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Autore: Iceberg    08/02/2013    2 recensioni
"Sogno o son desto?"
Jillian Key è costretta a fare i conti con la sua razionalità per poter credere che ciò che le accade non è frutto della sua immaginazione, ma che il mondo dei sogni esiste per davvero.
Vielen Dank, "Lullì" c:
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo.

Din, don, dan. Le campane suonano a lutto.
Din, don, dan. Suonano ancora. 
Din, don, dan. E ancora.
Ed io sono sola, in mezzo ad una strada buia. È notte, ma non ci sono stelle. Mi giro intorno, ma non trovo nemmeno la luna. Eppure, intorno a me, riesco a distinguere delle case scure, trasandate e apparentemente vuote. Il cuore inizia a martellarmi in petto. Seguo il rintoccare delle campane. Sento di dover raggiungere il posto da dove proviene questo suono. Ma mi perdo più volte. Giro a vuoto, non riesco a trovare la strada giusta. 
Din, don, dan
Corro più veloce che posso. Inizia a salirmi l’ansia. Il cuore aumenta i battiti fino a togliermi il respiro. C‘è silenzio, sento solo il rumore dei miei passi. I miei piedi che, pesanti, battono sul terreno secco. Devo trovare la chiesa. Corro ancora. La tensione cresce. Ho un brutto presentimento. Corro, ma inciampo e casco faccia a terra. Sento il suolo freddo contro la mia guancia sinistra.
Din, don, dan.
Intanto le campane continuano a suonare. Senza rendermene conto, delle lacrime iniziano a scendermi lungo il viso. Sono calde. Bruciano contro la mia pelle. Lentamente, mi lascio andare. Inizio a piangere e i singhiozzi mi assalgono. 
Din, don, dan.
Vorrei restare qui per sempre. Vorrei morire così. Le lacrime continuano a scendermi lungo il viso. Sono sola. In mezzo al nulla. 
 
Non so per quanto tempo resti così: minuti, ore, o magari giorni. Fatto sta, che quando rinvengo, sono sempre allo stesso posto. Apro gli occhi e vedo ancora buio. Il suolo sotto di me si è riscaldato. Le campane hanno smesso di suonare. Provo ad alzarmi, ma vengo colta da un giramento di testa. Quando finalmente riesco a stare seduta, inizio a battere i denti. Ho freddo, ma non so come fare per coprirmi. Mi rendo conto di indossare solo un vestito corto e senza spalline nero e un paio di scarpe con tacchi alti nere. Penso di dover entrare in una di quelle case che mi circondano, per cercare uno scialle o qualcosa di simile per coprirmi, ma escludo subito l’idea: non solo sarà buio e probabilmente le porte saranno tutte chiuse, ma poi non saprei cosa aspettarmi. E se ci fosse qualcuno lì dentro, pronto ad aggredirmi? No, decido di lasciar stare. Con fatica, mi tolgo le scarpe e cerco di alzarmi in piedi, ma sento una fitta alla caviglia destra e casco nuovamente a terra. Credo di essermela slogata. Inizio di nuovo a piangere, in preda all’ansia, non sapendo cosa fare. Cerco di ragionare, ma l’unica cosa alla quale riesco a pensare è “non vorrei essere qui”. Mi costringo a chiudere gli occhi per un secondo, cercando di mettere in ordine le idee, ma vengo colta alla sprovvista dal suono delle campane. 
Din, don, dan. Ricominciano a suonare a lutto. 
Riapro istintivamente gli occhi e mi accorgo che lo scenario è cambiato: di fronte a me, a pochi metri di distanza, c’è un edificio illuminato. E’ una chiesa. Anzi, è la chiesa. Come ho fatto a non vederla prima? Intravedo un barlume di speranza e inizio a strisciare per arrivare all’entrata. Striscio. Sono così lenta! Mentre mi muovo, altre calde lacrime iniziano a rigarmi il viso, veloci, appannandomi la vista. Ma non ho tempo da perdere.
Din, don, dan
Questo suono mi mette un’angoscia! Sono quasi arrivata. Striscio ancora, sempre più veloce. Ho il respiro affannato. Vorrei correre, ma la mia caviglia si oppone. Tra un gemito di dolore e l’altro, riesco ad arrivare all’entrata.
Din, don, dan.
Ora il suono è più vicino, più forte. Ma ciò non mi conforta. Mi aggrappo ad una colonna, mi faccio forza e mi alzo in piedi. Soffoco un urlo di dolore mordendomi una mano. Resto aggrappata alla colonna, mentre sento la caviglia pulsare. Alzo il viso e vedo di fronte a me, l’interno della chiesa. Ci sono tante candele che la illuminano e la riscaldano. Distinguo gente vestita di nero, che mi da le spalle, seduta su panche di legno scuro. Immobili. C’è totale silenzio. Si potrebbe sentir cadere uno spillo. 
Din, don, dan.
È un funerale: ecco spiegato il mio abbigliamento. Mi guardo intorno, nervosa. È allora che la noto. Proprio di fronte a tutti, vicino l’altare, c’è una bara aperta. Di legno chiaro. Il cuore ricomincia a battere all’impazzata, mentre, con fatica, mi muovo per raggiungerla. Ad ogni passo gemo e rischio di ricadere. Non mi importa del dolore, sento che lì dentro c’è qualcosa di vitale importanza per me. Passo attraverso la navata principale. Non mi importa niente nemmeno della gente che potrebbe notarmi, giudicarmi, bisbigliare, o addirittura prendermi per pazza. E forse è quello che sono: pazza. Dopo quella che mi sembra un’eternità, riesco ad arrivare alla bara. Mi appoggio ad essa per riprendere fiato, poi do’ un’occhiata all’interno. Rimango shockata. Dentro di essa, c’è un corpo identico al mio. Un viso identico al mio. Una persona identica a me adagiata su un telo bianco. Non può essere. Il mio cuore perde un battito. Scossa, tento di allontanarmi. Faccio un passo indietro, ma il dolore alla caviglia mi coglie ancora alla sprovvista. Così, cado di nuovo. Evito di rialzarmi, non ne avrei la forza, e inizio a strisciare all‘indietro. Improvvisamente, voglio andarmene. Non so dove, ma voglio andare via. Mi volto verso la gente seduta. Hanno tutti qualcosa che copre loro il viso. Un momento: nessuno si è mosso da quando sono entrata. Sono rimasti tutti immobili. Con il cuore in gola, mi avvicino alla prima panca che mi capita a tiro e, sempre con grande sforzo, mi tiro su. Mi trovo di fronte ad una signora con la testa china e un grande cappello nero che le copre il viso. Avvicino lentamente una mia mano tremante a lei, mentre con l’altra mi tengo alla panca, ma lei non si muove. Allora, con uno scatto repentino, le strappo il cappello dalla testa. Sbarro gli occhi di fronte allo spettacolo che mi si para davanti: è un manichino. Ha gli occhi dipinti fissi di fronte a sé, verso il vuoto. Mi guardo intorno. Mio Dio, sono tutti manichini. Tutti. Resto immobile per qualche attimo, il tempo necessario per realizzare. Poi, urlo.
  
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