.
- Come hai fatto a vincere?-
- Non ho scelto io di smetterla, è stato il destino. Non devi aspettarti nulla dalla vita, devi solo far finta di essere una persona viva, finché lei non si accorgerà di te. E deciderà di salvarti, mandandoti qualcuno.-
- A te è successo?-
- Certo, molti anni fa. Ne avevo diciassette a quel tempo, e due anni dopo sei arrivata tu. Io ti racconterò la mia storia, ma tu devi promettermi che smetterai di far finta di vivere e comincerai a vivere seriamente. Me lo prometti?- le appoggiai le mani sulle spalle.
Hope annuì. La mia piccola bambina soffriva per i giudizi, come me.
Io non facevo niente perché anche io ero stata come lei. Piena di dubbi e silenziosa. Fortunatamente la scuola era finita, e lei aveva deciso di cambiare istituto, per iniziare una nuova vita da ragazza felice. Lei ne aveva avuto il coraggio, io no. Ma meglio così.
- Allora inizierò a raccontarti la mia storia strana, a cui stenterai a credere. Pronta?-
 

***


 
- Thompson.-
Alzai lo sguardo, cercando di non incontrare quelli dei miei compagni.
Con cautela annuii. Il professore mi lanciò un’occhiata per vedere se c’ero, poi silenzio.
Si sentiva solo il rumore flebile della penna che scriveva i nomi degli assenti. Ormai, durante questa operazione, non alzava più gli occhi, perché doveva sempre segnare un solo assente, un nome ripetuto tante volte quanto il ticchettio di un orologio: Bieber.
Non ero sicura nemmeno del suo aspetto. Nessuno lo era. Non conoscevo il rumore dei suoi passi, la sua voce, la sua condotta scolastica, neppure sapevo com’era fatto. Mi chiedevo sempre perché mancasse ogni giorno da scuola. Era venuto solo il primo giorno di scuola, ma era andato via una mezz’ora dopo. I professori non ce ne volevano parlare, liquidavano la questione con un semplice “E’ questione di privacy” e non volevano continuare più il discorso. Nessuno lo aveva mai visto scorrazzare per le strade del nostro paese, né si sentiva il suo nome spuntare dalla bocca di qualcuno; era come me, invisibile. Anche se esisteva, nessuno parlava di lui. Si chiedevano tra di loro “che fine avrà fatto?”.
- Forse è morto.- sussurrò una ragazza, Alex.
- Sarebbe ora schiattasse! Cosa vive a fare se non fa niente?- sentenziò Will.
Io avrei protestato verso quelle parole, però rimasi a pensare, immobile, nel limite del mio banco. “Cosa vive a fare se non fa niente?” era la domanda che ponevo a me stessa, sulla mia esistenza. Perché vivevo se non servivo a nulla? Sentii un bruciore provenire dalla manica del maglione. Con la mano opposta mi strofinai il polso per dare sollievo a quelle cicatrici ribelli che volevano svelarsi. “State buone, o vi scopriranno.” pensai.
Sussultai al tocco improvviso del ragazzo vicino a me, Christian.
Mi guardò sorridendo, era molto carino. Mi chiese con sguardo gentile se stavo bene.
Sbarrai gli occhi e mi voltai, cercando di non guardarlo negli occhi. Era tutto così imbarazzante. Mi limitai ad annuire timidamente, fino a che non sentii la pressione della sua mano alleggerirsi, fino a sparire. Lo spiai di nascosto, e notai che si era girato a guardare malinconico il banco dietro di lui, quello di Justin. Lui non c’era mai.
Probabilmente erano migliori amici. Era lui che rispondeva alle domande, colmando l’assenza di Justin Bieber, il ragazzo “fantasma”. Anche io ero come lui.
- Dov’eravamo arrivati con la Bibbia?- chiese il professore.
Un silenzio agghiacciante si impadronì della nostra classe, la più grande di tutti.
Nessuno sapeva dov’eravamo arrivati. O almeno, io lo sapevo, ma non spicciai parola.
Il professore sospirò, mi chiedevo perché si ostinasse a fare domande a cui nessuno rispondeva. Però lo capivo, anche io mi ponevo tante domande senza risposta.
- Thompson, vuoi leggere tu?-
- Prof., vuole farci addormentare? Se legge la strana, non sentiamo- commentò qualcuno.
Risolini e piccoli sghignazzi mi riempirono copiosamente le orecchie.
Sì, “la strana” ero io, era il mio stupido soprannome. Ero chiamata così perché non parlavo mai, non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me. Eppure, avevo fatto in modo da non attirare l’attenzione di nessuno, ma... la società troverà sempre un modo per giudicare anche solo un piccolo particolare che si distingui dalla massa.
Negai leggermente con la testa, segno che il prof. doveva chiamare scelta del lettore.
Mentre Caroline leggeva incespicando ad ogni parola leggermente difficile rispetto al suo vocabolario, io pensavo a che cosa c’era di sbagliato in me. Era una di quelle solite domande che mi ponevo in ogni momento, senza un preciso motivo. Forse perché mi sentivo continuamente un errore, perciò dovevo sempre ricordarlo a me stessa.
- E’ permesso?-
Una ragazza molto alta, con i capelli ricci e la pelle pallida varcò la soglia della nostra classe silenziosa. Caroline si bloccò e la guardò perplessa. Il professore la fece entrare, osservando i fogli che teneva in mano in modo maldestro. Si mise davanti alla lavagna.
- Buongiorno a tutti, volevo avvisarvi che da domani sarà possibile iscriversi al concorso di scrittura per dilettanti. Tutti potranno segnare il proprio nome sul foglio che appenderò in bacheca. Le iscrizioni dureranno una settimana. Dovrete semplicemente scrivere un bel testo di almeno duecento parole, su quello che volete.-
A quelle parole, mi si illuminarono di speranza gli occhi. Io amavo scrivere, era la mia unica ragione di vita. Avevo sempre in mano la matita, per scarabocchiare qualche poesia, qualche racconto, qualche piccola frase che mi era saltata in mente. Era la mia unica occasione per apparire importante agli occhi delle persone, dovevo vincere.
La ragazza ringraziò velocemente, poi augurò buon lavoro e sparì chiudendo la porta.
Il professore sospirò, sapevamo entrambi che non c’era nessuno della nostra classe che avrebbe partecipato... tranne me. Avrei dovuto iscrivermi di nascosto?
- Ragazzi, qualcuno di voi ha intenzione di provarci?-
Tutti risero. Non si sentivano ridicoli a non avere nemmeno un talento?
Nessuno faceva fotografie artistiche, nessuno cantava, nessuno disegnava, nessuno scriveva, nessuno suonava uno strumento. Erano tutte persone grigie, stampate con la fotocopiatrice, tutte con la stessa faccia, con gli stessi pensieri e gli stessi gusti.
- Come sospettavo. Nessuno vuole iscriversi...- si fermò.
Gli occhiali scivolarono giù dalla piccola gobba che il prof. aveva sul naso. Squadrò la mia mano alzata con i suoi occhi color pece per alcuni secondi, ancora incredulo. Quando tutti capirono perché il signor. McFill era rimasto allibito, si girarono verso di me, facendomi sentire in soggezione. I loro sguardi su di me mi facevano pentire di aver pensato anche solo per un momento di poter partecipare a quel concorso con tanta facilità.
- Thompson? Vuoi partecipare tu?- chiese, ancora sospettoso.
Per un attimo aprii la bocca per rispondere, poi mi accorsi che mi stava guardando l’intera classe. Non avevano sentito la mia voce fino a quel punto, e mai avrebbero dovuto sentirla. Annuii, fissando il mio quaderno degli appunti pieni di scarabocchi neri.
- Ok, allora dopo ti do il permesso di andare ad iscriverti.-
Nemmeno aveva finito di dirlo, che sentii intorno a me dei bisbigli.
- Perché la strana vuole partecipare? Quella è matta, chissà che scrive...-
- E se poi scoprono che fa parte della nostra classe? Sicuramente ci rovinerà la reputazione.-
- Speriamo non combini dei guai, se no gliela facciamo pagare.-
Come sempre feci orecchie da mercante, ignorando quello che dicevano.
Non m’importava più, ormai le loro parole mi attraversano il corpo come lame di carta, ma io non sentivo alcun dolore. Ero già morta.
 

***


 
“La gente non capisce che sono il frutto delle mie lacrime.”
Picchiettai i due fogli uniti con una graffetta blu sul tavolo, dopo tre ore che scrivevo.
Ero fiera del lavoro compiuto fino a quel momento, ed ero sicura che non sarei passata inosservata, poiché avevo affrontato argomenti che sicuramente a nessuno erano passati nemmeno dall’anticamera del cervello. Bullismo, autolesionismo, la mia continua e noiosa vita basata su polsi sgorganti di sangue, lacrime amare sulle guance e continue crisi di rabbia che mi portavano a distruggere le cose. Forse ero stata troppo dura?
Rilessi velocemente l’inizio, poi, però mi fermai. Non mi piaceva rileggere quello che avevo già pensato prima, anche perché tremavo dalla paura di trovarci qualche strafalcione che avrebbe rovinato tutto il lavoro svolto con tanto impegno.
Chiusi gli occhi e per la prima volta sorrisi soddisfatta, ma per poco: in quel momento mille pensieri e flashback mi passarono per la mente. E se ignorassero il mio racconto, buttandolo per terra e passandoci sopra come se fosse una busta di plastica per strada? E se ricevessero il mio manoscritto, leggendo il mio nome, si chiedessero chi diamine sono, e lo buttassero credendo fossi di un’altra scuola? Una fitta al cuore mi fece sbarrare gli occhi. Mi alzai facendo scricchiolare la sedia, poi appoggiai i palmi delle mani sul tavolo davanti a me, iniziando a sudare freddo. Era così difficile vivere morendo dentro.
- Nessuno sa il mio nome.- lentamente mi misi dritta, fissando i fogli bianchi.
- Nessuno sa che esisto.- mi portai le braccia vicino al viso.
- Nessuno si accorge che sono morta due anni fa.- bagnai il polso rosso con una lacrima.
Un lampo improvviso mi percorse il buio della mente, riportando immagini orribili.
“Cazzo. Maledetti ricordi. Perché non sparite?” chiesi piangendo.
Due anni fa, quand’ero ancora in seconda media, ero morta dentro, per sempre.
Avevo ancora il mio corpo. Forse lui non era ancora pronto ad abbandonare la terra, ma la mia anima sì. Me ne accorsi dentro quel cassonetto dell’immondizia. Quello dove mi avevano ritrovato due ore dopo, immersa nella merda. Quello dove due ragazzi mi avevano buttata, dopo avermi gonfiata di botte. Sei ridicola, dicevano. Fai schifo, urlavano.
Diedi un calcio alla sedia, urlando la mia rabbia repressa.
Potevo, almeno per quelle due ore che non c’era mia madre. Potevo fare qualsiasi cosa.
Però non dovevo, in fondo non avrebbe avuto senso, niente aveva senso.
Cercai di calmarmi con un thè ai frutti di bosco. Scrissi il mio nome, la mia classe e la mia scuola di appartenenza, per evitare che non sapessero chi fossi. Sarebbe capitato, lo so...
Infilai i due fogli in una busta, poi la richiusi. Dovevo aspettare il giorno dopo per consegnare il mio lavoro al professore, che non si sarebbe mai aspettato che qualcuno della sua classe volesse partecipare a un concorso di scrittura. Di solito parlavano tutti di maschi, trucchi, discoteca, minigonne, vestiti succinti e tanti argomenti stupidi. Noiosi.
Mi alzai dalla sedia, accostandola al tavolo con cura. Andai in cucina e riposi la tazza vuota su un ripiano. Mia madre odiava quando non mettevo le cose sporche dentro la lavastoviglie, ma le posavo su quella mensola con nonchalance. Guardai l’orologio, erano quasi le dieci e mia madre non era ancora tornata da lavoro. Si spaccava la schiena ogni giorno per dodici ore, visto che mio padre ci aveva abbandonate entrambe quando io avevo tre anni. Si era rifatto una vita: aveva una fidanzata e due figliastre.
Raggiunsi la mia camera al piano di sopra, e mi addormentai, sperando che in qualche modo il tempo che mi allontanava dalla consegna passasse più velocemente. Speravo ogni minuto di svegliarmi la mattina dopo e ricevere finalmente un sorriso dai miei compagni.
La sveglia delle otto mi fece sbarrare gli occhi all’improvviso. Sentii un tintinnare di tazze dalla cucina, e capii che mia madre era sveglia e si stava dando da fare per preparare la colazione. Mi tolsi le coperte, mi lavai e mi vestii, poi scesi e mangiai velocemente.
- Oggi hai qualche verifica?- chiese mia madre, ancora stanca.
- No, mamma.-
- Hai studiato per le interrogazioni?-
- Non ce ne sono, mamma.- presi lo zaino, salutai.
Arrivai appena in tempo a scuola, prima del secondo suono della campanella, mentre mezza scuola era ancora fuori a chiacchierare. Salii le scale velocemente, tenendo stretta al petto la busta con il mio racconto; mi girai indietro, sentendo che anche tutti gli altri stavano salendo le scale, quindi velocizzai il passo per non essere sovrastata da quella massa di bufali. All’improvviso andai a sbattere contro qualcuno. Caddi per terra.
- Oh, scusami. Ti sei fatta male?- un ragazzo mi allungò la mano.
Alzai lo sguardo, incontrando i suoi occhi color nocciola. Arrossii bruscamente.
Mi aiutò ad alzarmi, mentre io guardavo le mie converse rosse, cercando di non incontrare di nuovo il suo sguardo che mi aveva colpita subito.
- Io sono Justin, piacere.- sorrise.
Annuii, poi mi ricordai perché andavo di fretta.
- Partecipi al concorso di scrittura? – guardò il mio nome sulla busta – Emily.-
A sentir pronunciare per la prima volta il mio vero nome e non “la strana” mi si illuminarono gli occhi. Un ragazzo bello, alto e gentile mi stava parlando, proprio a me.
- Sì.- risposi, abbozzando un sorriso incerto.
Prima di rispondere mi ero guardata intorno, per evitare di essere sentita da qualche mio compagno. Forse lui era il primo, dopo i professori, ad aver mai sentito la mia voce.
- Allora sai parlare!- ridacchiò, poi guardò l’ora sul cellulare.
- Oh, stanno per iniziare la lezione. – riguardò la mia busta – Siamo nella stessa classe!-
Sbarrai gli occhi. Justin... Justin Bieber, certo! Era il ragazzo che non veniva mai a scuola. Come mai d’improvviso si era deciso a tornare a scuola? E perché mancava sempre?
- Sì. Devo andare anche io.- risposi, sorpassandolo.
Ancora non c’era nessuno nell’aula, menomale. Solo il professore era appena entrato, e stava appoggiando giubbotto e borsa. Justin mi fermò e mi chiese di andare insieme fino alla 1° D, la nostra classe. Feci un cenno con la testa, continuando a camminare veloce.
Entrai nell’aula, appoggiando lo zaino sul mio banco. Justin fece lo stesso.
Era vicino a me. In quel momento mi sentii fortunata, potevo continuare a guardare il suo viso così bello da sembrare finto. Scrollai le spalle cercando di non pensare a lui, poi appoggiai la busta sulla cattedra del signor. McFill, che sembrava compiaciuto.
- Bel lavoro, ci hai messo pochissimo. A ricreazione lo consegnerò!-
- Uhm.- risposi, cercando di non farmi sentire troppo.
- Buona fortuna, Emily.- Justin mi sorrise quando mi sedetti al mio banco.
- Eh... ehm... g-grazie.- risposi imbarazzata, togliendomi il berretto rosso e mettendolo nel cappuccio della giacca. Cercai di coprirmi la vista con i capelli.
Quando tutti entrarono salutandosi contenti, iniziò la lezione. Christian, il ragazzo che mi aveva parlato, salutò felicissimo Justin, che ricambiò.
- Ehi ragazzi, avete visto? C’è il ragazzo che manca sempre... Bieber!- fece notare Will.
- E’ carino...- sussurrò Sophia, rivolgendogli uno sguardo malizioso.
- Bentornato Justin, spero tu stia meglio.- disse il prof., sorridendo metallico.
- Grazie, spero di potermi rimettere alla pari con il programma.-
Ci fu un attimo di silenzio, seguito da dei bisbigli. Qualcuno alzò la mano.
Il signor. McFill si alzò gli occhiali neri sul naso, poi con un gesto diede la parola ad Alex.
- Posso fare una domanda a Justin?- chiese lei, annoiata.
Il professore annuì. La ragazza si girò verso di lui.
- Perché manchi sempre da scuola?-
Justin si morse leggermente il labbro, un po’ imbarazzato dalla richiesta. Aprì la bocca per rispondere, ma fu bloccato dal colpo che diede il professore al banco di Alex, facendola sussultare dallo spavento. Tutti si zittirono, aspettandosi un rimprovero.
- Non sono affari tuoi, Smith.- disse, con tono sprezzante.
- Mi scusi professore, non c’è bisogno di essere così arrabbiato, se vuole saperlo, posso dirglielo.- interruppe Justin, alzandosi dal banco.
Andò davanti alla lavagna, appoggiandosi stranamente alla scrivania. Sorrise con gli occhi stanchi, impercettibilmente rossi. Il prof. lo guardò perplesso, poi annuì.
- A me dispiace mancare da scuola, vorrei avere una vita normale, ma purtroppo non posso. Da quando sono nato, sono costretto a “vivere” in continuo movimento tra casa mia e l’ospedale. Ho un problema al cuore, quindi molto spesso svengo, non mi arriva l’ossigeno e... potrei morire da un momento all’altro. Grazie per avermi ascoltato.- sorrise.
Io mi lamentavo della mia vita orribile... eppure c’era chi stava peggio. Lui aveva il coraggio di mostrare il suo sorriso più forte, anche se era malato, lui era felice, anche se sapeva di avere una vita corta. Trattenni le lacrime che mi fecero diventare gli occhi lucidi, mentre il labbro inferiore mi tremava.  Non sembrava per niente triste di affermare che sarebbe morto in poco tempo. Lo fissai finché non raggiunse di nuovo il suo banco.
Nessuno disse niente. Per la prima volta la società non aveva nulla da dire?
Il professore sbuffò, poi cercò di attirare l’attenzione verso di sé, chiedendo i compiti.
“Quel sorriso non è finto come il mio” pensai, guardandolo.
- Scusate, cerco... Emily Thompson.-
La nostra classe non aveva mai ricevuto così tante visite in una settimana: era già la quinta interruzione da parte di bidelli e altre classi... ma era la prima volta che qualcuno chiedeva di me... e sapeva della  mia esistenza. Alzai lo sguardo dal libro.
- Sì?- rispose il professore.
- Per caso hai il tuo racconto pronto?-
Anche se si stava rivolgendo a me, guardava il signor. McFill, che si alzò e portò la busta dove c’erano i miei fogli alla ragazza di terza. Lei ringraziò e chiese scusa per l’interruzione, poi uscì. Rilasciai il respiro, emozionata. Non mi ero accorta di non star respirando da quanto ero nervosa. E se poi non piaceva il mio racconto? E se era troppo duro per i canoni delle superiori? Lo avrebbero scartato,  disgustati.
- Spero vincerai. Anzi, ne sono sicuro.- sussurrò Justin con il suo sorriso luminoso.
- ... grazie... Justin.- avevo parlato così piano che quasi non lo sentì neppure lui.
Lo sentii tossire, mentre stava iniziando a sudare.
- Tu... tutto bene?- chiesi, preoccupata.
- S-sì... stai tranquilla, era solo un po’ di tosse.- ridacchiò, asciugandosi la fronte.
Lui era l’unico che credeva in me. Mi dava la forza di vivere... veramente.
 

***


- Il terzo posto per il miglior racconto va a...-
Il rullo di tamburi andava in sincronia con il battito del mio cuore.
Avevano letto venti racconti, e tra quelli il mio non c’era. Iniziai a pensare che l’avessero scartato veramente.
- ... a Mark Coppola, 2°A,  scrittore di “Gatti volanti”!-
Gli applausi riempirono il grande teatro, dove si teneva il concorso. Applaudii contenta di non essere al terzo posto, ma triste perché magari avevo perso l’occasione di essere tra i primi tre posti. Qualcuno mi picchiettò la spalla, io alzai lo sguardo.
- Ehi Emily, non ci sono più posti. Possiamo sederci vicino a te?- chiese Christian.
- Oh... sì.- sorrisi imbarazzata, quando vidi che c’era Justin dietro di lui.
- Sei nervosa? Anch’io lo sono per te.- disse lui, sedendosi accanto a me. Ridacchiò.
- Speriamo vincerai almeno il secondo posto!- esclamò Christian.
- Già...-
Quando gli applausi finirono, mentre Mark prendeva il premio e faceva un inchino, una ragazza zampettò sul palco, prese il microfono e lesse il racconto. Era carino, ma niente di che. Forse troppo da bambini... insomma, parlava di un’invasione di gatti che volavano.
Durava più o meno cinque minuti, quindi circa cento parole. Era corto, ma carino.
- A me non è piaciuto.- Christian sospirò, un po’ annoiato.
- Infatti, nemmeno a me. A te, Emily?-
- Non molto.-
La ragazza, che era di seconda e si chiamava Deborah, scese dal palco e si mise di nuovo a sedere, mentre l’annunciatore riprese il microfono, tenendo in mano il foglio dove c’erano scritti gli altri due vincitori. Il primo premio era l’esposizione del proprio racconto sulla bacheca della scuola, proprio all’entrata, dove tutti potevano leggerlo.
- E il secondo posto per il racconto più bello va a....-
Incrociai le dita, strizzando gli occhi. “Il secondo posto va benissimo, è bello anche quello.”
Justin mi guardò, poi mi prese la mano che tenevo appoggiata sulla gamba. Arrossii bruscamente quando mi accorsi che mi stava tenendo per mano, ma lui non mi guardava, sorrideva fissando il palco. Sorrisi un po’ timidamente, sperando che nessuno ci vedesse.
- ... a Aibileen Turner, 3°B,  che ha scritto il bellissimo “Pioggia d’autunno”!-
La ragazza salì sul palco, molto emozionata. Era tutta rossa in faccia, e quasi piangeva.
Applaudirono tutti quanti. Molti della sua classe urlarono “Brava Aibee!” e fischiavano. Guardai la mia classe, la prima D. Loro non lo avrebbero mai fatto. Lessero il racconto, che era decisamente più interessante di quello di Mark. Però le mancava lo stile, la storia era bella e molto più lunga di “Gatti volanti” però mancava qualcosa.
- Questo è carino, però non mi convince.- mormorò Justin.
- A me piace tanto. Emily, sai fare molto meglio di lei, vero?- domandò Christian.
- Non lo so...- dissi, continuando a fissare la mano di Justin sopra la mia.
Il primo posto. Ora dovevo puntare a quello. Dovevo vincere, era tutto quello che volevo. Non mi importava se tutti avrebbero sentito quello che avevo scritto, in fondo c’era poco della mia vera storia. Avevo solo detto che molto spesso la gente giudica senza conoscermi, e che sono un po’ debole, ma nient’altro. Mi ero incentrata più sulle sensazioni che si provano ad essere vittime di bullismo. Avevo anche dedicato dieci righe alle persone che si autolesionano, senza dire che ne facevo parte.
- E il primo posto va al racconto migliore, il più bello in assoluto. Aggiungo che è stato molto difficile sceglierlo, ma ricordatevi: avete vinto tutti! Il primo posto va a....-
Chiusi gli occhi. Trattenni il respiro. Sentii la pressione della mano di Justin farsi più forte. Un sussurro mi riempii l’anima. “Ce la puoi fare” aveva detto Justin, nel mio orecchio.
- ....!- urlò il presentatore.
Non sentii nulla, solo gli urli della mia classe, di Justin, di Christiane di tutta la scuola.
Riaprii gli occhi, rilasciando il respiro. Sentii le lacrime scendermi dagli occhi.
- Complimenti Emily Thompson!- esclamò l’annunciatore, sorridendo.
- Emily, hai vinto il primo posto! Hai vinto!!- urlò Justin, abbracciandomi felice.
Sbarrai gli occhi. Quell’abbraccio... quello mi risvegliò da quel sogno reale. Piansi.
- Grazie, grazie mille- ricambiai l’abbraccio, poi mi alzai.
Andai sul palco, sentendomi benissimo davanti a tanta gente per la prima volta. Mi diedero la coppa che era più grande delle altre due, color argento, il mio nome inciso su di essa e la scritta “Primo posto” sotto. Sfoggiai un sorriso vero. Deborah, la ragazza di prima, salì sul palco e mi disse che adorava il mio testo, poi si avvicinò al microfono e lo lesse con passione, mentre tutti stavano zitti. Nessuno fiatava, erano tutti presi da quel racconto che aveva scritto Emily Thompson, conosciuta come anche la Strana, o la ragazza invisibile; ora ero solo Emily, 1°D, vincitrice del concorso di scrittura.
Mi diedero la coppa e una copia del mio manoscritto, incorniciato e riscritto con una calligrafia gotica e molto elegante, che mi dava ancora più soddisfazione. Era stupendo.
Ringraziai con cenni della testa tutti quelli che applaudivano, poi ritornai al mio posto.
- Sono così contento, te lo meritavi.- disse Justin, con un sorriso folgorante.
Mi conosceva da così poco, eppure, rispetto ai miei compagni che mi conoscevano dalle medie, aveva già preso confidenza e soprattutto, mi trattava da amica. Per lui non ero mai stata “la Strana”. E se... fosse stato così gentile solo perché mancava così tanto da non sapere nulla di tutto quel bullismo verso di me? Se si fosse comportato come gli altri?
- Grazie, anche io sono molto felice...- risposi, sorpresa di me stessa per aver usato più di due sillabe.
- Non vedo l’ora di vederlo attaccato sulla bacheca scolastica.- fantasticò Christian.
- Anche io.-
Mi girai verso Justin, che guardava il palco dove c’erano alcuni professori a ringraziare di essere lì, eccetera. Sorrisi senza accorgermene, mi veniva spontaneo sorridere a quel ragazzo che era diverso, come me. Non dovevo affezionarmi, però.
 

***


In mezzo a tutta quella folla di persone che tornavano alle noiose lezioni, avevo perso Christiane Justin, ma probabilmente erano più avanti. Li cercai, finché vidi Christian, da solo.
- Ehi, dov’è andato Justin?- chiesi, avvicinandomi per non urlare.
- Ah, è dovuto scappare perché doveva fare delle analisi. Mi ha detto di dirti una cosa.-
- Uhm... cioè?-
- “Dille che all’una la aspetto fuori da scuola. Le devo parlare” ha detto così.-
Sapevo di essere diventata improvvisamente rossa. Anche se non sentivo caldo, sapevo benissimo di essere incredibilmente imbarazzata. Era tutto nuovo per me: nessun ragazzo mi aveva mai detto che mi avrebbe aspettata... nemmeno mio fratello, o mio padre. Era così strano. Annuii leggermente a Christian, che sorrise.
Verso le 12.55, quando il suono della campanella annunciò la fine della prigione, il cuore cominciò a battermi più forte del solito. Ero forse in ritardo? Magari se n’era già andato, dovevo sbrigarmi? Scesi le scale, sorpassando tutti. Tremavo dall’emozione.
Quando uscii, vidi il suo sorriso da lontano. Gli si illuminarono gli occhi. Mi guardai intorno, poi mi avvicinai con diffidenza. Se mi avesse vista qualcuno della classe, sarebbero stati guai grossi. Sarei diventata “La Strana che parla con l’Invisibile”.
- Ciao Emily, scusa per prima, ma dovevo andare via.-
Mi mostrò il braccio, dove c’era un cerotto bianco verso l’incavo del gomito.
Rabbrividii. Si vedeva una macchia di sangue che traspariva dal cerotto, era orribile.
Poi però, i miei occhi scivolarono per sbaglio poco più sotto quella garza bianca, sul braccio. C’erano dei sogni rossi, sembravano freschi. A volte usciva una goccia di sangue da quei... tagli. Era autolesionista. Cercai di non far notare che l’avevo visto, anche se lui mi stava seguendo con lo sguardo, ma si limitò a sorridere timidamente.
- Comunque, volevo dirti se ti andava di uscire a fare una passeggiata con me.-
- ... d-davvero? Con... me?!- sbarrai gli occhi, sorpresa.
- Certo, perché no? Siamo amici!-
“Amici”. Che parola nuova per me. Sorrisi, con il labbro inferiore che mi tremava.
Si abbassò la manica, che era sporca proprio sopra i tagli. Lui... lui era proprio come me. Sorrideva, ma dentro moriva... era così triste.
- Sì, quando?-
- Questo pomeriggio, verso le cinque, ok?-
- Ok, ci sarò. Sono contenta che tu voglia uscire con me, ma...- mi bloccai.
Guardai di nuovo le macchie di sangue. Sembravano freschi, grondanti di sangue. Sapevo che non era andato a fare le analisi, quel cerotto era una scusa. Era andato via e si era tagliato... ma perché? Senza pensarci due volte, alzai le mani, e lentamente, le avvicinai al suo braccio. Lui non si mosse, aveva lo sguardo perso nel vuoto. Non mosse nemmeno un muscolo, non cercò di fermarmi. Alzai con cautela la manica, che intanto stava diventando rossa, come il sangue che gli scorreva da quei tagli così brutti da vedere.
- J-Justin... perché?- ormai non riuscivo a trattenere le lacrime.
Scoppiai a piangere. Lui... non doveva! Lui era la mia parte forte, era lui che doveva essere felice anche se non era fortunato! Era Justin quello contento... non doveva commettere quell’errore. Appoggiai la fronte al suo braccio, piangendo lacrime amare.
La scuola era vuota, tutti se n’erano andati ormai. Era completamente deserto.
- Ti vorrei chiedere la stessa cosa.- mi accarezzò i capelli che mi uscivano dalla cuffia.
Justin... lo sapeva? Si era accorto di tutto...?
- Emily. – mi fece alzare lo sguardo verso di lui. – Che ne dici, se invece di andare a passeggiare al parco della città... andassimo in questo qui vicino, stando seduti per terra? Ti va? Io vado sempre lì quando ho bisogno di stare meglio.-
- E funziona?-
- A volte sì.-
Mi prese la mano, poi mi accompagnò fino a lì.
Quel parco non lo frequentava nessuno, preferivano il Bass Park, in centro. Era solo “frequentato” assiduamente da piccioni, scoiattoli, cigni e anatre che sguazzavano nel laghetto che dava l’idea di essere il centro principale di una piccola città in campagna, con solo due abitanti: io e Justin. Ci sedemmo sull’erba che un po’ era bagnata dall’umidità, ma era rilassante. Strappai dei filetti e ci giocai.
- Come fai a sorridere, se poi soffri così tanto?- chiesi, osservando le anatre.
- Sai, le persone che sorridono spesso, sono le più tristi.- ridacchiò.
- Io non sorrido mai, eppure... lascia perdere. Mi sento una stupida egoista.-
- Perché?-
- Perché tu soffri molto di più... io non ho niente per cui soffrire, o tagliarmi...-
- Quindi provi pena per me solo perché ho poco da vivere?-
- No! No! Cosa dici? Non è vero! E’ che io...- mi si bagnarono gli occhi, involontariamente.
Rimase in silenzio, poi appoggiò la mano sulla mia, facendomi avvampare.
Lo fissai un po’ sorpresa. Era molto lunatico. Poi lo vidi che mi guardava negli occhi.
- Hai dei begli occhi.- sussurrò.
- Grazie... anche tu... credo.- non guardavo mai nessuno negli occhi.
Ancora quel silenzio che mi ghiacciava il sangue. Cercai di distogliere lo sguardo con indifferenza, ma non riuscivo a staccare gli occhi dai suoi color miele. Cosa stavamo facendo? Perché continuavamo a guardarci così? Justin esitò un attimo, poi con un sorriso chiuse gli occhi e mi sfiorò le labbra. Sbarrai gli occhi, diventando rossa più di quanto non lo fossi già. Non era stato violento. Mi aveva solo sfiorato le labbra, ma per me era il primo bacio, ed era stato fin troppo spinto, ma ero felice, veramente.
- Bisogna usare ogni attimo che ti rimane da vivere, per vivere sul serio- sussurrò.
Non provai nemmeno a rispondere, rimasi bloccata nella stessa posizione anche se lui si era allontanato e aveva ricominciato a guardare il lago con interesse.
- Perché mi hai baciata?- domandai, ancora stordita.
- Te l’ho detto.-
- Ma perché hai baciato me?-
- Conosci quella profezia giapponese dei fili rossi del Destino? Ognuno ha legato al proprio mignolo un lunghissimo filo rosso, che termina legato al mignolo di una persona importante... la sua anima gemella, quella che sa veramente cosa prova l’altra. Quella che capisce cosa si prova a soffrire per la propria vita... quella che vorrebbe essere morta.-
A quelle parole, pensai stesse scherzando. Mi aveva letto nel pensiero, o si era inventato tutto? Come faceva a sapere che io e lui eravamo praticamente uguali?
- In poche parole... tu mi piaci, Emily- disse, con un rossore sulle guance che nascondeva.
Rimasi scioccata, non ci credevo. Non era possibile, stavo sognando. Un ragazzo così bello, così gentile, così sofferente, che diceva a me di piacergli. Era meraviglioso.
- Anche... anche tu. Da quando ti ho visto... in cima alle scale...-
- So che magari è troppo presto per dirlo, ma penso... di amarti. Siamo legati.-
- Tu provi le stesse cose che provo io.- dissi, cercando di non mostrare il mio sorriso velato.
Si limitò a stringermi tra le sue braccia, scrollandomi di dosso tutte le mie paure. Per la prima volta piacevo a qualcuno, a qualcuno che soprattutto ricambiavo.
Era forse un sogno?
 

***



Il giorno dopo mi svegliai così di buon’umore che anche mia madre si spaventò.
- Come mai così euforica?-
- E’ una bella giornata... a scuola.- mentii, anche se non ne ero capace.
Presi la mia merenda, le diedi un bacio e scappai. Appena arrivata in classe, mi guardai intorno, e odiai meno i miei compagni giudicatori di ogni forma vivente presente nel mondo. Ignorai i loro sguardi curiosi che notavano uno strano sorriso sulla mia faccia.
- Buongiorno!- dissi a Christian.
Lui si voltò verso di me, ma non rispose. Aveva le occhiaie e gli occhi rossi. Mi guardò con un’espressione strana. Gli era successo qualcosa? Forse un’interrogazione. Non ricambiò il saluto, anzi, mi ignorò e continuò a fissare un segnaccio sul suo banco, fatto con il compasso... strano, non mi ricordavo ci fosse scritto qualcosa. Mi avvicinai con cautela, poi cercai di guardare cosa c’era scritto. Vidi quella parola. Quella parola schifosa, idiota, piena di odio. Strinsi i pugni. “Frocio”. C’era scritto così. Un segno indelebile, come quello sul cuore di Christian. Lo guardai, mentre lui bagnava il banco con le lacrime che cercava di nascondere. Non resistetti, mi avvicinai e coprii con le mani quel segno.
- La mia vita è una merda- mormorò tra i singhiozzi.
- Non è vero... hai tanti amici!-
- Sono stati i miei “amici” a scrivermi questo!- urlò, pieno di ira.
- Perché lo hanno fatto...?-
Si mise le mani nei capelli, arrendendosi al proprio pianto. Strizzò gli occhi.
- PERCHE’ LO SONO!- disse seccamente, sbattendo le mani sul banco.
- Sei... sei omosessuale...?-
- Mi piaceva un mio amico, gliel’ho detto... lui ha riso, poi... mi ha sputato in faccia. Lo ha detto a tutti quanti... mi hanno picchiato fino a farmi venire dei lividi viola sulle gambe... poi mi hanno fatto questo...- alzò la manica.
Mi coprii la bocca con la mano, riducendo i miei occhi a delle fessure grondanti di lacrime fresche di giornata. Sul suo braccio, inciso con lo stesso compasso, c’era scritta la stessa parola, “Frocio”, pulsante di sangue ai margini, abbastanza profondo. Gli presi la mano, poi lo guardai triste. La mia espressione cambiò immediatamente, quando vidi che prendeva una lametta tolta dal temperino, con un ghigno stampato in volto. Indietreggiai.
- No, non essere dispiaciuta. Tanto, tra poco sarà tutto finito.-
- Che cosa...?!- negai con la testa, incredula.
Non mi ero accorta che tutta la classe si era girata per qualche secondo, assicurandosi che io avessi davvero parlato. Poi però si rigirarono, ricominciando a fare il solito casino che copriva la mia voce e quella di Christian.
- Vedi questa vena? – la indicò – questa farà finire la mia vita. Un taglio profondo, e morirò.-
- Non... non puoi farlo...-
- Oh, invece lo farò. Oggi, quando tutti saranno usciti da scuola. In bagno.-
- MA DOV’E’ JUSTIN?- esclamai, con le lacrime agli occhi.
Mi guardai intorno, vedendo il suo banco vuoto. Poi, ritornai a guardare Christian, che intanto aveva cominciato a piangere un’altra volta. Questa volta sembrava fuori di sé, quello era vero dolore che gli scalfiva il viso. Soffrii, senza capire.
- Justin...- sussurrò, ma fu interrotto dalla porta che si aprì.
Entro la prof. Holiees, insegnante di inglese, seguita da Deborah, la ragazza che annunciava al concorso di lettura, ancora me la ricordavo. Era in lacrime, ma cercò di non farlo notare. Si mise al suo solito posto, davanti alla lavagna, mentre la Prof. vicino a lei fissava il pavimento con occhi vitrei. La classe si ammutolì.
- Buongiorno a tutti, ragazzi.- disse Deborah.
- Te la senti, Deborah?- chiese la Prof, cercando di sussurrare invano.
La ragazza non rispose, si limitò a coprirsi il viso con il braccio e a passare alla signora Holiees il foglio che teneva prima in mano. Alla Prof. tremavano le mani.
- Mi duole avvertirvi di un brutto avvenimento. Oggi, alle cinque e mezza del mattino, abbiamo perso una persona molto importante per questa scuola, che anche se non molto presente, otteneva ottimi voti, era gentile, ma soprattutto lottava con il sorriso. Purtroppo ci ha lasciati...-
Le gambe mi cedettero. Ero ancora vicino a Christian, quando sentii il cuore fermarsi.
Caddi seduta per terra, con gli occhi rossi, i polsi che avevano ripreso a sanguinare, i lividi che pulsavano sotto il peso del mio corpo. Sbarrai gli occhi, fissando un punto impreciso. Non poteva essere. Mi misi le mani sul cappello, poi mossi la testa più volte. Le lacrime non uscivano, ero un deserto. Era uno scherzo, un incubo?
- ... Justin Bieber.-
Justin Bieber. Justin Bieber. Mi rimbombava nelle orecchie.
Non era... No... no... non era possibile, era solo un sogno... mi sarei svegliata.
Lanciai un urlo disumano, iniziando a piangere disperata. Presi a pugni il pavimento, fregandomi dei bisbigli dei compagni “Questa è pazza” “Ma ha una crisi isterica?”. Christian si alzò di scatto e cercò di farmi alzare, ma io mi distesi ancora di più. Non riuscivo ad alzarmi, sentivo le gambe che si rifiutavano di rispondere ai miei comandi. Christian mi prese per le spalle e cercò di scusarsi per non avermelo detto prima. Io però, non lo ascoltavo.
- LASCIAMI STARE!- gridai con la voce rauca, poi di scatto corsi via.
Afferrai la mia borsa, poi uscii dalla classe, senza essere fermata da nessuno, nemmeno dalla Professoressa, che continuava a fissare un punto impreciso per terra, ancora scioccata da quello che aveva letto. Scesi le scale così velocemente che rischiai di cadere più volte. Scansai le bidelle e gli altri alunni della scuola che girovagavano; con il palmo della mano feci spalancare la porta, con lo sguardo offuscato dalle lacrime. I gradini della scuola sembravano doppi, facevo fatica a riconoscere quali erano veri, poi rimasi lì.
- Justin... Justin...- sussurrai, cercando il suo sguardo in quella piazza deserta.
Buttai la borsa per terra, prendendo il cellulare e le chiavi di casa. Dei libri non mi importava, nessuno li avrebbe rubati. Rimasi per alcuni minuti lì, senza sapere cosa fare. Perché ero lì? Perché ero scappata? Forse non volevo più vedere nessuno?
Un pensiero mi balenò all’improvviso. “Che ne dici, se invece di andare a passeggiare al parco della città... andassimo in questo qui vicino, stando seduti per terra? Ti va? Io vado sempre lì quando ho bisogno di stare meglio.” Il parco della scuola. Funzionava.
Senza fretta lo raggiunsi, ancora scossa da quello che avevo sentito, ma speravo fosse un brutto scherzo. Quando arrivai, vidi che c’era qualcuno seduto sulla panchina. Allora non era poi così disabitato quel parco, forse la nostra città stava diventando importante. Ero un po’ diffidente, insomma, chi era quello che era seduto sulla panchina? Mi avvicinai facendo finta di niente, ma non riuscii più a sorridere a lungo. D’improvviso sbarrai gli occhi, trattenendo l’urlo che volevo lanciare in aria. Fissai quel ragazzo. “Che cosa?”
Lui si girò, un po’ sorpreso. Avevo schiacciato un rametto, attirando la sua attenzione. Quando mi vide, sorrise contento della mia presenza. “Che cosa?” ripetei nella mia mente.
Si alzò, cercando di avvicinarsi, ma io mi allontanai, trattenendo le emozioni a denti stretti. Allungò le braccia verso di me. Scossi la testa con gli occhi spalancati.
-... Emily?- disse, con una voce allenata.
“CHE COSA?!” gridai a me stessa, ancora incredula.
- ... AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAH!- scoppiai in un secondo.
Strizzai gli occhi, coprendomi le orecchie come una matta. Feci cadere il cellulare che fortunatamente si salvò grazia all’erba morbida del parco. Il ragazzo cercò di tranquillizzarmi, ma io urlavo così forte  che lui non riusciva nemmeno a farsi sentire.
- EMILY! EMILY CALMATI! EHI!- cercò di prendermi le spalle, ma non lo fece.
- TU..... TU ERI... LA SIGNORA HOLIEES AVEVA DETTO.... E POI TU.... E ORA....- farfugliai.
- Lo so, lo so! Ma ora calmati, posso spiegarti tutto!- mi allungò la mano.
Gli diedi un colpetto; non volevo nemmeno che mi toccasse. Però accadde una cosa strana. La mia mano trapassò la sua, poi tornò normale. Era... un ologramma? Una visione?
Ok, era ufficiale. Probabilmente ero diventata pazza, e mi stavo immaginando tutto. I miei occhi già troppo spalancati diventarono così aperti che sembravano per uscirmi dalle orbite, mentre il labbro inferiore mi tremava. Lanciai un altro urlo acutissimo.
- Emily, per favore, cal-ma-ti!- sillabò, accentuando con un movimento di mani.
- .... TU SEI MORTO! COM’E’ POSSIBILE CHE TU SIA QUI?!-
- So che è un po’ impossibile, non so se mi crederai... ma beh, ecco...-
Rilassai le spalle. Solo in quel momento capii tutto quanto, rimuginando sugli avvenimenti: lui era morto quella mattina; quando avevo provato a toccarlo gli avevo trapassato la mano; la sua voce sembrava lontana rispetto alla mia.
- Sei morto... e ora... sei... un fantasma...?-
- Facciamo che per renderlo meno ridicolo... sono uno spirito.- rispose, facendo spallucce.
- Perché ti vedo proprio io...?-
- Una persona legata ad un fantasma in qualche modo lo può vedere-
Arrossii. Allora era vera quella storia del filo rosso che legava due persone. Ok, era fantastico, ma insomma... era un fantasma, e io ci stavo parlando: ero pazza. Cercai di fargli altre domande, ma lui mi appoggiò la mano alla spalla. Perché riusciva a toccarmi e io no? Ogni cosa che faceva faceva spuntare un’altra domanda nella mia testa.
- Non c’è tempo per i dubbi, Emily. Christian è in pericolo!-
- Ah, ora ricordo...-
- Ti ha detto che vuole suicidarsi, vero? Dopo scuola?-
- Sì, ma siamo ancora in tempo, posso raggiungerlo all’una...-
- E invece no! Devi andarci immediatamente.-
“Che cosa?” quella domanda mi perseguitava. Increspai le labbra. Vedendo il mio sguardo perplesso, Justin sospirò e in fretta mi prese il braccio e mi portò dietro un cespuglio, da dove si intravedeva la scuola. Tutti gli alunni e i professori stavano scendendo di corsa dagli scalini, con addosso giubbotti e zaini. Cosa stava succedendo?
- Vedi quel ragazzo? – lo indicò – ha buttato una sigaretta nell’erba, e ha incendiato buona parte della scuola. Stanno tutti evacuando. Ora, guarda Christian– indicò anche lui, che si guardava intorno sospettoso – sta aspettando che tutti se ne vadano. Fermalo.-
- Perché non lo puoi fare tu?-
- Christian non mi vede.-
- Come non ti vede? Ma siete “legati”! Eravate migliori amici!-
- Lo so, ma ora non può. E’ in uno stato che non gli permette di vedere gli spiriti-
- Perché penso che sia ridicolo tutto questo?- chiesi, un po’ imbarazzata.
- Perché lo è.- ridacchiò. – Ora però vai, la folla sta andando via. Christian è entrato a scuola.-
- Ci devo andare da sola? Ma io non so nemmeno dov’è il bagno dei maschi...-
- Ehi, ehi, tranquilla. Starò sempre con te.- sorrise.
Annuii con decisione. Aspettai che gli ultimi alunni se ne andarono, poi corsi di nascosto fino alla porta della scuola, che era ancora aperta. L’incendio era lontano, non avrei corso pericoli. Justin mi indicò un corridoio, dove anche Christian stava andando. Lo seguii fino al bagno dei maschi dove si rinchiuse. Arrivai tardi: aveva chiuso a chiave.
- Niente da fare, non posso entrare.-
Justin mi guardò, poi sparì e riapparse pochi secondi, facendomi sussultare. Indicò la porta, provai a girare la maniglia e questa volta si aprì. Mi sorrise, ricambiai. Christian era lì, allo specchio, che si guardava il braccio inciso, ancora sanguinante. Poi prese la lametta che aveva nella borsa, e si tracciò un piccolo taglio non troppo profondo sul polso. Forse non aveva il coraggio di spingere e finirla sul serio. Magari non lo avrebbe fatto, se non si fosse guardato di nuovo il braccio, ma lo fece, e i suoi occhi si riempirono di nuovo di rabbia, mentre la mano comincia a spingere più forte sul braccio destro. Non resistetti, corsi verso di lui e feci in tempo a fermalo prima di raggiungere la vena principale. Lui si girò spaventato. Aveva dei lividi sul collo.
- Christian, smettila! Non hai bisogno di farla finita! Sei perfetto così come sei!- urlai.
- Non è vero! Ora lasciami in pace...-
Gli presi dalla mano la lametta e lo guardai con un’espressione seria, mentre lui era ancora stordito dal sangue che stava sporcando il lavandino. Guardai Justin, che era rimasto sul ciglio della porta, con le braccia incrociate. Ci guardava sorridendo, e per la prima volta nella giornata vidi Christian con un’espressione diversa: aveva gli occhi spalancati, e stava diventando pallido. Mi fissò, probabilmente chiedendosi se anche io vedevo quello che vedeva lui, o era solo una visione, segno della sua pazzia.
- Sì Christian, lo vedo anche io.- diedi una risposta al suo silenzio.
- ... J... Justin...?!- urlò, dopo essersi un attimo ripreso.
 

***


 
- Ehi Chris, come va la vita?- rispose lui, alzando la mano in segno di saluto.
Christian lo fissò con gli occhi sbarrati per qualche secondo, poi guardò me e per un paio di minuti continuò a spostare lo sguardo su noi due. Poi mi indicò, chiedendomi con gli occhi se davvero esisteva o era solo un incubo. Si abbassò la manica.
-... è uno scherzo, vero?- chiese, accennando ad uno sbuffo divertito.
- No.-
- Sul serio pensi che sia Justin, quel... coso?- lo indicò con disprezzo.
- Cosa potrebbe mai essere?-
- Scusa, scusa. Sono ancora un po’ stordito...-
Non risposi. Lo raggiunsi al lavandino, poi presi due fazzoletti da sopra il termosifone, bagnandoli con l’acqua fredda. Gli alzai la manica del maglione, poi tamponai il fazzoletto sull’incisione che gli avevano fatto quegli stupidi. Solo pensare di toccare lo stesso braccio che era stato graffiato da quegli esseri spregevoli, mi faceva schifo.
- Ehi Chris. Mi dispiace.-
- Non fa niente. E’ stato più brutto sapere di... sai, no?-
- Della mia morte? Immagino.-
A quelle parole, mi bloccai per un attimo. Mi rimanevano ancora delle lacrime da buttar fuori dagli occhi, eppure non riuscivo a farle uscire. Poi, facendo finta di niente, ripresi a tamponare il sangue che usciva, fino a quando non fu completamente rimarginato.
Christian alternava lo sguardo, prima mi fissava mentre lo curavo, poi guardava Justin che continuava a sorridere guardandomi. Lì capì tutto.
- Perché non mi avete detto niente?- chiese, ridacchiando.
- Uhm... riguardo cosa?- domandai un po’ perplessa. Mi lavai le mani.
- Riguardo il fatto che voi due vi piacete.-
Justin si raddrizzò, con gli occhi trasparenti leggermente spalancati, mentre io ero quasi scivolata sul lavandino dallo spavento. Come lo aveva capito? Anche se c’era lo spirito di Justin, in quel momento l’unica cosa sovrannaturale era l’intuito di Chris!
- Chris, fatti i cazzi tuoi!- esclamò Justin ridendo.
- Anche da morto sei aggressivo!-
Mi chiesi come riuscivano a scherzare. Forse la distanza tra i due “mondi” non era così tanta, non importava se il suo cuore non batteva più, se non c’era veramente e se solo noi due potevamo vederlo. Volevo abbracciarlo come l’ultima volta e sì, baciarlo come l’ultima volta, al parco, quando era stato lui a fare il primo passo. Lo amavo ancora.
- Ammettetelo dai, sono vostro amico.-
- Quando andrai a farti fottere sarà troppo tardi, “amico”.- fece la linguaccia.
- E’ stato lui a baciarmi.- dissi d’impulso. I due mi guardarono perplessi.
Chris ci indicò ridendo, come se avesse vinto il premio più importante della sua vita. Fece un giretto su se stesso continuando a ridacchiare come un pazzo, poi mi abbracciò.
- Hai fatto la scelta giusta, Emily!- disse, contento.
- Il problema è che l’ho fatta troppo tardi...- sussurrai, abbassando lo sguardo.
All’improvviso sentii freddo alla schiena, un peso mi fece sussultare. Justin mise le braccia sulle mie spalle, appoggiando la testa su quella destra. Si avvicinò a me. Per un attimo mi venne da piangere, ma tirai su col naso e mi limitai a chiudere gli occhi, sorridendo.
- Ricordati che io posso toccarti-
- E’ una minaccia?- ghignai, sapendo di non poter prendergli le mani.
Vide che avevo provato ad afferrargliele, ma poi mi ero ricordata di non poterlo fare, così lo fece lui al posto mio, prendendomele con le mani gelide. Sentii dei brividi sulla schiena, era freddissimo come un cadavere... solo che era un fantasma. Perché me lo ricordavo ogni fottuto minuto? Mi odiavo così tanto da farmi del male anche moralmente?
- Scusate se interrompo il momento post-sesso, ma devo fare una domanda.-
Arrossii, accorgendomi solo in quel momento che c’era ancora Christian che ci guardava, e sembrava anche molto interessato. Justin mi lasciò, e in quel momento sentii di nuovo il calore impadronirsi del mio corpo. Anche se era freddo, avrei sopportato tutto.
- Justin, perché sei qui?-
- In realtà non lo so... quando sono morto, mi sono svegliato poco dopo. Per un attimo, ho pensato di essere solo svenuto, poi però ho sentito degli urli e un “bip” continuo. Ero in ospedale, quindi voleva dire solo una cosa: ero morto. E allora perché ero sveglio? Mi sono guardato intorno, e mi sono accorto di essere in un angolo della mia stanza in ospedale. Sul letto bianco c’era il mio corpo, con vicino mia madre che piangeva. E’ stato orribile vedermi morto. Ero pallido, con gli occhi chiusi, le labbra quasi viola e soprattutto... non respiravo, ero... inguardabile. Così sono uscito per venire a scuola, e infine sono andato al parco. Ma ancora non ho capito perché sono qui, sulla Terra, sotto forma di spirito.-
Fissai il vuoto. Mi immaginai il suo corpo senza vita su quel letto bianco, triste. Lui, freddo... un cadavere che si portava avanti a stento. Io avrei vomitato, vedendomi morta.
- Magari dovevi salvare Christian.- azzardai io.
I due mi guardarono, annuendo con facce serie. Avevo ragione, poteva essere per quello.
- Sì, è possibilissimo. Però, perché non sei sparito, visto che ora mi hai salvato?-
- E se avessi un altro compito?-
- Ok, ma quale potrebbe essere questo tuo “compito”?-
- Forse dichiarare il mio amore ad una ragazza.-
- Smettila Justin, sono seria.-
- Anche io.-
- Ma – abbassai la voce – insomma, lo hai già fatto al parco...!-
- Non del tutto. Ti ho solo detto “penso di amarti”.-
Non riuscii a ribattere. Abbassai lo sguardo, un po’ imbarazzata da quei continui discorsi strani davanti al nostro amico che ci fissava come se avesse voluto prendere appunti per un romanzo amoroso. Si metteva la mano sul mento molto spesso, aspettando la nostra prossima mossa. Mi girai di spalle, poi mi rigirai cercando di dire qualcosa, ma mi interruppe appoggiando le mani alle mie spalle. Sentii di nuovo il freddo.
- Emily, non so se me ne andrò, quando me ne andrò...-
- ...?-
- ... però, se questo è il mio compito, voglio compierlo seriamente, senza indugi. Scusami Chris se ti faccio assistere ad una scena così melensa, ma sei tu che ci hai messo nei guai. Ok, lo dirò solo una volta. Emily... io ti amo.-
Rimasi immobile. Mi ero sempre immaginata sola in una villa in campagna, con ottanta gatti che si trovavano anche dentro il water, nel frigo, ovunque. Invece ora il ragazzo che mi piaceva mi aveva baciata e si era anche dichiarato, anche se tutto inutile. Finalmente, quelle stupide lacrime scesero lentamente dai miei occhi già lucidi. Non provai nemmeno ad appoggiarmi alla sua spalla, perché non avrei potuto. Perché non potevo toccarlo come poteva invece fare lui?
- Tutto questo non ha senso.- mormorai, allontanandomi.
- Cosa?-
- Non servirà a nulla dire che ti piaccio, perché ormai è troppo tardi.-
- Emily, cosa stai dicendo? Anche se sono morto, i miei sentimenti non cambieranno!-
- Ma se non potremo stare insieme, allora perché mi hai detto che siamo legati? Perché mi hai mentito dicendomi tutte quelle cavolate del filo rosso, se invece sapevi che tanto saresti morto?-
- Io non lo sapevo! Secondo te ti avrei mentito se l’avessi saputo?-
- Sì, probabilmente sì... solo perché... mi amavi veramente.- gli rivolsi un sorriso amaro.
- E ti amo ancora.-
- Non lo potrò mai sapere questo.-
- Mi dispiace. Se potessi, tornerei indietro e passerei più tempo possibile con te...-
- Sentite, ora devo andare, mia madre si starà preoccupando, vado a casa.- dissi.
Presi il cellulare, mi sistemai i capelli un po’ scompigliati, poi senza aggiungere altro uscii dal bagno, facendo attenzione a non essere vista dai bidelli che ancora giravano per accertarsi che non ci fossero feriti. Quando uscii però, mi vide la bidella, che quasi si prese un colpo a vedermi correre con tanta fretta dal bagno dei maschi.
- Ehi ragazzina, cosa ci fai qui dentro?-
- Mi... mi ero persa.-
- Cosa facevi nel bagno dei maschi? C’è qualcuno con te?-
- Un mio amico è ancora dentro, meglio se lo andate a prendere.-
- Lo sai che è proibito avere rapporti dentro la scuola?-
- Non è successo niente di quello che pensa. Mi scusi, devo passare.-
La scavalcai senza aggiungere nient’altro. Sapevo che aveva continuato a fissarmi finché non svoltai l’angolo. Aprii la porta e iniziai a correre spedita verso casa mia, dove mi aspettava una madre furiosa. Ma non mi avrebbe fatto niente, perché mi era successo di peggio in quel poco tempo. Mi guardai indietro per assicurarmi che Chris non mi stesse seguendo, ma non feci in tempo a girarmi che andai a sbattere contro qualcuno. Alzai il viso e, con un sussulto, mi accorsi che era Justin.
- C-come... come hai fatto?!-
- Sono un fantasma, posso teletrasportarmi.-
- Ripeto: TUTTO QUESTO NON HA ALCUN SENSO! E ora lasciami stare.-
- Emily! – mi prese per le spalle. – So che è difficile, lo so perfettamente. Guardami, sono un cadavere parlante, mi porto un alone freddo dietro e rincorro una ragazza meravigliosa pur sapendo che non saprà più mia come lo poteva essere in vita. Pensi che mi piaccia essere morto? Avrei voluto quanto te non morire per stare insieme.- disse d’un fiato.
- Come sempre sono la solita egoista...- sussurrai, coprendomi gli occhi.
- Non sentirti in colpa.-
- Vorrei solo riaverti accanto. Eri l’unica persona che mi capiva davvero.-
Mi lasciò senza preavviso un alone freddo sulle labbra. Sentii un vento freddo mentre chiudevo gli occhi, poi, quando li riaprii, vidi che lui era sparito. Mi toccai le labbra. Era la seconda volta che mi baciava. Lo faceva apposta? Voleva farmi innamorare di lui ancora di più? Mi inginocchiai per terra, mettendomi le mani nei capelli. Era tutto finito. Era passato oltre, e non l’avrei mai più rivisto nemmeno sotto la forma di uno spirito. Mi diedi dei colpi alla fronte. Perché ero stata così stupida da innamorarmi di lui, sapendo che avrei sofferto così? Mi ero rovinata ancora di più la vita. Christian uscì dalla scuola e quando mi vide sdraiata per terra iniziò a correre fino a che non mi raggiunse. Si mise vicino e mi appoggiò una mano sulla spalla, un po’ perplesso.
- Ehi, che succede?- chiese, un po’ distaccato.
- Justin se n’è andato, per sempre.-
- Intendi dire che è... “passato oltre”, come si dice?-
- Sì.-
Rimase in silenzio. Forse cercava di rispettare il mio dolore, o forse semplicemente non sapeva cosa dire, e per evitare di rovinare il momento se ne stava zitto. Continuai a stare immobile, poi però aprii gli occhi e lo guardai. Gli dissi solo “vai a casa, sto bene.” Con un falso sorriso, ovviamente. Sapevo già cosa fare. Forse lo sapevo da dieci anni, e forse lo sognavo da tanto tempo. Non bastavano più tagli, graffi, pugni, lividi. Farsi del male.
Mi alzai, controllai il cellulare. Il vuoto delle notifiche sembrava dire “Perché mi guardi? Nessuno sa che esisti, perché dovrebbero scriverti?”. Sbuffai un po’ stizzita, almeno mia madre poteva degnarsi di chiedersi dove mi trovavo, visto che era da un’ora e mezza che mancavo da casa. Rimisi il cellulare in tasca con indifferenza, e mi diressi verso quel parco che ormai era l’unico posto in cui mi sentivo libera. Libera, in senso definitivo, stavolta. Mi sedetti sulla panchina, come sempre vuota. Poi, senza un motivo, iniziò a tremarmi il labbro inferiore. Abbandonai le braccia sui fianchi, buttai la testa all’indietro e iniziai a piangere lacrime amarissime, salate come non mai. Uscivano come fiotti di fontana, e non le controllavo, perché ormai ero troppo vulnerabile. Con un gesto brusco, buttai il cellulare a terra, seguito poi dal mio corpo quasi senza vita. Guardai il riflesso nel laghetto davanti alla panchina. Avevo il trucco sbavato dalle lacrime, i capelli arruffati anche sotto il berretto. Ero orribile, e con violenza diedi un colpo all’acqua, che distorse la mia immagine che tanto odiavo. Mi tolsi le scarpe e il berretto, buttandoli vicino al telefono sporco di fango. Guardai per l’ultima volta i miei occhi riflessi, che chiedevano aiuto ma sapevano che non lo avrei ricevuto. Presi un respiro, poi mi buttai.
 
***
- .... ly!...-
- .... MILY!-
- .... EMILY...!-           
Sbarrai gli occhi, anche se mi pizzicavano. Appena mi accorsi di aver ingoiato un sacco di acqua, tentai di trattenere il respiro, ma stavo quasi per affogare, fino a che non sentì quella voce familiare. Era Christian? Non lo sapevo, non riuscivo a riconoscerla, nell’abisso del lago. Strizzai gli occhi, non sapevo nuotare. Stavo sprofondando sempre di più, ma non mi importava. Forse me l’ero sognata quella voce; richiusi gli occhi, e mi lasciai andare, ma... qualcosa mi afferrò. Qualcosa di freddo, ma rassicurante.
- Emily! Resisti!- cercò di dire, in mezzo alle bolle che gli uscivano dalla bocca.
Io non risposi, perché non avevo più respiro in gola. Stavo morendo, lentamente. Cercai di rimanere sveglia, ma stavo per svenire. Mi tirò il braccio così forte che dovetti inarcare la schiena, mentre mi tirava in superficie. Chi mi stava salvando? Era un sogno?
Quando riuscii a respirare, finalmente, tirai un grande sorso d’aria, come se fosse stata la prima volta. Cominciai ad ansimare sfinita, strizzando continuamente gli occhi e sputando acqua. Guardai il mio salvatore, ma vedevo solo immagini sfocate.
- Cosa ti è saltato in mente?- esclamò.
- Chi sei...?- chiesi, ancora stordita.
- Lascia stare. Ora stai zitta, sei ancora sotto shock.-
Si tolse la camicia azzurra, rimanendo a petto nudo. Aveva i muscoli, arrossii, anche se non vedevo molto bene. La strizzò, poi mi prese in braccio e mi stese sulla panchina. Sentii che mi toccava il petto, spingendomelo. Sputai ancora un po’ d’acqua, tossendo. Poi, senza aggiungere altro, si sedette vicino a me; mi alzò, facendomi sedere, poi mi abbracciò.
- Perché lo hai fatto?-
- Senza Justin sono inutile, non ho alcun motivo di vivere...- mormorai.
- Ma Emily... io sono qui.-
D’improvviso, la vista si rischiarò del tutto. Sgranai gli occhi così in fretta che quasi si spaventò. Non era possibile. “E’ un sogno. Sono morta e ora mi sto immaginando tutto” dissi a me stessa. Scossi la testa strizzando gli occhi. No, no no.
- Non ci credo...-
- Nemmeno io ci credo. Ma guardami. Toccami.-
Allungò la mano verso di me. Lo guardai negli occhi, che non avevano un velo trasparente dietro. Erano limpidi, color nocciola come li ricordavo. Era interamente umano, e non emanava più il freddo di prima. Iniziai a tremare, poi piansi. Gli presi la mano tra le mie, portandola alle labbra. Era vero, potevo toccarlo. Lo abbracciai così forte che si dovette stendere sulla panchina.
- Emily, ti amo così tanto, non so come sono riuscito a...-
- Non m’importa! Non lo voglio sapere...!- sussurrai, ridendo tra il pianto.
- Sei sicura? Io avrei un’idea su questo fatto.-
- Cioè?-
- Forse sono tornato in vita... ecco, è difficile. Quando sono sparito, mi sono ritrovato in quella dimensione bianca dov’ero finito la prima volta. Mi ero guardato intorno, per poi sentire una sola, unica frase. “Non è ancora arrivato il tuo momento” poi, ho sentito un colpo al cuore e mi sono trovato nel letto dell’ospedale, con un lenzuolo sulla faccia. L’ho tolto, e i medici si sono spaventati. Mia madre mi è saltata addosso piangendo, ma io ho urlato che dovevo trovare te, perché sentivo che ti era successo qualcosa. Ed eccomi qui.-
- Tu mi ami, ma io non lo merito- risposi. Non sapevo cos’altro dire.
- Smettila! – urlò, arrabbiato – sei meravigliosa anche se non lo sai. Sei bellissima.-
Continuai a piangere in silenzio. Mi appoggiò una mano sulla guancia, e per la prima volta restituì il suo terzo bacio, ma stavolta con più passione. Volevo sentirlo vicino a me. E non lo avrei lasciato andare un’altra volta, lontano. Mi portò le mani ai fianchi, continuando a baciarmi. Poi mi baciò il collo. Lo bloccai.
- Ehi, ehi. Non mi sembra il posto adatto – ridacchiai – ti preferivo fantasma!-
- Ah sì?! Sei proprio una stronza!- rise, facendomi alzare dalla panchina.
Gli afferrai la mano, intrecciando le dita con le sue. Uscimmo dal parco, e raggiungemmo Chris che per poco non svenne. Dopo avergli spiegato tutta la situazione, abbracciò così forte Justin da fargli male. Ridemmo, ancora increduli. A volte l’amore sapeva sbalordirti, anche con le cose più strane.
- Ehi Emily. Ti è mai capitato di amare un fantasma?-
- Sì, che strano eh?-
- Io invece lo trovo normalissimo.-
- E tu hai mai amato una ragazza che odia se stessa?-
- Oh sì, certo che la amo.-
 

***


- Papà era un fantasma?!- urlò Hope, balzando sul letto.
- Emily! Ma non avevi giurato che non glielo avresti mai detto?- Justin entrò in camera.
- Non ho resistito alla tentazione.- sbuffai, con un ghigno.
- Sei la solita!-
- Hope – continuai, ignorando la risatina di Justin – promettimi che sarai più forte di me. E non sognarti di fare le cavolate che ho fatto io solo per avere la stessa fortuna di essere salvata da un ragazzo per cui perdi la testa! Tu lo troverai perché sei stupenda.-
- La più bella del mondo- aggiunse Justin, accarezzandole i capelli.
La misi sotto le coperte, poi canticchiai la sua canzone preferita.
- Pretty pretty please, if you ever ever feel, like you’re nothing, you’re fuckin’ perfect to me.- sorrisi, poi le diedi un bacio.
Mi girai, e Justin mi baciò sulle labbra all’improvviso, come faceva un tempo.
- Bisogna usare ogni attimo che ti rimane da vivere, per vivere sul serio.-


SPAZIO SCRITTRICE

Ciao belle c: grazie per aver letto la mia os, spero vi sia piaciuta. se volete cercarmi e seguirmi su twitter, sono @itsnotsimple_ vi ricambierò con piacere. grazie a tutte. c:

 
 

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“Pretty pretty please, don’t you ever ever feel, like you’re less than, fucking perfect.”

  
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