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Autore: Neal C_    06/02/2013    1 recensioni
[Lettera di Etienne Carjat a Gustave Courbet]
Dunque finalmente sono riuscito a buttare giù nella patetica forma di confessione tutto ciò che ho vissuto negli ultimi due anni, anni splendidi, di fervente attività artistica, di audaci ideali e gentili, appassionate amicizie che ormai sembrano essersi sfaldate miseramente - e custodisco ancora gelosamente le poche che mi sono rimaste, e la persona a me più cara sicuramente sei tu, in questo momento di dolore- .
[Dramatis Personae: Etienne Carjat, Gustave Courbet, Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, Parnassiani vari]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Triangolo | Contesto: L'Ottocento
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Titolo: Confessioni di un fotografo - Lettera di Etienne Carjat a Gustave Courbet

Autore: Neal C.
Ambientazione: Secondo Ottocento, Belle Epoque, Post-Comune di Parigi, Circolo dei Parnassiani
Genere:  Drammatico, malinconico, introspettivo

Avvertimento: Slash
Rating: Verde
Dramatis Personae : Etienne Carjat , Gustave Courbet, Arthur Rimbaud, Paul Verlaine, Parnassiani vari (con la partecipazione di Paul Gauguin tra le controfigure )
Pairing: Carjat/Rimbaud,  Rimbaud/Verlaine
Disclaimer:  Il “vero storico” è altro,  fidatevi.  
Per qualunque cosa parlerò solo in presenza del mio avvocato [ndr. Onorevole Alessandro Manzoni]



Confessions d'un photographe




18 Novembre 1873

Gustave, amico mio,
sono venuto a sapere che sei partito di gran fretta, per l’Austria o per la Svizzera, dicono, ma a Parigi tutto è confuso, il Generale dal pugno di ferro ha simpatie monarchiche, per gli Orleans*.
Questa notizia mi ha riempito di orrore e raccapriccio e ho sentito il bisogno di prendere un poco d’aria, di sgranchirmi le gambe per la vecchia Place du Tertre, chissà che non aiutasse un po’ l’ispirazione, anche se ultimamente tutto sembra suggerire che la satira si acquieti e le voci si facciano più fioche, “rispettose della giustizia” dichiarò a suo tempo il Generale*.
Ebbene, quasi mi son venute le lacrime di rabbia quando ho visto agitarsi sulla collina uomini, animali, mezzi, aria di cantiere mentre uno strillone inaugurava la costruzione della nuova Basilica di Montmatre,  la Basilique du Sacre- Coer,  “espiazione dei crimini della Comune”.*
Amico mio, son tornato a casa con il cuore in gola, un’angoscia e una pena che mi durano ancora e che ti trasmetto, sapendo che non vorresti essere tenuto all’oscuro.
Non mi dilungherò troppo, caro compagno, mi sono stati raccomandati messaggi brevi poiché si temono controlli alle frontiere benché tutti sfruttino ancora il caos dilagante, affatto sopito dal giorno che è caduta la Repubblica.
Ti scrivo, con urgenza poiché ho una grave colpa nei tuoi confronti e ti chiederò, ancor prima di allegarti questo mio scritto che ti verrà recapitato tramite Francois Gilbert  -ti ricorderai del mio promettente pupillo, te lo affido, spero che me lo rimanderai a Parigi il prima possibile – al palazzo della Repubblica di Francia, a Ginevra, ti chiederò di perdonare queste mie folli parole che potrebbero lasciarti sconvolto e disgustato di uno dei tuoi più cari amici.
Non riesco più a mantenere per me questa storia, questi pensieri  e questi miei patetici sentimenti, degni di un romanzetto per donnicciole, ma la mia penna è a secco, la mia musa ormai è saltata da tempo sulla corriera che porta a Bruxelles e non c’è speranza che torni a Parigi, trattenuto gelosamente, come un falco reale in un uccelliera di corte... ma anche questo saprai, più tardi, ciascuna cosa a suo tempo.
Dunque finalmente sono riuscito a buttare giù nella patetica forma di confessione tutto ciò che ho vissuto negli ultimi due anni, anni splendidi, di fervente attività artistica, di audaci ideali e gentili, appassionate amicizie che ormai sembrano essersi sfaldate  miseramente  - e custodisco ancora gelosamente le poche che mi sono rimaste, e la persona a me più cara sicuramente sei tu, in questo momento di dolore- .
Ma ancor di più ti chiedo perdono poiché a te lascio queste mie angosce, ti costringo a mantenere questo oscuro segreto che forse un tempo, spalleggiato dalla mia Musa   -se mai fosse capitato, ahimè! - , avrei anche avuto l’ardire di svelare senza tanto cruccio.
Ma i tempi sono funesti e questo sotterfugio è tutto ciò che mi rimane perché la mia mente vecchia non impazzisca.
Dai tue nuove e non farmi stare in pena, siano anche insulti e bestemmie, fammi sapere che hai raggiunto una qualche posizione stabile, altrimenti, saprò almeno che sei arrivato a Ginevra come era tua primigenia intenzione.
Il tuo più fedele, imperdonabile amico,

Etienne Carjat
62 Rue de Pigalle
Notre-Dame-de-Lorette
Paris





Quando Paul Verlaine mi annunciò che sarebbe arrivato un suo giovane ammiratore, io sorrisi sotto i baffi e questi mi chiese, a buon diritto cosa ci fosse di tanto divertente: non volli spiegargli, forse l’avrebbe trovato offensivo e inventai che m’era passata per la mente una nuova caricatura e vignetta satirica per  “La Commune”,  su cui avevo da poco pubblicato qualche articoletto di poco conto.
Come spiegargli che il suo entusiasmo fanciullesco con cui ci presentava questo giovinetto, più giovane di noi tutti, in età scolare, mi appariva ingenuo, poiché anche Paul a quell’epoca era un piccolo poeta estremamente promettente, un fanciullo, dico, rispetto ai più rinomati, Thèodore De Banville,  Henri Fantin-Latour o Albert Mérat, tutti eredi della più curata e ricercata scuola dei Parnassien.
Non che Verlaine non fosse avvezzo alla poesia di tradizione, ma era effettivamente il più giovane ed entusiasta, spesso deluso e disinnamorato per poi ricaderci, sempre, con la stessa frenesia del passato.
Eppure era il più dotato fra noi, il più legato a Ricard*e alla sua esasperata cura formale che a volte sapeva di accademismo   - e io, assieme al mio più caro amico Gustave Courbet, ho sempre trovato più stimolante la vena popolare, l’umorismo e all’occorrenza le più volgari battutacce da taverna-   ma nella poesia di Paul ho sempre trovato solo la leggerezza della musica*, persino nelle sue composizioni più scandalose  e oscene, gli ultimi Sonnets du Trou du Cul, molto divertenti, specie recitati a quel modo da André Gill.
Insomma, questo suo entusiasmo mi pareva l’ennesimo fuoco di paglia e già scambiavo battutine ironiche con Albert  e Léon Valade che sembravano proprio pensarla come me.
Il 24 settembre di quell’anno, il 1871, il giovinetto mise piede a Parigi e, stabilitosi a Montmatre presso i suoceri di Verlaine,  si presentò al nostro circolo, accompagnato da Paul.
Ricordo quel momento come fosse ieri; erano splendidi giorni freschi ed estivi, assolati, un autunno che non voleva cedere le sue foglie poiché il verde trionfava ancora.
Eravamo seduti ai tavolini di uno di quei caffè a riva gauche*, a discutere, nostro malgrado,  della nuova divisione della città in ventidue consigli di guerra che dovevano riportare l’ordine dopo il massacro della Comune e la caduta della Repubblica. Inutile dire che i miei compagni erano terribilmente contrariati dalla natura politica e impegnata del discorso, ma, tutte le volte che mi capitava di invitare e portare con me Gustave, egli, con la sua indole ribelle, appassionata e rivoluzionaria, monopolizzava la conversazione scegliendo l’argomento dei discorsi e non ci era mai dato di parlare di arte.
D’altra parte per Gustave l’arte era profondamente legata alla politica, alla società del nostro tempo, era un ritratto impietoso e tremendamente fedele, anche piuttosto scuro  e desolante.
Spesso mi aveva proposto di mettere la mia arte fotografica al servizio della causa rivoluzionaria ma io mai avevo voluto lasciarmi così coinvolgere negli affari della Repubblica; d’altronde il nostro codice di Parnassiani esigeva “l'art pour l'art” come amava spesso ricordarci Théophile Gautier.
Ebbene, cercando di non divagare, arriverò al punto: la comparsa di quel piccolo diciassettenne folgorò tutti noi  e nessuno ebbe il coraggio di ironizzare sulla sua persona come ci eravamo promessi di fare, fra una risata e l’altra qualche settimana addietro.
Si presentò come Arthur Rimbaud, originario di Cherville, e, quando sentì i nostri discorsi che Courbet cercava di riprendere, per nulla colpito dal nuovo arrivato, commentò con sfacciataggine che non pensava di aver aderito ad un circolo politico. Si considerava già uno di noi, senza che nessuno avesse ancora detto nulla, nemmeno riguardo al suo incantevole aspetto che meritò sempre di essere celebrato e che, se potessi, farei io ma la mia penna rozza non gli renderà mai giustizia.
Un viso ovale, in lontananza perfetto,  ma che rivelava in vicinanza poco mento, il gonfiore infantile di guance e labbra ripiegate in un’espressione seria, di una severità che mise tutti noi a disagio.
Naso ben strutturato, occhi grandi chiarissimi e glaciali, assottigliati dalla linea scura delle sopracciglia, una fronte alta e un capello corto, senza un filo di barba o basetta, ma un po’ più libero e ribelle a ciuffi sulla testa, schiarito dal sole dell’estate, di un castano biondastro  macchiato.
Il ritratto dell’innocenza, con quella  pelle così candida e ben conservata che pareva non aver mai preso il sole della sua campagna d’origine, rivelò invece uno spirito indomabile, una lingua tagliente e una mente visionaria che smarrì, nei suoi mondi paralleli trascinando con se Paul.
Mai seppe meglio descrivere qualcuno il caro Léon Valade quando ne intuì la natura spaventosa “con i suoi stupefacenti poteri  e la sua depravazione”.
Il ragazzo si rivelò inoltre la mente geniale che Paul aveva annunciato sebbene anche questo fu da noi capito tardi, ma nel frattempo egli si offrì per primo di aprire la lettura poetica, nostra abitudine settimanale e alle volte giornaliera, a lui nota evidentemente.
Ci presentò dei componimenti giovanili in latino, di altissimo pregio, un tantino noiosi, specie per me che poco ho sempre capito di latino  e certo non si attirò la simpatia della nostra compagnia che, per quanto tradizionale nello stile, ha sempre rivendicato il suo carattere francese, non influenzato dall’accademia di ispirazione classica.
Inoltre lo fece con tale orgoglio e prepotente boria da infastidire buona parte di noi, il vecchio Albert in primis, quasi godesse a dare sfoggio della propria cultura.
Ad ogni modo, ricevette delle occhiate impressionate almeno da coloro che potevano capire e tanti sbadigli dal resto del circolo. Dopodiché, mentre ci accingevamo a cedere la parola ad André Gill, egli ci interruppe con timidezza studiata, chiedendo di poter recitare un’ultima lirica, breve, di sole due strofe,  quattro versi ciascuna, in francese. Il permesso gli fu accordato, pazientemente da André e fu allora che colpì, inviandoci fulgide immagini di dell’estate, dell’erbetta esile, della frescura e delle piogge che accompagnano un misterioso viandante errante su di un sentiero che si perdeva nei meandri della Natura, a cui si accompagnava con la stessa passione di una donna amata*.  Era dai tempi delle dolci Corrispondenze* del grande maestro Baudelaire che non si udiva una cosa del genere, ma il nuovo si avvertiva nel palpabile desiderio di fuga, di avventura oltre l’ignoto, in un oceano lontano di natura  che da tempo noi, definiti “simbolisti”, sentivamo come una creatura dalla volontà imperscrutabile e dalla forma indistinta.
Questo mi inquietò ancor di più e finalmente il giovane Rimbaud ricevette l’attenzione di tutto il suo pubblico. E in quel momento, forse per suggestione o forse perché i suoi tratti delicati lo suggerirono, intravidi una  malizia misteriosa, che non saprei spiegarmi ma che mi affascinò e mi stordì ancora di più.

Per pochi mesi almeno godemmo della partecipazione di Arthur al nostro circolo parnassiano, i “Vilains Bonshommes”, e io mi legai particolarmente a lui in quei mesi poiché egli era sempre in giro, spesso passava per il mio studio e vi si tratteneva per ore, a discorrere, a scrivere, a bere e osservare la mia tecnica fotografica senza mai però nutrire quella passione che io vi ho sempre riposto.
Non amò nemmeno la presenza frequente di Gustave Courbet nella mia bottega, sempre pronto a riportarmi sulla terra, dopo lunghi voli pindarici sul Parnaso che culminavano in sonetti scadenti che archiviavo fra le fiamme del mio camino.
Quando c’era Gustave ne ridevamo insieme e poi finivamo a parlare di fotografia poiché egli stesso era tremendamente affascinato da quello strumento che tanto bene poteva catturare l’immagine dell’uomo nel dettaglio che ogni pittore vorrebbe poter fare suo.
Era il progresso, quel moderno che ci ammaliava e che ci distruggeva, che ci costringeva a guardarci, incapaci di spiegarci perché il grigiore delle città si addensava su di noi, come gli spazi si allargavano e si espandevano, forti di nuovi materiali fra i più fantasiosi come il vetro o il ferro.
Come mi meravigliai quando Gustave mi  presentò una stampa di un ventennio prima che raffigurava una struttura di vetro di Londra, allestita per l’Esposizione Universale del 1851, e soprannominata Crystal Palace. Non potevo fare a meno di stupirmi e guardare tutto con occhi bambini, ripensando ai miei studi approssimativi, da autodidatta, di architettura su una traduzione del  “De re aedificatoria” di Leon Battista Alberti.  Anche Arthur era presente quando Gustave mi presentò la stampa, ma il ragazzo rimase lì, a contemplarlo per un po’ e poi concentrò la propria attenzione su un bicchiere di vetro che avevo sul mio scrittoio, come se non ne avesse mai visto uno. Più che sorpreso sembrava riflessivo e si specchiava nel mio bicchiere con la religiosità di un mistico.
Forse fu in quell’occasione che concepì quella piccola “preghiera della sera” in cui si ripeteva ossessivamente quella figura del bicchiere, non un bicchiere di acqua limpida bensì un bicchiere di quel nettare che fa dimenticare gli affanni, che rosseggia o biancheggia, che mette allegria e movimenta ogni conversazione, in compagnia o da solo.  Ma era anche un essere disgustoso ,  “un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro”, come lo definì Monsier de Sivry, cognato di Paul Verlaine che lo cacciò di casa. Ed egli si precipitò a casa mia, che boccheggiava tanto era ubriaco e recitava, sghignazzando come un satiro dal volto orrendamente deformato:

“E, quando con cura ho ringoiato ogni sogno,
mi volto, bevuti più di trenta bicchieri,
e mi raccolgo a mollare l'acre bisogno:

dolce come il Dio del cedro e degli issòpi,
io piscio altissimo e lontano contro i neri
cieli - approvato dai grandi eliotropi.” *

Quella sera lo lasciai dormire da me, nel mio letto, mentre io rimase seduto su una sedia, praticamente in piedi tutta la notte mentre il mio compagno ogni tanto si svegliava e manifestava il bisogno di uscire, e cercare un luogo appartato dove poter rimettere quanto aveva ingurgitato senza freni.
Abbandonò persino il nostro circolo, portandosi al seguito Verlaine,  svergognando tutti con una pungente lirica che sembrava parlare con malizia innocente di fiori e invece, ciascuno di noi vi trovò un verso a lui dedicato, un feroce giudizio poetico che il miele della poesia non poteva e non voleva nascondere*.
Fino a quel momento, in cui avemmo la prima vera rottura, però egli si rivelò sempre presente nella mia vita e, non potrei negarlo, mi feci trascinare anche io dalle sue fantasie e dai suoi discorsi. Parlava di fuggire, di evadere e girare il mondo, discorsi che mi affascinavano almeno quanto i dolci canti del Parnaso ma che mi inquietavano tremendamente poiché avevano un effetto devastante su coloro che lo ascoltavano.  Egli riuscì persino ad attirare l’attenzione di un giovane pittore autodidatta*, un tempo impiegato del cambio  - figurarsi! Cosa ne poteva sapere un impiegato del cambio di arte! – che si accompagnava ad un pittorucolo di quelli dell’ultimo decennio,  quelli che dipingevano “impressioni”, nient’altro che macchie sbiadite e avvicinate che componevano con le loro strutture labirintiche un disegno, che giocavano con i colori come un bambino avrebbe fatto con un pennello.
Ciò nonostante ne conobbi alcuni piuttosto in gamba e per curiosità  partecipai pure ad una loro mostra, forse la prima*, per pura curiosità e apprezzai i loro discorsi filosofici e interessanti quanto fantasiosi.
Ho sempre considerato la luce di fondamentale importanza anche in fotografia, ma non per questo ho potuto mai riprodurne gli effetti: nulla può più essere imitazione ma non per questo saremo noi i creatori della vita e dell’arte. In merito a quest’ultima riflessione ancora mi irrita chi prende ad esempio delle potenzialità della nuova scienza quella creatura grottesca* di quella insignificante scrittorucola di romanzetti orrorifici che per puro divertimento e noia casalinga si cimentò, pensando di poter, con la sua chimica fantasiosa, infondere vita in un corpo morto. Non vi sarà mai niente di simile in natura, non è pensabile.     
Ma ancora una volta ho divagato: ebbene Arthur seppe catturare quel giovanotto che gli era anche maggiore per età ed esperienza – ci raccontò di certi suoi viaggi nelle terre dell’America spagnola- e gli riempì la testa di quegli esotici aneliti di libertà.
Non ci lasciò neppure il suo nome, tanto Arthur lo aveva instupidito.

Qualche mese dopo poi, ci rincontrammo, salutandoci freddamente per il violento distacco che c’era stato fra noi e Arthur era tutto preso dal suo nuovo circolo di “bohémiens” , gli “Zutistes” che si divertivano a fare satira della poesia parnassiana, a cui poi aderirono, con mia grande sorpresa, anche Léon Valade, André Gill, Albert Mérat e, cosa che mi sorprese meno di qualunque altra, Paul Verlaine.
Scrissero cose orribili che puntualmente Arthur venne a raccontarmi, nei momenti più insperati e meno opportuni. E mi parlò molto di Paul, del suo difficile rapporto con la moglie, che era “una sporca impicciona”,  “un vecchio manico di scopa” e che di certo ormai in Paul non era rimasto nemmeno un briciolo di amore per quella donna, sebbene stessero crescendo un neonato insieme, George.
Mi disgustò sentire di queste stupide chiacchiere dalla sua bocca ma, cosa che mi fece mordere le labbra a sangue e mi fustigò nell’anima, riaffiorò quella gelosia che credevo di aver messo da parte, infine.
E invece si ripresentava bruciante, un carbone ardente che mi avvelenava il sangue, mi toglieva fiato nei polmoni e mi irrigidiva le giunture.
Era stato nel Gennaio di quell’anno, il 1872, che finalmente, dopo averlo pregato a lungo, con tutta l’arte che conoscevo, ero riuscito ad ottenere che si facesse fotografare da me, il fotografo di Courbet, Millet, Daumier, Rossini, Verdi, Rousseau, Baudelaire, Delacroix ed Emile Zolà.
Tutto ciò che volevo era una sua fotografia, un ritratto con cui potessi, meglio delle parole, immortalare la bellezza, l’inquietudine che egli mi provocava, il profondo desiderio di accarezzare quelle piccole mani, di testare con le mie labbra quelle guance e ricoprire il suo viso di baci!
Questi pensieri mi  ripugnavano, mi facevano una tale vergogna che mi sconvolgeva, mi mandava in subbuglio perché arrivavano a tradimento, quando meno me lo aspettavo, mi travolgevano riducendomi in uno stato pietoso, straziandomi e lasciandomi lì, impietosi, perché il giorno dopo sarei tornato ad udire versi osceni dalla sua bocca, sapendo però che qualunque delle sue attenzioni, anche quella più insensibile e profondamente carnale non sarebbe stata mai per me ma per Paul Verlaine.

Mi sottoposi ad una specie di tortura, quella di osservarlo e meglio prepararlo alla foto, studiando la posizione e sorvegliando lo sviluppo e la nascita della mia opera, facendone diverse, in tante tantissime pose, finchè non sentivo che questa mia attività mi era necessaria, mi sembrava di avere un pezzo di lui, in quel momento, solo per me.
è fu in una di quelle cene a cui ancora partecipavamo noi, “des Vilains Bonhommes  “ che saltò fuori quell’argomento, dei ritratti, delle foto e Arthur volle che io mostrassi ciò che fino a quel momento avevo gelosamente tenuto per me. Cercai di prendere tempo, sostenendo che non erano pronti, alcuni non erano neppure sviluppati, era passato solo qualche giorno, così dissi loro, ma in realtà era da una settimana che li tenevo chiusi nel nascondiglio più segreto dell’armadio.
E così litigammo, io, indignato poiché sostenevo di non voler rovinare tanto lavoro per un suo capriccio, lui, rosso in viso, con ancora il profumo di assenzio nelle narici, che mi accusava di essere un bugiardo, che voleva i suoi ritratti e che non avevo il diritto di tenerlo così, in catene.
Lui voleva essere libero, voleva potersi mostrare agli altri per quello che era, era poeta “veggente”, poteva vedere attraverso lo spazio e il tempo cose che altri non potevano nemmeno immaginare e gli altri avrebbero dovuto vederlo, avrebbero dovuto imitarlo, non eleggerlo a loro maestro, non aspirò mai a niente del genere come Gustave non volle mai conformarsi ed aprire una scuola: sempre quella parola, libertà,  andava chiamando disperatamente, finché, stanco di non ottenere risposta, mi ferì alla spalla con la lama del bastone animato di Albert Mérat.
In quel momento avevo compreso che non ci sarebbe mai stato posto per me come non ce n’era per Paul.
Non fui mai sicuro che lui fosse o non fosse in grado di amare, non mi interessò, non dopo quell’episodio.
Quello che continuò a tormentarmi fu il suo ricordo, che face nascere fantasie anche indecenti su di lui, specie nei primi tempi, quando, pur avendo abbandonato il circolo e essendomi allontanato da lui, la mia ossessione, in ogni occasione, continuava a riaffiorare con prepotenza.
 Quante volte sognai di partire via, forse cambiare luogo mi avrebbe liberato dalla sua schiavitù e invece, non appena potevo, sentivo di lui notizia: è poi scappato con Paul a Bruxelles,  in fuga dalla signora Verlaine e Madame Verlaine madre. Non ne ho più ricevuta notizia,  ormai dimentico di me, forse per sempre, o forse dovrò continuare a vivere con l’angoscia che fra qualche anno sarà lui a bussare alla porta del mio studio fotografico, impunito, crudele ma sempre benvenuto.

16 Luglio 1873,  Montmartre



Note

* Contesto storico:  
Dopo il tentativo di governo democratico-socialista a Parigi, detto appunto la Comune di Parigi (18 marzo-28 maggio 1871) a restaurare la così detta Terza Repubblica francese è il generale Patrice de Mac-Mahon divenuto poi presidente.
Le posizioni di Mac-Mahon sono espressamente filo-monarchiche e il Generale spera nel ritorno sul trono degli Orleans (cosa che poi non avverrà;  la Francia manterrà il suo carattere repubblicano fino all’invasione nazista nel 1940 ).

* Etienne Carjat è famoso, oltre che come fotografo e disegnatore, come giornalista e vignettista di satira.
 Co-fondatore del magazine Le Diogène e fondatore della rivista Le Boulevard, ha pubblicato lì le sue migliori caricature.

* La costruzione, sollecitata anche dall'arcivescovo di Parigi, Joseph Hippolyte Guibert, fu decretata da una votazione dell'Assemblea nazionale il 23 luglio 1873 dopo la sconfitta del 1871 per espiare i crimini deiComunardi, e anche per rendere omaggio alla memoria dei numerosi cittadini francesi deceduti durante la guerra.  [cit. Wikipedia ]

*Parnassianesimo :
« Noi vogliamo dire solamente che la passione non è una scusa per fare cattivi versi, né per commettere degli errori ortografici o di sintassi, e che il dovere dell'artista è quello di cercare coscienziosamente, senza la vigliaccheria del pressappochismo, la forma, lo stile, l'espressione più capace di rendere e fare valere il suo sentimento, la sua idea, o la sua visione [...] A parte questo dogma comune - se veramente fosse stato un dogma - noi custodiamo gelosamente soprattutto la nostra libertà personale. Una scuola scuola parnassiana, nel senso tradizionale della parola, non c'è mai stata. »   
[Louis-Xavier de Ricard  (Fondatore del circolo dei Parnassiani) - Petits Mémoire d'un Parnassien]
 

* Poetica di Verlaine:

« La musica prima di ogni cosa,
e per questo scegli l'impari
più vago e solubile nell'aria
senza nulla in sé che pesi o posi »

* Riva sinistra della Senna.

* Parafrasi sintetica di “Sensazioni” (Marzo 1870)

*Corrispondenze di Baudelaire, manifesto del simbolismo

* Preghiera della  sera, profondamente amata da Jim Morrison, che si è molto ispirato a Rimbaud

* Si veda   “Ciò che si dice al poeta, a proposito di fiori” , anche se i riferimenti, a meno di non fare un complesso lavoro di filologia non sono intuitivi.

* Un Gauguin ancora alle prime armi che si avvicina timidamente all’impressionismo ma che risente anche lui del bisogno di evasione che si realizzerà nei suoi viaggi in Polinesia e Tahiti che influenzeranno la sua pittura tutt’altro che naturalista ma molto emozionale.
Ho leggermente anticipato la data della mostra degli impressionisti che in realtà è del 1874 ed è in quell’occasione che il critico Leroy conierà il termine “impressionismo”, facendo del sarcasmo sul titolo di un famoso quadro di Monet “Impressione al sol levante”.

* Il Frankenstein di Mary Shelley con il mito romantico e allo stesso tempo progressista della creazione dell’individuo che si può portare a termine con la nuova scienza chimica.
Mary Shelley lo scrive in seguito ad una scommessa, portata avanti assieme al suo gruppo di amici, intellettuali quali Byron e il marito Percy Bissey Shelley.
 
  
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