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Autore: Tittili    10/02/2013    1 recensioni
Cosa vuol dire scoprire l'America per ognuno di noi? cambiamenti...novità...e cosa significa invece per la protagonista del mio racconto?...ditemelo voi
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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12 ottobre 2042
Oggi.
Sono passati 550 anni da quando Cristoforo Colombo scoprì, grazie ad un colpo di fortuna, un nuovo continente che avrebbe cambiato definitivamente il corso della storia.
Sono nata in una piccola cittadina quasi dimenticata dal resto del mondo.
A differenza di tanti, o forse di tutti,  ricordo perfettamente  quel momento.
Un buio profondo con suoni strani e violenti, e d’un tratto una luce accecante: l’unica emozione vera di una vita monotona e piatta.
Non che avessi particolari esigenze o prospettive, ma dentro di me sentivo la presenza di un destino diverso che si sarebbe prima o poi rivelato.
Guardavo gli altri, e nonostante fossimo in fondo tutti uguali, mi sentivo diversa: ero una sfera in un mondo di cubi.
Non sbagliata, intendiamoci.
Sono sempre stata profondamente convinta che diverso volesse dire qualcosa di più di emarginato o inadatto, ma purtroppo la nostra società funziona in modo troppo conformista.
Anche con le parole.
O sei come tutti gli altri o non vai assolutamente bene.
Sei da scartare.
Certo, esistono le eccezioni, ma proprio perché troppo particolari e uniche, vengono forzatamente tollerate dalla massa troppo imbalsamata nei propri stereotipi.
Tutta la mia vita è stato un programma prestabilito, ogni movimento, ogni pensiero, ogni progetto.
Questo sempre seguendo i dettami della buona creanza e le aspettative di tutti coloro che mi stavano intorno.
Loro decidevano e io facevo.
Ad un certo punto della mia esistenza mi ero ormai rassegnata ad una morte, naturalmente programmata, nella mia città natale. Seguendo tutti i protocolli.
Ma un giorno, uguale a tutti gli altri, successe invece qualcosa di diverso.
Qualcosa di eccezionale.
Il mio capo reparto decise di trasferirmi.
Cosa abbastanza normale direte voi.
No vi dico io.
Sarei stata trasferita in una grande, enorme, smisurata città.
Riuscii a mascherare la mia sorpresa rimanendo impassibile, ma la domanda che più mi tormentava era: perché proprio io?
C’era una possibilità su un milione che scegliessero proprio me.
Cosa avevo di particolare per meritare questa grande opportunità?
La domanda è ancora oggi senza risposta, molto probabilmente perché una risposta non esiste.
E’ stato solo frutto del caso, della fortuna o della sfortuna, visto gli esiti di questo evento epocale.
L’unica cosa che scoprii fu che ero stata scelta da un grande imprenditore della capitale.
Cosa lusinghiera direte voi.
Dipende, rispondo io.
Ebbi la notizia un lunedì mattina qualunque e partii praticamente la sera stessa, senza neanche il tempo di salutare o riuscire a elaborare meglio la situazione.
Il viaggio durò tutta la notte e il buio mi impedì qualsiasi visione del paesaggio che stavo attraversando.
Avrei voluto tanto ricordare qualche cosa una volta arrivata a destinazione, ma come sempre la mia vita conservava solo ricordi a breve termine.
Non trovavo necessario trattenere in memoria cose che ormai avevo già fatto, o vissuto,  e che comunque non potevo certo modificare.
Non ho mai capito questa necessità di valutare, analizzare, riguardare il passato, affrontarlo.
Impossibile cambiarlo. E allora perché annebbiare il futuro pensando a ciò che è stato?
All’arrivo a destinazione alcuni collaboratori del mio nuovo capo mi accompagnarono in azienda.
Iniziai a lavorare la mattina dopo, di buon ora, in compagnia di altri colleghi che svolgevano attività completamente diverse dalle mie.
Ero finalmente in un ambiente stimolante e completamente diverso da quello da cui provenivo, dove tutti facevamo, per ore, la stessa cosa.
Il mio campo di azione prevedeva la gestione applicata del ramo della disinfezione.
Consideravo il mio apporto estremamente utile anche in un ottica di tutela della salute pubblica.
Mi resi conto, però, che esistevano altre specializzazioni ugualmente importanti.
Uno dei miei colleghi, ad esempio, si occupava della gestione della refrigerazione alimentare.
Non avevo mai pensato a quanto fosse indispensabile per la sopravvivenza la buona conservazione dei cibi.
Scoprii attività a me sconosciute e mi resi subito conto che eravamo, tutti, parte di un progetto molto più ampio.
Una specie di orchestra armoniosa che, se diretta con sapienza e lungimiranza, avrebbe prodotto musica di gran pregio.
Ma chi era il nostro maestro, il nostro direttore, la nostra guida?
Lo conobbi poco tempo dopo l’inizio della nuova attività.
Era uno strano individuo.
Piuttosto alto e corpulento, con dei capelli neri lucidi e  ribelli.
La cosa che più mi colpì di lui, però, furono i suoi occhi di ghiaccio.
Ogni giorno ci offriva le direttive su come avremmo dovuto svolgere i nostri compiti, ma non parlava quasi mai.
O meglio:  non parlava mai con me e i miei colleghi.
Aveva dei sottoposti a cui delegava i vari compiti e i piani di lavoro. ma non entrava mai in contatto con la così detta “bassa manovalanza”.
Percepivamo però che apprezzava molto la nostra professionalità e dedizione al lavoro.
Un giorno successe qualcosa di terribile.
Un incidente spaventoso in cui un collega perse la vita.
Non riuscivo a crederci; un attimo era lì e subito dopo non c’era più.
Eravamo tutti sconvolti: quando il nostro direttore venne a sapere della tragedia ebbe una reazione violenta.
“Come può essere accaduto” gridò ai suoi collaboratori
“Vi rendete conto di cosa significa? Come farò a spiegarlo?”
In quel momento capimmo che in qualche modo teneva a noi tutti, anche se non aveva mai dato alcun segnale evidente in questo senso.
Era sicuramente una persona schiva e riservata, ma non per questo meno sensibile e affezionata.
Dopo quell’ episodio lavorammo ancora più motivati e disponibili.
Sono ormai passati anni. Tanti anni.
Ma eccoci alla giornata di oggi.
Cos’ha di particolare?
Domanda lecita, dopo un’introduzione così lunga e noiosa.
E’ molto semplice. Oggi verrà eseguita una sentenza di morte.
E la condannata sono io.
Motivi della sentenza: vecchiaia.
Semplice. Ho superato i limiti imposti dalla legge.
Una legge entrata in vigore ancor prima della mia nascita, ma di cui ero completamente all’oscuro.
Immaginerete la mia sorpresa quando stamane mi è stata espressa la notizia.
Sto bene, lavoro al massimo come il mio primo giorno, non ho mai creato danni irreparabili, e non sono di peso a nessuno.
Ma non ci sono eccezioni.
I colleghi mi guardano con sguardo dimesso e rassegnato.
In fondo, sanno che tra poco toccherà anche a loro.
La cosa che più mi ha ferito, però, è stato il completo disinteresse del nostro direttore.
Quando l’evento gli è stato reso noto non si è minimamente preoccupato; anzi, con fare stizzito ha esclamato:
“Dovevate avvisarmi con qualche giorno di anticipo. Devo pur trovare una sostituta!”
Non un pensiero rivolto a me.
In fondo ero io quella che sarebbe stata uccisa.
Il mio primo pensiero è stato: toccherà anche a te.
E nessuno sentirà la tua mancanza.
Ma di me? Qualcuno sentirà la mancanza? In fondo in tanti anni non ho mai ricevuto alcuna notizia dalla mia piccola cittadina.
Ecco che d’un tratto, nuovamente, mi sento inutile e irrilevante.
Sono nata, sono vissuta e morirò tra poco senza aver mai lasciato niente di rilevante, senza tracce della mia esistenza.
Il nulla.
Osservo senza fare una piega i miei carnefici che, incuranti di tutto quello  che li circonda, raggiungono la mia postazione e mi portano via.
Nessuno alza un dito per fermarli, nessuno dice una parola, nessuno neanche mi saluta per l’ultima volta.
Tutti continuano incessantemente a lavorare.
E mentre mi sposto silenziosa ripenso al mio collega morto sul lavoro tanti anni fa.
Lo invidio.
Almeno quella tragedia aveva scosso gli animi di tutti.
Ancora oggi io lo ricordo. Ma di me, probabilmente, non si ricorderà nessuno.
Mi sistemano in un piccolo furgone adibito a questo tipo di attività e con mia sorpresa mi ritrovo in compagnia di altri condannati.
Tutti troppo vecchi per le regole rigide di questa società che vuole solo giovinezza, modernità, efficienza e progresso.
Ma cos’è il progresso senza memoria?
Una corsa verso il nulla e senza senso perché priva di un percorso.
D’un tratto i miei pensieri sull’inutilità del passato mi risultano stupidi.
Ciò che siamo e che facciamo diventa inevitabilmente il passato di qualcuno e la base del suo futuro.
Ci guardiamo tra noi trovando la stessa paura nello sguardo del vicino.
Farà male morire? C’è qualcosa dopo?
Il viaggio verso la struttura destinata all’esecuzione delle condanne è piuttosto breve, o forse, come tutte le cose che non vuoi affrontare, è sembrato soltanto più veloce.
Ci fanno scendere uno ad uno con precisione maniacale e veniamo stranamente smistati.
Penso: se dobbiamo morire perché ancora questa voglia di classificare tutto anche per l’estremo atto.
Tutto si svolge con velocità estrema.
Vengo spinta sopra ad un nastro trasportatore che mi trascina velocemente all’interno di una stanza buia e fredda.
Ho paura, tanta paura.
Sento in lontananza degli stridori violenti che sembrano urla di dolore.
Sto tremando.
Ad un tratto sento il calore delle mani di due addetti che mi trascinano fuori dalla via obbligata.
“Ma ti rendi conto. Questa legge è veramente crudele e rivoltante” esclama irritato il più grande dei due
“Non saprei. In fondo così si garantisce un ricambio, una certezza di efficienza” replica l’altro quasi rassegnato
“Io non sono d’accordo. Guarda questa.”dice indicandomi “Ti pare veramente che sia giunta la sua ora?” osserva con enfasi.
“In effetti”risponde dubbioso il suo compagno.
“Sai cosa faccio? Adesso la porto a casa mia, tanto chi vuoi che se ne accorga, in fondo la faccio sparire in modo diverso” sussurra, trascinandomi fuori dall’edificio lasciando esterrefatto il compagno di lavoro.
Mi carica di peso su una piccola auto e andando piano per non dare nell’occhio percorre strade e campi per almeno una mezz’ora.
“Tranquilla, sei in buone mani, potrai lavorare finchè ce la fai, fino alla fine naturale dei tuoi giorni”mi sussurra con voce dolce.
Sono completamente stordita.
Ero ormai pronta alla fine e invece eccomi in una specie di fattoria dove al mio arrivo vengo circondata da una famiglia numerosa che mi osserva.
“Papà! Ma dove l’hai trovata?” chiede uno dei bambini più piccoli.
“Non l’ho trovata, l’ho salvata da una morte certa e adesso starà con noi per sempre”esclama l’uomo entusiasta.
Tutti cominciano a saltare di gioia e per la prima volta nella mia vita mi sento veramente viva e felice.
Mi trascinano in una grande cucina dal sapore antico e senza pensarci un attimo, in pochi minuti, mi metto subito al lavoro.
I bambini gioiosi si siedono intorno a me guardandomi rapiti, mentre il mio salvatore abbraccia la moglie, che, sorridendo, dopo averlo baciato con dolcezza gli sussurra:
Ho sempre sognato di avere una lavatrice così bella!”
Oggi, 12 ottobre 2042, nell’anniversario della scoperta dell’America, ho finalmente trovato il mio nuovo mondo, la mia America, la mia nuova famiglia.
Ho accettato il mio passato, e quindi ho trovato il mio futuro.
  
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