Disclaimer: i
personaggi sono proprietà di Ohtaka Shinobu.
La frase in apertura è della canzone “Calls me home”
(Shannon Labrie).
A Takachan (L)
Sto
tornando a casa,
per respirare, per ricominciare.
Sto tornando a casa,
da tutti i luoghi in cui sono stato.
Quando dice che quello che ricorda meglio sono “le
labbra”, tutti fraintendono e a lui viene un po’ da ridere in verità.
Non li biasima però; credono sempre la cosa sbagliata – che si parli di una
donna lasciata in qualche terra lontana, straniera, di una donna sedotta e
abbandonata probabilmente – ma, dopotutto, fraintendono per colpa sua, perché
lui non nega e sorride, sempre.
Sorride in tanti modi diversi quanti il mondo gliene ha mostrati nei suoi
viaggi: ogni tanto si incontra con Aladdin, e lui una volta gliel’ha detto – «Alibaba»
perché sono cresciuti abbastanza, ormai, da rapportarsi come pari «stai
sorridendo come Sinbad.», che poi sarebbe un complimento, spera.
Sorride Alibaba, certo che lo fa, lo fa in tutti i modi che conosce: con l’entusiasmo
di un ragazzino per ogni particolarità del mondo che i suoi occhi hanno visto,
con gentilezza verso donne e bambini, con rispetto per i suoi pari, con
ammirazione per quelli che si sono sempre rialzati, con soddisfazione per gli
scontri vinti, e per quelli persi con la sensazione di aver comunque imparato
qualcosa; divertito e felice ogni volta che è potuto passare da Sindria –
quando ha potuto bere col suo maestro non come allievo, ma come uomo.
Però ci sono state volte in cui gli hanno chiesto se qualcuno da qualche parte
lo aspettava, e lui aveva detto sì e tutti – come biasimarli, quindi – avevano dato
per scontato fosse una giovane amante.
I più romantici, una promessa sposa.
«Dai,
dicci qualcosa di lei!»
E lui non finiva la frase che subito ridevano.
«Ehi, ci sono delle signore qui!»
Sorrideva. Con affetto, però.
«E tutti hanno pensato male. Dev’essere
perché sono cresciuto a contatto con Sinbad e Sharrkan, sai? Insomma, che
adulto orribile sono diventato?» dice divertito, autoironico, e sorride.
Allunga una mano, la sfiora con dolcezza – è tanto che non lo fa, è tanto che
manca da Balbadd – e la osserva; è strano il sentimento che ha, ma ricorda bene
che c’era stato un tempo in cui guardarla provocava solo dolore, e senso di
inadeguatezza.
Il dolore non è sparito – non lo farà mai del tutto – ma averla lì era una certezza.
Senza, non sarebbe stata “casa”, quella.
«Alibaba-sama, è ora.»
Socchiude gli occhi, sospira piano – come se volesse in qualche modo riempirsi
la mente della sua immagine, o richiamare quella che lo accompagna sempre – e annuisce,
fa un cenno con la mano alla guardia alle sue spalle, congedandola: «Arrivo
subito, vai intanto.» assicura.
Non è mai stato il suo forte rapportarsi agli altri da principe, figurarsi da
re.
Poi, solo poi, sbuffa appena e si alza: «Un “bentornato” sarebbe gradito. Anche
se non sarebbe da te.» ammette, e gli viene un po’ da ridere, a star lì e
parlare da solo.
Alla fine, le dà le spalle – non è proprio lei, proprio l’originale, ma risale
all’ultima volta che si sono visti, consumata com’è. Può andare bene, si è
detto anni fa.
«Sono a casa.» mormora.
La bandierina di quand’erano bambini, lì a far da lapide e ricordo, si muove
col vento in una muta risposta.
Lui
intendeva solo il tocco, delle labbra;
non di un bacio appassionato o di addio,
ma quello della buonanotte, quello sulla fronte.
Intendeva le labbra che, quando era convinto di non sfiorargli più la pelle,
Cassim stirava in un sorriso.