1.
Le
prime fiamme
14
Luglio 1789
Sono
un’ombra.
Me lo
ripeto nella mente come un mantra, cercando di crederci veramente
così da poter
passare inosservato, mentre serpeggio scaltro tra le strade infuocate
di
Parigi.
Una
Parigi che sta urlando, si sta dimenando furiosa.
Mi
appiattisco dietro l’angolo di una casa non appena scorgo
dall’altra parte un
gruppo di emissari del sovrano correre verso di me, al centro della
via.
Sono
un’ombra, mi
dico, mentre la tensione sboccia dentro me come un fiore primaverile.
Li vedo
cambiare direzione, attirati dalle fiamme provenienti da una casa al
fondo
della via, che ormai è un vero e proprio campo di battaglia.
Fuoco e
fiamme. Ovunque.
Grida e
morte. Ovunque.
Spade e
zappe. Ovunque.
Eccola,
la mia tanto amata Parigi, quella romantica ed elegante, ridotta a fumo
e
dolore, a rabbia e ribellione. È quello che volevo.
Do
un’ultima timorosa occhiata alla strada e mi rendo conto che
è sgombera, se non
per una madre ricurva su quello che deve essere il cadavere del suo
bambino.
Piange disperata, il viso arrossato, mentre stringe gli stracci del
giovane.
Non voglio guardare.
Conosco
così bene queste strade che non ho bisogno di alzare la
testa per sapere dove
mi trovo: quarta svolta, ora c’è il panettiere,
ancora due case poi devo girare
a destra.
Cammino
sicuro, isolandomi da quella carneficina che sta avvenendo intorno a
me, cerco
di estraniarmi da quel delirio, altrimenti non riuscirei ad arrivare
alla mia
meta e impazzirei, proprio come sta accadendo a quel vecchio. Un
vecchio che
non camperà ancora a lungo.
Eccola.
La
locanda resta nascosta dalla città e sembra essere distante
dalla realtà
attuale, quella che sta rendendo la mia amata ville
cenere. Adesso corro, sono stufo di rimanere allo scoperto,
così sbatto violentemente la porta di legno marcio ed entro.
La
prima cosa che sento è il puzzo di sudore stantio e liquore
di basso costo.
La
seconda è il frastuono dei bicchieri che sbattono
l’uno con l’altro.
La
terza sono le risate sguaiate dei presenti.
La
quarta è lui, il mio
migliore amico,
seduto capotavola in uno dei lunghi tavoloni in legno. Lui è nato da capotavola, penso
osservandolo dall’uscio, e morirà come
tale.
Tutti
hanno gli occhi puntati su di lui: come si potrebbe non degnarlo di uno
sguardo? È semplicemente impossibile non rimanere incantati
dalla sua persona.
Mi
avvicino e gli poso una mano sulla spalla. «Maximilien
Robespierre.»
Si gira
non appena sente pronunciare il suo nome, il mio migliore amico, e mi
riserba
uno di quei sorrisi che gli hanno permesso di accaparrarsi tanti fedeli
e tante
conquiste.
«Addirittura
nome e cognome, Léon Delavierre?»
mi
canzona, senza però rifiutare il mio gioco. Mi fa segno di
prendere posto accanto
a lui, quello che mi spetta di diritto e nessuno potrebbe mai portarmi
via.
Mi
stupisco nel vedere il viso familiare di Julien, figlio
dell’avvocato di
Poisson, che non aveva mai deciso di prendere posizione, ma sempre
preferito
spostarsi da parte a parte secondo i suoi bisogni.
Robespierre
si alza, facendo slittare la sedia a terra, e alza il boccale di birra
scadente, mentre i suoi occhi ardono di una fiamma appassionata,
gloriosa. Lo
so, perché anche io sento lo stesso fuoco dentro le miei
iridi, così come nel
mio cuore.
È la
passione che solo un rivoluzionario può avere.
«Signori.
Amici.» inizia a parlare il mio amico, scandendo bene le
parole. La locanda si
ammutolisce, perché i discorsi di Maximilien riescono a
farti accapponare la
pelle da quanto sono entusiasmati e nessuno osa mai pronunciare una
parola.
«Quest’oggi
la nostra Rivoluzione è
finalmente divenuta
reale.» Fa una pausa. Dà il tempo di assimilare le
informazioni, vuole che
ognuno di noi colga il senso delle sue frasi. «Siamo passati
dal confabulare
rintanati in lurida locande, al vedere il nostro
popolo camminare per le strade armati e
orgogliosi.»
La
sento, la passione. È impossibile non farsi contagiare dallo
spirito entusiasta
di Robespierre, sarebbe in grado di convincere un contadino che i suoi
frutti
sono marci anche se in realtà sono succosi.
E il
mio cuore scalpita.
Il
sangue pompa veloce, quasi non avesse più la pazienza di
aspettare e io fremo,
fremo su questa sedia, perché vorrei alzarmi, vorrei
sguainare la spada e
tagliare la testa a Luigi XVI.
Ma non
mi muovo.
Non
finché Maximilien parlerà.
«Questo
è un giorno glorioso, per la Francia, amici miei.
Perché il popolo si è alzato,
si è impadronito della Bastiglia e ha deciso che
è lui il padrone di Parigi.» La
sua voce va in crescendo, si alza, e posso notare come anche
l’animo dei
presenti si eccita, esattamente come il mio amico, che ormai non sta
più nella
pelle.
«E noi
abbiamo il dovere di prenderci ciò che è
nostro!» urla, adesso, mentre gli
uomini si alzano in piedi, imitando il loro leader, e prendono in mano
le loro
birre.
«Liberté, Egalité,
Fraternité!»
I
boccali si scontrano l’uno con l’altro, mentre le
urla si fanno insopportabili
e il mio cuore festeggia, proprio come il resto della locanda.
Siamo noi i padroni della Francia.
Siamo noi i sovrani.
Nulla
sarà in grado di fermarci.
E,
mentre la mia birra fuoriesce dal bicchiere, grido con un sorriso
stampato in
volto.
«Vive la France!»
*
Bastien.
Corro
tra la folla impazzita, spingo una giovane ragazzina con gli occhi
lucidi e non
mi interessa di ciò che può esserle successo,
perché il mio obiettivo è uno e
solo uno.
Devo
trovare Bastien, il mio piccolo fratellino. Ricaccio le lacrime che
insistono
per uscire, non ho tempo per piangere, ora, potrò farlo non
appena avrò Bastien
tra le braccia.
Continuo
a correre, ma non so nemmeno più dove io sia o quale sia la
mia meta. Maledico
mio padre che ci ha mandati a comprare il latte, oggi, nella migliore
latteria
di Parigi per festeggiare il compleanno di mio fratello.
Bastien,
Bastien, piccolo, dove sei?
Se solo
fossimo rimasti nei nostri nascosti quartieri, come i ratti, ora non ci
troveremmo in questo marasma di corpi in panico, di fiamme alte che mi
bruciano
il viso, mentre dinanzi a me, l’immagine dei popolani che
scalpitano con le
loro zappe mi fa venire l’emicrania.
Sono
stanca, le gambe mi dolgono e il mio viso è probabilmente
sporco di cenere.
Voglio solamente trovare Bastien, tutto il resto non ha un senso. Ma,
in fondo,
come può avere un senso tutta la morte che mi attornia? Ci
sono solo cadaveri e
sangue.
Sangue.
Sangue.
Fuoco e
fiamme.
E
sangue.
La
gente intorno a me sta gridando, scappa e fugge e grida e scalpita e
muore,
muore, muore. E io non posso fare altro che continuare a correre,
tirare
gomitate e farmi spazio, perché – non
posso fermarmi, bambina che piangi – devo trovare
il mio piccolo Bastien.
L’odore
del fumo mi invade le narici, mi impedisce di respirare, mi soffoca, mi
sembra
di andare in fiamme, mi sento bruciare. È la sensazione
più brutta che io abbia
mai avuto, non riesco a fermarla e la testa mi duole, così
come le gambe.
Bastien.
Devo trovare Bastien.
Il
ricordo del dolce viso di mio fratello mi induce a continuare a
camminare,
cercando di ignorare tutta questa gente che viene contro. Mi fermo un
attimo,
in mezzo alla strada, e mi rendo conto che barcollo e le persone mi
spingono e
io non sono in grado di stare in piedi e crollo, crollo come tutte le
mie
certezze, crollo come il nostro sovrano, Luigi XVI, crollo, crollo,
crollo e
basta.
Non riesco
ad alzarmi, sto cercando la forza, le ultime energie per farlo, ma non
ne ho e
il fumo sembra essere l’unica cosa reale. Sento una fitta di
dolore
insopportabile allo stomaco e mi rendo conto che mi hanno calpestata.
Letteralmente. Qualcuno mi è passato sopra. Come si
può passare sopra ad una
persona distesa a terra, invece di aiutarla? Forse non l’ha
fatto perché sembro
un cadavere. Sembro un cadavere? Dio, sono un cadavere, sono
un cadavere.
Inizio a piagnucolare, come una bambina capricciosa, e sento la mia
voce rotta
mormorare: «Sono un cadavere».
Mi devo
alzare, mi devo alzare, mi devo alzare, mi devo alzare.
Continuo a ripeterlo nella mia mente, devo riuscire a ritrovare i
comandi del
mio cervello, il fumo non può aver la meglio. In un attimo
di lucidità mi rendo
conto che i miei pensieri sono così confusi, come quelli di
un pazzo, uno di
quelli che vengono rinchiusi.
Bastien,
piccolo mio, dove sei?
Bastien,
piccolo mio, ti troverò.
Chiudo
gli occhi, ormai non ha più senso continuare a lottare. Sono
distesa sulla
strada polverosa, sento le persone passarmi sopra, farmi male. Come
posso vivere?
Ho
sempre pensato che l’Inferno sarebbe stato doloroso, ma
questo è peggio, questo
è l’Inferno sulla Terra. Perché fa
così male?
Sto
pensando a quanto vorrei che finisse in fretta, tutto, quando mi sento
alzare
da terra. Forse sto volando, forse è così che
succede quando la tua anima
lascia il corpo: sembra di essere uno di quei teneri usignoli che
cinguettano.
È così?
Eppure
la puzza del fumo persiste, così come il rumore di grida e i
pianti disperati.
Tutto è come prima, niente è cambiato. A parte il
fatto che non sono più a
terra.
L’unica
cosa concreta sono due braccia forti che mi stringono, mentre il resto
è
irreale e lontano, come l’Inghilterra da cui viene William,
il burattinaio
vagabondo.
E
sembra che questa due braccia – sì, sono solo
questo per me – mi stiano portano
via. Sì, mi sto spostando, credo. È difficile
mettere a fuoco ciò che mi sta
intorno, soprattutto con le palpebre che si impongono per non alzarsi.
Il
mondo, ora, è tutto sensazioni, odori e voci. Anzi, no, grida disperate.
Ho il
terrore che la testa debba scoppiare da un momento all’altro,
ma mi impongo di
aprire gli occhi, devo vedere chi
sono le due braccia che mi stanno mettendo in salvo.
Apri
gli occhi, apri gli occhi, apri gli
occhi.
La
prima cosa che metto a fuoco sono dei capelli.
Biondi,
sembrerebbe, ma non ne sono sicura, perché sono sporchi. E
puzzano di fumo.
Sbatto
gli occhi, cercando di eliminare quella sfocatura che mi fa vedere ogni
cosa
con contorni in dissolvenza. Un viso.
Un
uomo.
Sono
tra le braccia di un uomo.
Un uomo
che non è mio padre e nemmeno Bastien.
«Bastien...»
mormoro, ma l’uomo che mi tiene non mi sente. Forse non ho
neanche parlato,
l’ho solo immaginato.
Il viso
del mio salvatore diviene sempre più sfocato e io mi rendo
conto che le
palpebre hanno di nuovo deciso di andare in sciopero. Ma questa volta
il dolore
alla testa è divenuto lancinante. E io non riesco
più a sopportarlo.
Mi
dispiace, Bastien, piccolo mio...
Perdonami,
bambino, ma non ci riesco, è
troppo doloroso...
Bastien...
E
mentre questi pensieri confusi si fanno spazio tra la mia mente, il
mondo si
spegne e io rimango inerme tra le braccia di uno sconosciuto.
Sono
morta, riesco
solo più a pensare.
Poi, il
nulla.
*
Angolo
Autrice
Donne,
Uomini, Maghi e Babbani,
sono
lieta di presentarvi il mio nuovo
progetto “Feu et Flammes”. Come avrete ben notato,
la storia si svolge durante
la Rivoluzione francese e i protagonisti sono Léon e la
ragazza, che avete
conosciuto in questo capitolo. Sicuramente il progetto di una long
Storica è
molto azzardato, non so quanti lettori potrò accaparrarmi
(è bruttissimo come
termine, ma fatemelo passare), ma comunque sia spero che qualcuno di
voi possa apprezzare
questa piccola follia.
Altra
piccola pazzia: avrete sicuramente
visto che Robespierre – personaggio storico realmente
esistito – fa parte della
storia, quindi vi chiedo di essere clementi se romanzerò un
po’ la sua vita, ma
cercherò di attenermi abbastanza alla sua biografia.
Stessa
cosa vale per i fatti storici: non
garantisco che il racconto sarò lindo e privo di
imperfezioni storiche, perché
probabilmente non sarà così; cercherò
di attenermi cronologicamente agli eventi
accaduti nel periodo e di non stravolgere troppo ciò che
è successo.
Per
il resto, avrete notato che ho usato
– durante la parte della ragazza – molte e
congiunzioni, che possono risultare
errate, ma l’ho fatto per dare l’idea del suo
tormento e di questo dolore
incessante. Stessa cosa per le frasi confuse e spezzate.
Lo
splendido banner che vedete a inizio
capitolo è opera di Ellie,
una
bravissima scrittrice che vi consiglio vivamente – e, come
potete vedere, anche
un’eccellente grafica.
Spero
che la storia vi possa
appassionare, fatevi sentire in tanti, mi raccomando.
Un
abbraccio,
Eryca.