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Autore: Mushroom    07/02/2013    9 recensioni
«Allora?» chiese Sherlock. Il suo cuore – nell'ipotesi surreale che ne avesse avuto uno – avrebbe potuto emettere un battito di troppo e segnalare un sovradosaggio di adrenalina. Così non fu, ovviamente, ma Sherlock sentì ugualmente un formicolio fastidioso all'altezza del petto.
John si schiarì la gola. Impiegò qualche secondo prima di dare una risposta. Chiuse il giornale, piegandolo in quattro parti perfette, poi lo ripose affianco alla Abat-jour, tra il violino di Sherlock e la tazza di Sherlock.
«Allora cosa?» domandò John, alzando gli occhi verso il proprio coinquilino «Non posso dire di non averlo mai pensato, Sherlock»
Genere: Commedia, Generale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Libri, vampiri e discorsi sull'umanità dell'essere
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Rating: G
Avvertimenti: Au, Soprannaturale, One-shot, Bromance (?)
Conteggio Parole: 3881
Note: \
Scritto per la staffetta in piscina @piscinadiprompt con il prompt Orfano, "Monsters are real, and ghosts are real too. They live inside us, and sometimes, they win." (Stephen King) + per l'horror fest @sherlockfest_it con il prompt "Io sono il mostro che gli uomini che respirano bramerebbero uccidere. (Dracula di Bram Stoker)" + per Tabellame di auverse con il prompt "vampiri" + scritta per la #4 Maritombola indetta da maridichallenge con il prompt "Lasciami solo"



John non gliela rese difficile. In verità, John non disse niente. Abbassò il giornale con naturalezza, come quando Sherlock piombava nella stanza con una nuova idea o un nuovo caso, prendendo atto delle sue parole così come si memorizza la lista della spesa. Si schiarì la gola, poi tornò al The Time e al caso di omicidio di pagina otto, dove un abile giornalista narrava i dolori dei famigliari.
Sherlock, in piedi davanti al dottore, si sentì quasi offeso. Scaricò il proprio peso dal piede sinistro a quello destro, pazientemente in attesa; non solo era stato perfettamente ignorato, ma le sue parole erano scivolate sulla fronte del Dottore come se niente fosse, per poi essere tranquillamente subordinate alla lettura del giornale.
«Allora?» chiese Sherlock. Il suo cuore – nell'ipotesi surreale che ne avesse avuto uno – avrebbe potuto emettere un battito di troppo e segnalare un sovradosaggio di adrenalina. Così non fu, ovviamente, ma Sherlock sentì ugualmente un formicolio fastidioso all'altezza del petto.
John si schiarì la gola. Impiegò qualche secondo prima di dare una risposta. Chiuse il giornale, piegandolo in quattro parti perfette, poi lo ripose affianco alla Abat-jour, tra il violino di Sherlock e la tazza di Sherlock.
«Allora cosa?» domandò John, alzando gli occhi verso il proprio coinquilino. Il cuore di John – che, al contrario, era più che presente e funzionava bene – gli consigliò senza mezzi termini di scappare, ma non lo ascoltò. «Non posso dire di non averlo mai pensato, Sherlock» John prese un respiro. Si massaggiò gli occhi con il pollice e l'indice e, per un attimo, si sentì improvvisamente troppo vecchio per affrontare questa conversazione. Non aveva più vent'anni, e la sua guerra l'aveva già combattuta; in più, non credeva che la confessione di Sherlock fosse un problema. «Insomma – continuò – era abbastanza deducibile. Voglio dire...» abbassò lo sguardo «Non mangi, non dormi e hai gli occhi che cambiano colore col clima, come un fottutissimo anello della fortuna».
Sherlock rimase immobile per troppo tempo, scordandosi di dover quanto meno fingere di respirare.
«Quindi va bene?» disse infine, inclinando la testa.
«Più che bene»
«Anche se sono un vampiro?»
John annuì, riprendendo tra le mani il giornale «Sì. Voglio dire, Sherlock, lo sapevo, ma...» si interruppe, poi sorrise «Sono felice che tu me l'abbia detto» e con questo la questione si chiuse.
Perché, andiamo, John era umano, ma non così stupido. E questo spiegava anche le fiale di sangue nel frigo.

John accettò di buon grado il vampirismo di Sherlock. La verità è che non ci badò proprio. Sherlock aveva calcolato le variabili, la possibile crisi interiore di John e qualcosa di altrettanto umano come l'urlare e il scappare, ma non l'indifferenza. In realtà credeva che John avesse avuto una qualche reazione al mondo del sono morto ma non troppo (come la chiamava impropriamente il dottore) solo quando gli Zombie avevano chiesto diritto al matrimonio (e lo stato l'aveva loro concesso).
Così l'essere vampiro di Sherlock si sciolse come neve al sole e la vita al 221B di Baker Street continuò a trascorrere come sempre, con un po' più di rispetto per le tende tirate e il divieto di portare aglio in casa. John usciva mentre Sherlock dormiva, e dormiva mentre Sherlock usciva, con quelle ore nel mezzo in cui uno cenava e l'altro parlava di cadaveri.
La verità era che, da quando il vampirismo era stato legalizzato, le cose andavano un po' meglio, sebbene dire apertamente di essere un vampiro poteva risultare a molti difficile. Prima di tutto, perché ogni essere umano crede di essere una potenziale cena; in secondo, perché a nessuno piacciono i vampiri. I vampiri sanno di morte e di scarto; anche gli zombie risultavano più simpatici, per questo loro si potevano sposare e i vampiri no.
«Credo che sia colpa di Anne Rice» John alzò gli occhi dalla propria cena, mentre Sherlock cercava di risvegliarsi nel modo meno tragico possibile. Quando si svegliava gli girava sempre la testa, e il mondo assumeva connotati sfumati che lo infastidivano. «Se la gente ha strane idee sui vampiri, dico.»
«Leggi Anne Rice, John?»
John tacque. «Solo Intervista col vampiro» disse «E Scelti dalle tenebre» concluse, annuendo lentamente. Avrebbe voluto aggiungere che, comunque, leggere Anne Rice era una cosa abbastanza diffusa ma, in un secondo momento, decise di tenere per sé quell'informazione e di non dire che quei romanzi erano inoltre dei bei romanzi.
Sherlock sbadigliò, anche se non ne aveva bisogno. Il mondo iniziò ad apparirgli un po' meno scostante. Si avvicinò al frigo. Da quando era un semi-vivente si nutriva molto di più che nei suoi tempi da vivente-vivente.
«In realtà è Twilight che da brutte aspettative sui vampiri» lo corresse, cercando il la fialetta di B positivo.
John sorrise «Vuoi dirmi che non sbrilluccichi al sole?»
Sherlock sbuffò. «Brucio, al sole. E poi muoio e i miei resti diventano ceneri» fece una smorfia e trovò finalmente la fialetta di sangue. La scorta stava finendo, constatò, appuntandosi di procurarsi altro sangue (magari di tipo 0, questa volta, il 0 è più dolce). Bevendo, i capogiri scomparvero.
«Inoltre» aggiunse, posando la fialetta «Sebbene i tratti in comune siano più numerosi con i vampiri di Anne Rice, non ho nessun problema di disfunzione erettile». Poi decise che, per quel giorno, poteva dedicare le sue ricerche ai campioni di dita umane che aveva in frigo, ignorando il tossicchiare nervoso di John.

«Chi altro lo sa?» il sole stava tramontando e Sherlock si era svegliato troppo presto. Strizzò gli occhi, infastiditi dalla blanda luce che filtrava dalle tende, poi fece una smorfia. «Che sei un vampiro, intendo» John doveva sempre specificare. Specificare fatti sottintesi era molto umano, in effetti, e John era quanto di più umano Sherlock conoscesse.
«Tu» disse, tamburellando le dita pallide su una fiala di sangue vuota. John prese un piccolo respiro. Era buffo il fatto che questo lo rendesse un po' orgoglioso, in maniera così vergognosamente palese «Credo che la signora Hudson l'abbia intuito, mentre Scotland Yard ne è all'oscuro».
John arricciò il naso, lasciando il cappotto sull'appendiabiti all'ingresso. Era stata una giornata di lavoro leggera, senza troppi imprevisti, sebbene avesse avuto qualche problema con una delle pazienti di Sarah, una Banshee con i capelli strani e l'amore per le urla che gli aveva regalato una punta di fastidioso mal di testa.
«Credo che Lestrade lo sappia» John si avvicinò alle mensole, alla ricerca di un bicchiere e di un'aspirina «Non ti chiama spesso durante il giorno. Lo fa più dopo il tramonto».
Ci fu un momento di silenzio in cui la perspicacia di Gregory Lestrade venne sopravvalutata. Sherlock stava fermo come una statua, senza respirare, osservando il volto di John mentre ingoiava l'aspirina.
«È perché dopo il tramonto ci sono meno agenti in servizio» rispose, inalando finalmente un po' d'aria  «Ho esplicitamente chiesto di non avere troppa gente intorno mentre lavoro».
John sembrò sul punto di dire qualcosa, ma le parole sfociarono in un sorriso soddisfatto, perché il fatto che Sherlock dicesse una mezza verità per nasconderne una più grande era più che lecito. Ripose il bicchiere nel lavello, sciacquò le mani e aprì il frigorifero. Era sorprendente la velocità con cui si era abituato ai pezzi di cadavere nel frigo. Un paio di volte, prima  che teste e mani mozze e lingue e dita fossero niente di più che ingombri vicino allo yogurt o alle carote, era capitato che John fissasse i pezzi di corpo (quasi sempre umani) nello stupore di trovare un bulbo oculare in più (anche se quelli erano, generalmente, nel microonde). Nella sua prima settimana in Baker Street aveva rischiato di cucinare due dita e no, non voleva ricordare l'esperienza. Nello stesso modo con cui aveva fissato le sanguinolente reliquie, ora fissava le fiale sangue, disposte ordinatamente in base al gruppo sanguigno e alla data di scadenza. Era curioso di sapere dove se le procurasse.
Chiuse il frigo «Da quanto sei un vampiro?» chiese, a bruciapelo, scoprendosi sorpreso dalla sua stessa domanda. Perché, in effetti, non è che uno ci nasce e basta. Non è come avere un dito più lungo di un altro o il lobo dell'orecchio staccato.
«Cinque anni»
John aprì e chiuse la bocca. Come è successo? Non lo chiese. Si trattava di una curiosità in eccesso. Così come non chiedi a un reduce di guerra come ha perso la gamba, non chiedi a un Vampiro come lo è diventato.

John scoprì che il vampirismo e la licantropia erano ufficialmente riconosciute come malattie dall'albo di medici chirurghi della divisione adibita alle cure soprannaturali. L'articolo che lesse, davanti a un tè nero e a un Toast («Buonanotte» brontolò Sherlock, sbattendo la porta della camera. Aveva le finestre oscurate, ma John non aveva mai verificato la presenza di una eventuale bara) trattava gli argomenti alla stregua dell'AIDS. Concludeva con la speranza di una cura futura. Nella pagina affianco, la pubblicità colorata di un nuovo gel per capelli ti invitava a “non avere mai più la pettinatura di un morto con il nuovo gel total repair!”.

«Dobbiamo parlare dei tuoi problemi nel fingerti umano» disse John quella sera, strofinando con vigore un piatto. Bagnò un panno e riprese la sua opera. Sherlock si girò di trenta gradi precisi, guardandolo come se avesse appena dichiarato di voler arruolare dei bambini sudamericani per una guerra di confine.
«Non ho nessun problema a sembrare umano» ribatté, mostrandosi lievemente scocciato.
«Invece sì» continuò John, riponendo via il piatto e asciugandosi le mani. Sherlock alzò un sopracciglio, congiungendo le mani sotto il mento e puntellando i gomiti sul tavolo. La sua posizione sembrava dire “Prego, attendo informazioni” seguito da un “Che saranno comunque sbagliate, ma mi diverte contraddire gli altri”.
«Prima di tutto, sei troppo veloce» iniziò «Quando parli e quando ti muovi».
Sherlock fece una smorfia «Non è vero»
«Sì che lo è. E questo spaventa le persone»
Sherlock roteò gli occhi. John intervenne prima che potesse dire che spaventare le persone non era un problema o, peggio, che aggiungesse qualcosa riguardo al divertirsi nel terrorizzarle.
«Parli troppo velocemente. A volte non respiri. Altre stai fermo per troppo tempo, senza battere le palpebre» elencò.
Sherlock sbuffò senza muovere un solo muscolo facciale. Era questo quello a cui John si riferiva. Perché non sarebbe umano non trovarlo inquietante; e lui non voleva trovare Sherlock inquietante.
Poi inclinò la testa, cercando di spostare il proprio peso sulla sedia. Allungò una mano verso la frutta, lentamente, cercando di fare come John aveva detto. Gli ci vollero due tentativi perché non sembrasse troppo lento e uno in più perché, finalmente, sembrasse solo un umano troppo stressato.
«Contento?»
John annuì, poi tornò ai due piatti che erano ancora da lavare.
Sherlock lo osservò. Prese un respiro, poi un altro, cercando un ritmo regolare. Fissò John finché non coordinò il proprio respiro col suo.

«Comunque sono sempre sembrato perfettamente umano» il discorso riprese quando Sherlock svegliò John alle cinque di mattina «Non ho mai insospettito nessuno»
«Hai insospettito me» John infilò la testa sotto il cuscino. Sherlock lo scosse con un po' troppa forza.
«Dettagli»
«No, non lo sono»
«Perché?»
«Perché la gente pensa comunque che ci sia qualcosa di strano in te»
«Quindi dovrei respirare di più?»
John emise un verso soffocato molto simile a un ringhio.

***
«Abbiamo allestito una squadra per i crimini soprannaturali» disse Lestrade, osservando con particolare interesse l'abilità di Sherlock di ispezionare un cadavere come un vero e proprio segugio «E io ci sono finito dentro. Così mi ritrovo con un cadavere...»
«Con una vittima di atti di vampirismo» lo corresse Sherlock, puntando la lente di ingrandimento (scenografica) sui piccoli fori nel collo del corpo.
«Quello» continuò, abbozzando un sorriso «... che può sia tornare in vita, sia essere morto morto».
John alzò gli occhi verso l'investigatore, poi gli abbassò di nuovo sul corpo. Era un uomo ed era coperto di morsi; piccoli puntini rossi che costeggiavano collo, braccia, addome e gambe. Nella luce dell'obitorio, sembrava uno scolapasta in versione umana.
«È morto» dichiarò Sherlock. Non specificò, questo significava che era morto e basta. «Si è trattato di un attacco congiunto» disse. Poi indicò con le dita uno, due, tre fori «Questi morsi sono tutti diversi» ruotò intorno al tavolo anatomico «Si è trattato di almeno tre vampiri. Uno aveva un canino scheggiato, l'altro ne aveva uno più grande e uno più piccolo». Sherlock alzò le spalle e, impercettibilmente, si spostò dall'altra parte del tavolo. John sobbalzò. Lestrade aprì e chiuse gli occhi, chiedendosi come Sherlock fosse arrivato in quel punto.

«Sei stato troppo veloce anche questa volta» disse John. Sherlock era un mese senza un caso e sembrava un bambino la mattina di natale. Nel caso di Sherlock si trattava di un bambino che, durante la mattina di natale, aveva felicemente imprigionato Babbo Natale per sottoporlo a strani esperimenti.
«Lestrade non nota certe cose»
«Non essere stupido».
Sherlock fece una smorfia e tirò fuori il proprio blackberry.
«In ogni caso, ho sei idee»

La prima idea di Sherlock consistette nell'andare in un vecchio capannone nei pressi di “non ricordava bene” quale parte del Tamigi. Era una proprietà privata, circondata dal filo spinato, con dei cani poco amichevoli al suo interno, che trasformavano il capannone in un set da film americano di serie b. L'irruzione aveva portato John a correre come mai aveva corso in vita sua per cercare di non farsi sbranare da dei mastini.
«E comunque» disse Sherlock, mentre John cercava di scavalcare la rete e i cani saltavano con l'affettuoso fine di addentargli le caviglie «Non sono così inumano».

«Non sei inumano» affannò dopo John, mentre Sherlock si lanciava verso la seconda idea come se non ci fosse stato un domani. La seconda idea era quella di seguire il proprietario del capannone – poco originale, doveva ammettere John, ma non tutti i casi comprendevano organizzazioni criminali o piani malvagi; e sinceramente preferiva pedinare qualcuno che venir inseguito dai cani. «Almeno, non quanto lo fossi prima di diventare un vampiro».
Sherlock alzò un sopracciglio «Non hai mai avuto occasione di conoscermi, prima»
«Andiamo» borbottò John «Nessuno può diventare così subdolo e rompipalle di proposito, anche se viene morso da un vampiro».
Sherlock sembrava impegnato a ascoltarlo, ad seguire la conversazione del tizio che stavano piantonando e, contemporaneamente, a canticchiare la nona sinfonia di Beethoven.
«Quindi ero un umano inumano?»
«No. Cioè, sì, ma no. Non sei inumano perché sei un vampiro e ci sono molti viventi-viventi ad essere più inumani di un vampiro, ma comunque sei umano, ecco».
Sherlock smise di canticchiare e girò la testa verso di lui, fissandolo con quello sguardo di velata condiscendenza che si rivolge ai pazzi. «Sei leggermente confuso sull'argomento, John»

La seconda idea di Sherlock li condusse a una terza, che però si rivelò un letterale buco nell'acqua. John cadde nel Tamigi. Due volte. Le mai di Sherlock che lo aiutavano a scavalcare gli argini e tornare a riva erano più fredde dell'acqua del fiume in pieno Gennaio.

Sherlock saltò la quarta ipotesi perché la quinta lo convinceva di più. La quinta consisteva nel fare irruzione nel covo di vampiri clandestini della città e «Sì, okay, tutto apposto, facciamolo, ma muoviamoci perché muoio di freddo e domani devo lavorare, sant'iddio» borbottò John, mentre camminavano tra una serie di bare semi interrate. C'era un vago sentore di sangue che a John non piaceva, per niente. Sherlock sembrava indifferente, invece, eppure il vampiro era lui.
«Ma come fai?» domandò, tirando su col naso e sfregandosi le mani lungo le braccia «A non aver problemi davanti all'odore del sangue, voglio dire» continuò, riflettendo sul fatto che anche a casa Sherlock maneggiava tranquillamente pezzi di cadavere.
Sherlock scrollò le spalle, aggrottando le sopracciglia «Vuoi dire con la brama di sangue?» Lasciarono la stanza con le bare. John annuì, qualsiasi cosa fosse. «Se mi nutro, non ho problemi» disse «Posso controllarmi, John, non sono mica un essere tanto incivile»
«Quindi non hai mai voglia di mordere qualcuno?»
«Sì. Ma posso gestirla»
Sherlock continuò a camminare, senza aggiungere che, qualche volta, era John quello che aveva voglia di mordere.

«Covo di vampiri» sbottò John, mentre il capo clan assetato di sangue cercava di attaccarlo «Pessima, pessima idea»

John tornò a Baker Street quando ormai era quasi l'alba. Sherlock ci aveva messo poche ore a incastrare i tre vampiri colpevoli e a far arrestare il capo clan per lesioni a pubblico ufficiale. Vincent – questo era il nome del vampiro Master – si era giustificato dicendo di star solo difendendo la propria casa. Sherlock non aveva aggiunto che cercare di mordere John era sete e non autodifesa.

***

Gli occhi di Sherlock erano più pallidi, quel giorno. John lo notò dopo cena, affetto dal desiderio di dormire e non fare più niente per il resto della propria misera esistenza. Risolto il caso, John aveva dovuto spiegare a Sarah perché non era andato a lavoro; poi gli aveva dovuto illustrare sei validi buoni motivi per il quale non avrebbe dovuto licenziarlo: John ne trovò solo due, Sarah gli abbonò gli altri quattro e pretese una maggiore serietà.
«Ma i vampiri invecchiano?» chiese John. La sua voce uscì dal bagno mentre cercava di spremere il dentifricio sullo spazzolino.
«No» ribatté Sherlock. «Ma deteriorano quando non mangiano»
«Stile Dracula?» John iniziò a spazzolarsi i denti. Sherlock fece internamente una smorfia di orrore; esternamente, non mosse un muscolo
«Non nominare mai più quel mucchio di frottole e di spazzatura»
«E che mi dici di True Blood
Sherlock si astenne dal rispondere, anche se nella cucina di Baker Street stava lavorando a una tipologia di sangue sintetico molto utile. Forse.

John riprese a lavorare. Sarah gli fece carico dei doppi turni di tutta la settimana, e lui non osò protestare, optando per l'opzione di leccare il culo al capo offrendole le colazione quattro giorni su sette.
Mercoledì si presentò in ambulatorio la signora Easychair. Aveva settant'anni e una dipendenza non dichiarata da pillole per il colesterolo. Guardò John attraverso gli occhiali spessi come due fondi di bottiglia, poi parlò, strascicando le parole «Credo che mio figlio sia un licantropo» disse. Si sistemò sulla sedia, facendo ondeggiare il capello a fiori e tentando di darsi qualche centimetro in più.
John la guardò con cortesia.
«Sa, ha iniziato a fare cose un po' strane. Come masticare pantofole e rincorrere frisbee» prese una pausa, come per pensarci su «Può aiutarlo?»
La cortesia di John sperò che la donna stesse scherzando. «Come, prego?»
«Sì, sa, ha capito, aiutarlo» sottolineò l'ultima parola sporgendosi verso il tavolo «Farlo tornare normale o, non so, dargli una pastiglia»
John strinse le labbra e prese uno, due, tre respiri. Gli erano già capitati pazienti che credevano di essere affetti da un qualche tipo di malattia magica o da vampirismo. Persone che gli avevano chiesto cure che non esistevano per una cosa che non era una malattia, bensì solo un altro modo d'essere. «Mi spiace, signora, ma è impossibile»
La signora Easychair fece un verso di dispiacere, tornando composta sulla sedia «Peccato» commentò «Povera me. Sa, sì, se fosse diventato uno zombie sarebbe stato meglio, ma un licantropo. Madonna, dovrò nascondere tutte le scarpe quando verrà di nuovo a trovarmi»

John dormì in ufficio tre ore a notte per sette giorni, cosciente di non fare orari simili dai tempi del tirocinio in medicina. Tornò a casa il lunedì successivo con un giorno di vacanza e la sensazione di essere appena rientrato da un lungo viaggio.

Sherlock dilatò le narici quando John entrò. Un braccio a penzoloni dal divano, stava disteso nella sua immobilità. Spalancò gli occhi e le pupille si dilatarono. Qualcosa nel petto di Sherlock emise un verso rauco, che dovette ricacciare indietro.
«Sono a casa» sbuffò John, lasciando cadere giubbotto e valigetta a terra e lanciando le scarpe in un angolo. Chiuse la porta, si diresse verso la cucina «Ho passato i sette giorni più strani della mia vita. E la poltrona dell'ambulatorio è più comoda del materassino di Sarah, quindi ti devo dieci sterline».
Sherlock ringhiò, basso.
«Quindi, la prossima volta che hai un killer soprannaturale tra le mani, ricordati di avere un amico sottonaturale, okay?» tirò fuori qualcosa che somigliava a cibo dal frigo, lo posò sul tavolo e valutò di poterlo mangiare anche senza riscaldarlo.
Mangiò in silenzio, fissando Sherlock – apparentemente di mal umore – come se non lo vedesse da anni. Finì, lavò i piatti e poi, come faceva tutte le sere, si avvicinò al divano, cercando il telecomando. Sherlock trasalì. Contorse le dita in un pugno e aprì gli occhi, di un azzurro così pallido da sembrare un pezzi di vetro. Poi si alzò, a velocità decisamente non umana. Sembrò sul punto di dire qualcosa. Aprì e chiuse la bocca, poi scosse la testa e se ne andò, chiudendo la porta della propria camera dietro di sé.

Il giorno successivo John non incontrò Sherlock. E quello successivo e quello successivo ancora, finché non lo incrociò uscendo la bagno.
«Che cosa sta succedendo?».
Sherlock dovette fare più tentativi prima di riuscire a parlare. Deglutì «Un esperimento».

Fu la terza notte che John smise di chiedersi che diavolo stesse succedendo a Sherlock. Era Sherlock, si disse tornando a casa con la sensazione di essere appena rinsavito, lui qualche volta fa così.
Ma non era il modo di Sherlock a preoccuparlo; era il suo aspetto.

Lo trovò accartocciato su se stesso, che alzava e abbassava il petto velocemente senza però respirare, gli occhi sbarrati verso il niente, le mani tra i capelli. John si spaventò. Piombò su di lui velocemente, sgranando gli occhi, dimenticandosi di essere arrabbiato per il silenzio a cui lo stava sottoponendo. Si avvicinò al divano e gli posò le mani sulle spalle.
«Sherlock?» sussurrò, con la bocca secca e il sangue al cervello «Sherlock?».
Sherlock sbatté gli occhi, più volte, come se non lo vedesse. «Vattene» disse, rifugiando il viso in un angolo del divano «Lasciami solo» ringhiò.
John non cedette. Anche se c'era qualcosa. Qualcosa che suggerì a John di indietreggiare e di scendere le scale, lentamente, come se si trovasse in una gabbia con un animale feroce e necessitasse di rimanere calmo per sopravvivere. E quel qualcosa – che John sentì salire su per le vene e rimbombargli in testa – era paura. Sherlock si voltò con un movimento non visibile, gli occhi quasi trasparenti, in viso scavato, i canini esposti e quello non era più Sherlock.
«Ho sete, John» sussurrò, la faccia distorta da una smorfia grezza, che lo faceva apparire grottesco e disperato.
«Allora bevi» e questo John non avrebbe dovuto dirlo. Fu un attimo. John venne sbattuto a terra e un dolore pungente gli afferrò le spalle, oscurandogli la vista. Sherlock gli soffiò sul suo viso, a metà tra la sua parte umana e quella che ha fame, fame e basta.

***

Sherlock strofinò il naso sul collo di John.
John era convinto che fossero i licantropi, quelli che avevano bisogno di contatto fisico. Non i vampiri. Ai vampiri non piaceva.
«Sei un idiota» disse, dandosi una pacca sulla gamba «Sei così idiota che solo un altro idiota potrebbe essere meno idiota di te».
«Questa frase non ha senso»
«Tu hai smesso di mangiare per un esperimento. Cosa è che non ha senso, ora?»
Sherlock valutò quella risposta e si tenne bene alla larga dal rispondere. Chiuse gli occhi «Volevo brevettare un tipo di sangue artificiale» rispose. John alzò gli occhi al cielo. Sherlock era caldo. Non del tipo caldo caldo, ma tiepido, di una temperatura vagamente umana regalatagli dall'essersi appena nutrito di sangue fresco. A John girava la testa. Aveva disinfettato i buchi sul collo con acqua santa e no, non era stato piacevole, per niente.
Sherlock grugnì. «C'ero quasi arrivato»
John sbuffò e chiuse gli occhi «Sherlock?»
«Sì?»
«Ma ora non diventerò un vampiro anche io, vero?»

   
 
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