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Autore: Nikki Cvetik    11/02/2013    5 recensioni
"-Lei come ci riesce?
-A fare cosa?
-Ad essere così luminosa." Da Il secondo dei tre Spiriti.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon | Coppie: Jane/Lisbon
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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A/N: Tremate tremate, le Undercover sono tornate! Ebbenesì, dopo quasi 6 mesi di assenza, io e la mia dolcissima Lettie abbiamo deciso di tornare a postare. In primis (citando un mio vecchio compagno di classe), mi scuso per l'oltreggiosa assenza, ma se pensavo che dopo le superiori avrei avuto più tempo per scrivere, be', mi sbagliavo di grosso. Con l'Uni non ho quasi tempo di fare un pasto decente. Ma, come si suol dire, "fa parte del gioco" ed è un gioco abbastanza diffuso, a quanto pare. Non posso assolutamente lamentarmi. Questa storia è (era, magari) stata scritta per essere postata durante il periodo natalizio. Purtroppo, i doveri da brava universitaria in trasferta casalinga, per me come per la Lettie, hanno creato un sacco di problemi. Perciò ho finito di scrivere l'ultimo capitolo alla Befana e, a causa degli esami della sessione di febbraio, siamo un po' indietro con la revisione. Mi solleva il fatto che almeno i capitoli siano completi. Perciò, comincerò a postare quelli già revisionati e corretti. Ovviamente troverete degli errori perchè, soprattutto in storie così lunghe, è facile farsi prendere dalla propria idea, dalla vocina nel cervello che ti detta la storia e, magari, leggere fresche per frasche (non so se si dice così in tutta Italia, ma da noi è un detto che rende bene). Perciò, come al solito, siate clementi e pretetevela con noi (e con me, soprattutto) e non con la storia. Molti di voi storceranno il naso leggendo il solito "Christmas Carol". Verità è che ho dovuto leggere il vero "Christmas Carol" e ne sono rimasta completamente affascinata. E' estremamente più crudo e tagliente di quelle che potessi credere e la cosa mi ha stupito moltissimo. Perciò ho deciso di ambientare la storia del buon Charles al CBI. Non aspettatevi fluff e roba del genere prima dell'ultimo capitolo. Anzi, a detta della Lettie, ho fin troppo bistrattato Jane e (parole sue) "non gliene ho risparmiata neanche una". E' vero, forse ho girato più e più volte il coltello in piaghe ben conosciute, ma, come ben si sa, l'unico modo attraverso cui una ferita può guarire totalmente è dopo averla pulita fino in fondo. Troverete molte citazioni originali. Alcune però, sono cambiate, o non hanno le precise parole del libro, in modo da poterle unire meglio al resto della storia. Qualcuno potrebbe avere di che ridire per la scelta degli "Spiriti". Ma tutto a un senso e, alla fine, comprenderete come mai abbia scelto chi per per fare chi. Detto ciò, pochi altri avvisi. Come al solito, ogni capitolo è preceduto dalla citazione di una canzone. Non impegnatevici troppo, stavolta, fanno tutte parte dell'album "Battle Born" dei The Killers. Sono prese, però, per testo e non per atmosfera, quindi potrete trovare anche canzoni "allegre" in contesti che...be'...lo sono un po' meno. Ciò nonostante, ho voluto tenere duro su questa linea. I The Killers sono un gruppo spettacolare (che spero a giugno di poter andare a sentire a Roma) e, cosa più importante, nella mia mente sono strettamente legati a questa serie. Loro sono in grado di fare qualcosa di spettacolare. Ti portano tra i caldi e soffocanti deserti della California, tra le case di lamiere e le luci scintillanti di Las Vegas. Senti il calore del sole Californiano sulla pelle, quando ascolti le loro canzoni. Riescono a trasmettere la rassegnazione di quelle persone cresciute troppo in fretta, l'insicurezza e il timore del vagabondaggio, la gioia di quelle utopie che non potranno mai realizzarsi, e l'infinita sconfitta di quel Sogno Americano infranto. Ed è proprio questo il paesaggio che fa da sfondo a The Mentalist. Brandon e Bruno raccontano delle stesse storie, negli stessi luoghi. E questo è un dono, è un bellissimo regalo di cui non smetterò mai di stupirmi. Infine, dopo questa A/N che, come al solito, ha raggiunto il limite del sopportabile, vi faccio un invito. Alcune ragazze, su facebook, hanno deciso di creare un gruppo su TM "We Read Between The Lies". Siamo ancora molto pochine, e avremmo il grande desiderio di sapere anche i pensieri delle altre persone che seguono questa serie. Un avviso: siamo tutte un po' svalvolate, ma accettiamo compagni d'avventira di qualsiasi tipo. Perciò, se avete tempo libero e volte darci una mano, cliccate quassù -> https://www.facebook.com/groups/261118154010718/ e venite a farci un salutino, ok? :) Detto ciò, vi lascio alla nostra povera storiella. Mi raccomando, cliccate su "recensire". Anche solo poche parole possono fare felicissime me e Lettie.

Un grande bacio a tutti voi.

T.U.W.

 


-A Bloodless Christmas Carol-

 

STROFA PRIMA

 
 

Lo spettro di Johnson

Your soul was innocent.
You kissed him and she painted it black.
You should have seen your little face.
Burning for love, holding on for your life.

Miss Atomic Bomb – The Killers

 

Johnson era morto, tanto per cominciare, e su questo non c’è alcun dubbio. Il registro della sua sepoltura era stato firmato dal sacerdote, dal chierico, dall'impresario delle pompe funebri e da colui che conduceva il funerale. Jane lo aveva firmato, e nel mondo dei circensi il nome di Jane era buono per qualsiasi cosa che decidesse di firmare. Il vecchio Johnson era morto come il chiodo di una porta.
La notizia era arrivata durante un noioso pomeriggio di scartoffie. Jane era come di suo solito steso sul divano del bullpen, mentre il resto della squadra stava cercando di rimettersi in pari con i rapporti prima del giorno del Ringraziamento. Jane aveva preso alcuni giorni per viaggiare fino al Connecticut e assistere al funerale del vecchio amico. Appena il corpo era stato coperto da tre metri di terra, il mentalista aveva girato i tacchi ed era tornato alla sua Citroen turchese.
Nessuno aveva più pensato al vecchio Johnson nei giorni e nelle settimane successive.
Il piovoso novembre aveva lasciato spazio al freddo dicembre. Ma né il vento freddo né la pioggia potevano fermare Jane dal passare la maggior parte dei suo giorni nell’attico, girando e rigirando le consunte pagine del suo quadernino nero. Da qualche tempo, tutti i nomi scritti su quelle righe avevano cominciato a confondersi. Quella lista di persone, ridotte a poche funzionali parole, si stava dimostrando la più inutile tra le piste avute tra le sue mani. La consapevolezza dell’imminente nuovo fallimento, cominciava ad irradiarsi dentro la sua persona; l’idea di aver fatto un incredibile errore a lasciar libera Lorelai, un mostro sempre più vivo.
Nel mentre, il freddo della stagione sembrava contagiare anche i suoi rapporti con la squadra. I suoi interventi durante i casi si erano fatti sempre meno frequenti. Tutti percepivano l’avvento del nuovo disastro all’interno del quale Jane li avrebbe presto trascinati. Ma soltanto Lisbon stava cominciando a comprendere che questo sarebbe stato l’ultimo. O, in caso contrario, uno degli ultimi.
Nel suo seno serbava un segreto, tale solo perché troppo evidente e pauroso da prendere in considerazione. Prima o poi sarebbero arrivati tardi per mettere a posto le cose. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta; e tutti sapevano chi sarebbe stato il primo a cadere.
Lisbon ogni tanto alzava gli occhi alla scala di fronte all’ascensore. Sperava di sbagliarsi. Di sentire dei passi veloci scendere da quelle scale. Ma l’unico rumore percepito dalle sue orecchie, era la voce di Cho che la stava informando sull’ultimo interrogatorio. Così abbassava gli occhi e tornava alla sua vita, al suo lavoro, consapevole di non poter fare nulla per cambiare le cose. Non più, ormai.
Due piani più sopra, Jane non stava neanche cercando di ripararsi dal freddo clima dell’attico. L’umido della stanza, lontano dall’abbraccio del chiassoso bullpen, gli entrava impietosamente nelle ossa. E un freddo ben più profondo della sola carne lo faceva scuotere nel profondo. Nessun calore poteva riscaldarlo e nessuna brezza invernale raffreddarlo. Il freddo che aveva dentro congelava i suoi vecchi lineamenti, gli pungeva il naso aguzzo, gli corrugava le guance, irrigidiva la sua andatura; gli faceva diventar rossi gli occhi e violacee le labbra sottili e si esprimeva tagliente nella sua voce gutturale. La pioggia più fitta, la neve, la grandine e il nevischio potevano vantare una sola superiorità nei suoi confronti, e cioè che spesso venivano giù non senza bellezza. Lui mai.

________________________________________________‡_______________________________________________

-Pensi che Sarah ti farà tenere Ben quest’anno a Natale?
-Abbiamo trovato un accordo. Natale da me, Pasqua da lei. Non posso certo lamentarmi, anche se mi avrebbe fatto piacere raccogliere le uova con lui.
Disse l’agente facendo rimbalzare una pallina da tennis sulla scrivania di fronte.
-Avanti, vorrà dire che scarterai i regali con lui. E’ comunque un momento speciale per lui. E per te.
-Ora che mi ci fai pensare…in effetti sono piuttosto contento che passi le feste natalizie con me. In fondo Pasqua è un giorno solo. Sopravvivrò. Soprattutto pensando alla mega mini-moto che ho incartata in garage!
-Ma ha appena tre anni, è troppo piccolo per una mini-moto.
-Aspetta di vederlo correre giù per il viale. A proposito, ti andrebbe di passare le feste con me e Ben?
Il caffè andò quasi di traverso alla rossa del gruppo, finendo spruzzato sui rapporti delle intercettazioni che aveva davanti.
-Io…oh, mio Dio…Wayne mi dispiace, ma ho già organizzato un viaggio dai miei parenti. Mi piacerebbe tanto stare con te e Ben ma…davvero sono…
Rigsby non poté nascondere il suo disappunto, ma comprendeva la risposta della collega. Certo, non poteva chiedere a Grace di cambiare i suoi piani per le vacanze la vigilia di Natele.
-Non preoccuparti. Io e il mio campione ci divertiremo lo stesso.
Rispose a malincuore, con un sorriso leggermente tirato.
-Sicuramente con il mio regalo.
-Il tuo regalo?
Grace continuò a battere sulla tastiera del computer, fingendo indifferenza. Anche lei aveva in serbo qualcosa di speciale per il piccolo Rigsby.
-Non dirò niente prima di stasera.
-Cosa?!
-E’ la mia sorpresa per Ben. E per te, ovviamente. Non vorrai mica fare il solito guastafeste?
-Potreste smetterla, voi due, di cinguettare come vecchie cornacchie?
La voce di Jane riempì la stanza, portando con sé una ventata polare. Subito i due agenti tornarono ai propri compiti con i volti più scuri di prima e l’umore decisamente più teso. Jane non parve importarsene della cosa. Semplicemente prese il libro che stava cercando e si voltò di nuovo verso le scale che conducevano all’attico.
Lungo il corridoio, la sua strada si incrociò con quella di Lisbon, appena tornata dall’arresto dell’ennesimo caso risolto senza il suo aiuto. Ma l’uomo non alzò neanche lo sguardo, né rallentò. Continuando a camminare come se fosse l’unica persona nella stanza, l’unica persona nell’intero mondo.
Lisbon, però, non poté non fermarsi un attimo e voltarsi verso Jane, o quello che restava del vecchio Jane. La vista le faceva tremare il cuore. Gli occhi bassi e stanchi, rossi per la troppa lettura e neri per il poco riposo. Un tempo era stata in grado di aiutarlo, di alleviare almeno per qualche tempo il suo dolore. Ora aveva anche smesso di provarci. Per la prima volta nella sua vita, Lisbon aveva gettato la spugna.
-Le cose non miglioreranno. Lo sai, vero?
La voce di Cho parve risvegliarla da quel momento di torpore. Negli ultimi mesi, era stato lui il suo confidente, l’unica persona con cui riuscisse a scambiare più di poche parole. Certo, non poteva biasimare Grace e Rigsby per il loro riavvicinamento, ma nulla poteva fermare il pensiero che ormai la SCU stesse morendo.
La squadra, ormai, era sull’orlo della rottura definitiva. Forse la colpa non era stata solamente di Jane, ma di certo il suo comportamento aveva dato il colpo di grazia. L’unico sollievo per Lisbon, era che gli altri membri del suo team sarebbero stati bene, nonostante tutto. Grave aveva Rigsby. Cho la nuova squadra di Risposta Rapida. Tutto sarebbe andato per il meglio. Sarebbero stati meglio.
Ma lei? No, non c’era nulla per lei ad aspettarla fuori. Lei era il capo. Suo era il fallimento. La SCU sarebbe affondata, presto. E lei l’avrebbe seguita.
-Credo che anche tu abbia capito come stanno le cose.
-L’ho sempre saputo, a dirla tutta. Solo…avevo fiducia di sbagliarmi.
-Tu sei troppo intelligente per sbagliarti su cose simili, Cho.
-Lo so. E vorrei che non fosse così.
Entrambi guardarono in direzione del bullpen, dove un’atmosfera pacata era tornata dopo l’attacco del mentalista.
-Avrei tanto voluto che questa squadra fosse passata a te, un giorno. Te lo saresti meritato.
-Forse. Ma se qualcuno dovesse prendersi il merito di qualcosa, questa sei tu, capo.
-Ho smesso il giorno in cui ho deciso di assumere Jane come consulente.
-Sai che non è così. Jane ha fatto bene il suo lavoro e tu hai fatto di tutto per permetterglielo.
-Eppure non sono stata abbastanza brava da impedirgli di distruggerci.
-Nessuno avrebbe potuto.
Lisbon sentì le ultime parole del coreano scavarle un buco nel petto. Forse aveva ragione. Forse era sempre stata una battaglia persa. Ma questo pensiero non le dava alcun conforto.
-Portami le trascrizioni dell’interrogatorio e i moduli per l’arresto. Mi troverai nel mio ufficio.
-Ok, boss.
Lisbon andò a rifugiarsi nel suo ufficio, mentre Cho si dirigeva di nuovo verso le scale. Crollò sulla sedia, senza neanche preoccuparsi di buttare la borsa sul tavolo. Con le mani sul volto, si permise di piangere le lacrime che aveva nascosto davanti al suo sottoposto.
-Perché stai facendo tutto questo, Jane? Perché?
Chiuse gli occhi, asciugando via le lacrime con la punta delle dita per rendersi presentabile davanti a Cho. Forse davvero non le era rimasto ancora molto. Ma la sua dignità non era ancora appannaggio di Jane, e non lo sarebbe stata fin quando avrebbe ancora avuto forza di tenersela stretta.
Prese una delle penne davanti a sé e il primo foglio dalla lunga pila di rapporti da firmare e, meccanicamente, così come tutti i giorni, si concentrò per portare a termine l’unica cosa che nella sua vita avesse ancora importanza. Il suo lavoro.

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Jane guardava fuori dalla finestra con una tazza in mano, in uno dei pochi momenti di riposo che usava concedersi. Prese un sorso della bevanda ambrata dalla tazza e continuò ad osservare la strada sotto di lui. Un uomo vestito con un pesante cappotto aveva tra le mani due pesanti buste piene di regali. Era in compagnia di un altro uomo –un amico, un compagno, forse- e stava cercando di far entrare tutte quelle buste in un SUV nero.
Tutta l’allegria di quell’immagine, però non riusciva a contagiare l’uomo alla finestra. Era solo uno spettacolo. Un palcoscenico lontano e a lui, seduto sugli spalti, non era permesso interferire.
Un tempo anche lui si trovava su quello stesso palcoscenico. Assieme a una donna adorabile ed un piccolo gomitolo di gioia. Ma si era avvicinato troppo all’orlo della scena e qualcuno da sotto l’aveva trascinato giù. Lui era sopravvissuto, i due angeli che si era tirato dietro no. E proprio per questo non poteva risalire su quel palco. Qualsiasi cosa fosse accaduta. Doveva restare a vegliare sui morti, scovare tra le ombre dei sedili colui che aveva causato tutto questo e, soprattutto, evitare che qualcuno cadesse nuovamente con lui.
Per questo non c’erano pensieri natalizi nel suo cuore. Non gioia o felicità. O la più flebile traccia di compassione. Solo una nebbia cupa e scura, che sembrava infittirsi anno dopo anno, Natale dopo Natale.
Questo rappresentava ogni Natale per lui. Un’altra sconfitta. Un altro anno durante il quale non era riuscito a prendere Red John. Come poteva gioire di quelle luci, quando per lui non rappresentavano altro che un nuovo fallimento?
-Non restare sulla porta, Lisbon. Entra. Qui non c’è nessuno che possa farti del male.
Il sussulto proveniente da dietro la porta di metallo era la conferma che il suo messaggio era arrivato al destinatario. Dei passi leggeri ma sicuri si avvicinarono al suo corpo immobile. Non voleva voltarsi e assistere al suo solito, pietoso tentativo di staccarlo da quella stanza.
-Abbiamo un caso. Nulla di importante, sicuramente finiremo prima delle sette di stasera. Vuoi raggiungerci?
Ecco, cosa intendeva. Sentiva già quella colpa dentro di sé. Ed era sufficiente. Non voleva guardarla negli occhi. Non voleva vedere.
-Mi dispiace, Lisbon. Ho da fare…
-Come lo scorso caso. E quello prima. Pensavo che almeno oggi…almeno la vigilia di Natale…
-Cosa speravi? Che sarei andato in ferie come tutti voi? Che avrei smesso la mia ricerca, oggi? Si dia il caso, Lisbon, che io non possa semplicemente smettere di lavorare per un giorno e continuare come se nulla fosse.
-…volevo soltanto questo caso…poche ore…come regalo di Natale…
-L’ultima volta che ho controllato, Lisbon, tu avevi 38 anni. Non sei più una bambina, dovresti aver imparato che Babbo Natale è solo una favola.
A un tratto, sentì gli occhi di Lisbon bruciargli la schiena. Certo, era stato un commento brutale, fatto a posta per ferirla. Ma sembrava che quella frase avesse avuto sulla donna una risposta ben più acuta di quanto pensasse.
Poco male. Forse questo l’avrebbe convinta ad andare via.
-Perciò ti consiglio di chiudere il caso da sola e goderti le festività natalizie. Ti faccio i miei auguri di spendere un buon Natale con le persone che ami, Lisbon. E non preoccuparti, mi troverai qui quando tornerai.
Io non ho nessun’altro posto dove andare sembrava dover continuare la sua affermazione. Ma si fermò prima di sfiorare il patetico.
-Pensavo che per te il Natale valesse ancora qualcosa. Che, nel tuo cuore, avessi ancora almeno un minimo di rispetto. Ma non pensare che per tutti valga la stessa cosa. Il Natale è l'unico periodo che io conosca, in tutto il lungo calendario di un anno, nel quale uomini e donne sembrano concordi nello schiudere liberamente i cuori serrati e nel pensare alla gente che è vicina a loro come se si trattasse realmente di compagni nel viaggio verso la tomba, e non di un'altra razza di creature in viaggio verso altre mete. Per questo ero venuta qui. Volevo invitarti da me, domani, per non spendere un giorno così da solo. Ma, a quanto pare, la mia richiesta era troppo grande. O io troppo stupida nel pensare che tu potessi accettare.
-Buon Natale, Lisbon. E felice anno nuovo.
Rispose, freddamente. Ogni parola, invece di essere un augurio felice, era una coltellata al cuore già ferito di Lisbon.
Senza una parola, i passi della donna si diressero di nuovo verso la porta. Ma prima di lasciare la stanza, l’agente si fermò, fissando l’uomo fermo davanti alla finestra.
-Perché mi hai mentito, prima?
-Quando?
-Quando sono entrata. Mi hai detto di entrare. Che non c’era nessuno che mi avrebbe fatto del male. Mi hai mentito. Non sai fare altro. Menti a me, alla squadra, a Bertram, a te stesso, alla tua famiglia. Passa un buon Natale, Jane. Te lo auguro con tutto cuore.
Jane stava per voltarsi e rincarare la dose nei confronti di Lisbon, ma il forte clangore alle sue spalle gli fece capire di essere di nuovo solo nella stanza. Ma la solitudine non lo stava facendo sentir bene come prima. Anzi, il freddo che regnava nella stanza sembrava ancor più forte, dato che l’unica fonte di calore se n’era andata.
Continuò a bere the ed osservare la strada sotto di lui fino a sera, quando le ombre della notte più magica dell’anno sembravano spietatamente maledirlo da dietro i vetri sporchi. 

________________________________________________‡_______________________________________________

Era quasi mezzanotte, quando Jane sembrò decidersi che il liquido nella teiera nell’attico era decisamente troppo freddo per essere bevuto.
Il bullpen, a quell’ora della notte, era decisamente deserto. Tutte le luci sulle scrivanie erano spente, i fascicoli scomparsi, le penne al loro posto. Ma stanotte, più di tuti gli altri giorni, la desolazione di quel luogo sembrava più cupa. Forse perché ogni persona avrebbe avuto qualcuno da cui tornare quella sera. Tranne lui. Avrebbe festeggiato accanto a un grande albero. Tranne lui. Avrebbe aperto i regali –belli o brutti- e avrebbe riso con i propri cari. Tranne lui.
Riempì di nuovo la teiera e la mise sul fuoco. Il rumore dell’acqua bollente era quasi assordante in quel silenzio così denso. Immerse un paio di bustine dentro il liquido caldo e riprese la strada verso l’attico.
La sua mano si era poggiata sul freddo ferro della porta, pronta ad aprirla quando, vicino alle sue dita, gli parve di scorgere un volto nelle linee del metallo. Il volto sembrava appartenere proprio a Leroi Johnson, quello strozzino del cassiere del circo in cui lavorava col padre. La sua faccia, stravolta dalle rughe e quello che sembrava essere un dolore sconvolgente, parve quasi stagliarsi al suo fianco, costringendolo a ritrarre la mano e stringerla vicino al fianco.
Un secondo dopo, la faccia era scomparsa. Jane si passò una mano sugli occhi stanchi, attribuendo l’origine dell’allucinazione alle troppe ore passate su quel libretto.
-Stronzate. Adesso comincio persino a vedere in giro la faccia del Monco!
E si sedette su una vecchia poltrona che aveva portato qualche mese fa nella stanza. Per qualche minuto ricominciò a leggere il taccuino, quando gli occhi gli caddero casualmente su un campanello,  un campanello fuori uso, che pendeva nella stanza e comunicava, per una qualche ragione ormai dimenticata, con una stanza nel piano più basso del fabbricato. Fu con grande meraviglia e con uno strano e inesplicabile terrore che, nel guardare, si accorse che il campanello cominciava a dondolare. Dondolava così dolcemente, da principio, da non produrre alcun suono; ma ben presto cominciò a suonare forte e così fecero tutti gli altri campanelli dell’edificio.
Questo durò forse mezzo minuto o un minuto, ma parve che durasse un'ora. I campanelli cessarono tutti insieme, come avevano incominciato, e ad essi tenne dietro un rumore metallico, che veniva dalla profondità dei piani inferiori, come se qualcuno stesse trascinando una catena pesante sulle alzate metalliche dei mobili dell’archivio. Allora Jane si ricordò di aver sentito dire che gli spettri nelle case stregate si trascinano dietro i mobili. La porta dell’archivio si spalancò con un colpo fortissimo, e allora udì il rumore ai piani inferiori farsi molto più forte, poi su per le scale, poi venire direttamente verso la sua porta.
-Sono tutte fesserie!- disse Jane. -Non ci voglio credere.
Però cambiò colore allorché, senza una pausa, qualcosa attraversò la porta pesante ed entrò nella stanza davanti ai suoi occhi.
Strinse tra le dita il tessuto damascato della sedia quando si accorse della presenza che aveva di fronte. Lo spettro di Leroi Johnson, in tutta la sua terrificante maestà se ne stava al centro della stanza, ripiegato su se stesso a fissarlo. Una lunga e pesante catena gli cingeva la vita e dei pesanti pesi di ferro stava lasciando delle profonde spaccature nel legno ad ogni suo passo.
Jane si strinse in un angolo della sedia, raccapricciato da quella visione. Per una vita intera aveva aberrato l’idea dell’esistenza di fantasmi, spettri e qualsiasi altra cosa correlata al genere. Ed ora una nuvola verdognola dall’aspetto del compianto Leroi Johnson lo stava trapassando con occhi di ghiaccio.
-Cosa vuoi da me?
Chiese Jane con la voce spezzata dalla paura.
-Molto.
Rispose la piatta voce dello spettro.
-Chi sei?
-Chiedimi piuttosto chi ero.
-Chi eri, dunque?
Disse Jane, alzando la voce.
-Da vivo, tenevo i conti del circo dove lavoravi e la gente pagava a me i biglietti per entrare.
Ma Jane non sembrava affatto soddisfatto da quelle risposte. Continuava a guardare quell’ombra corrugando le ciglia e sbattendo gli occhi, come se, aprendoli, quell’apparizione potesse svanire nell’aria.
-Tu non credi che io esista
Disse lo Spettro.
-No
Rispose Jane.
-Quali prove vorresti avere della mia realtà, oltre a quella dei tuoi sensi?
-Non so
Disse Jane.
-Perché dubiti dei tuoi sensi?
-Perché per influenzarli basta una piccolezza. Sono stato sveglio per giorni, senza un attimo di riposo. Potresti essere un’allucinazione, un inganno della mia mente. Potrei già stare sognando. Ecco, ne sono sicuro, questo non è altro che un sogno. Un sogno davvero ben fatto nel quale sono caduto senza accorgermene!
A queste parole, lo Spirito emise un grido terribile e scosse la catena con un rumore talmente lugubre e spaventoso che Jane si afferrò con tutte le forze alla sedia per evitare di cadere svenuto. Ma quando lo Spettro si strappò la camicia dal petto, mostrando la carne del suo ventre martoriata dai colpi di un fucile e ancora grondanti di sangue, Jane non riuscì più a trattenere la sua reazione. Cadde in ginocchio, coprendosi il volto con le mani.
-Misericordia!- Disse.
-Spaventosa apparizione, perché mi tormenti?
L’uomo parve tornare padrone della sua essenza –di corpo, certo, non si poteva parlare.
-Ti vedevo tutti i giorni, Patrick Jane, scorrazzare per il circo assieme a tuo padre. Era un’altra epoca, un altro tempo. Sono cambiate tante cose da allora. E questa notte, io sono qui per renderti consapevole di quelle più importanti. Quelle che riguardano la persona che eri, che sei e che diverrai.
-Perché tu? Per quale motivo sei qui? Perché me?
A quel punto lo Spettro gli buttò addosso le proprie catene e i propri pesi. Jane fece per scansarsi, sapendo che un simile peso gli avrebbe rotto le ossa. Ma le nuvole verdi gli si fermarono sul grembo, senza peso.
-Porto la catena che ho forgiato in vita. Sono io che l'ho fatta, un anello dopo l'altro, un braccio dopo l'altro; sono io che me la sono cinta di spontanea volontà e di spontanea volontà l'ho portata. Quand’io ero vivo, Patrick Jane, sentivo questi pesi esattamente come li senti tu adesso. Essi non avevano alcuna consistenza. Non avevano importanza, come credevo non avessero importanza le azioni che me li hanno caricati addosso. Ma appena emisi il mio ultimo respiro, appena il mio corpo venne rapito dalla freddezza del rigore destinato ai cadaveri, la mia anima venne condannata a portare questo pesantissimo fardello, questa catena senza fine. Ti pare strana?
Sentendo queste parole, Jane tremava sempre di più.
-O non conosci forse-, proseguì lo Spettro, -il peso e la lunghezza della catena che tu stesso porti? Aveva la stessa lunghezza e lo stesso peso di questa già sette Natali fa. Da allora ci hai lavorato ancora. È una catena imponente!
Jane ormai era piegato su se stesso, in preda ai singhiozzi.
-Comprendi adesso perché sono qui, Patrick Jane?
-Lo comprendo, Spirito. E benedico la magnanimità che ti ha spinto a presentarti davanti a un’anima misera come la mia!
-Io non sono altro che un messaggero. La tua salvezza, se vorrai, proverrà da altri uffici. Altre forze si muoveranno in tuo favore, Patrick Jane. Ti verranno mostrati tremendi e sublimi spettacoli. E ti verrà chiesto di fare una scelta.
-Spirito! Io…
-Ora taci, Patrick Jane! Non è richiesta la tua parola. Il mio tempo qui è quasi concluso. L’ora è tarda e la mia partenza vicina.
-Ti supplico, Spirito! Non lasciarmi! O non avrò altro viso amico nel mio errare!
Se avesse potuto, Jane si sarebbe attaccato all’orlo della sua veste. Ma lo Spettro si tirò indietro, non concedendogli alcun conforto.
-Questa è la pena di quelli come me! Questa sarà la tua pena, se la notte non avrà frutto! Io sono costretto ad errare per il mondo senza pace, guardando le vicende degli uomini, guardando la ruota del tempo girare per tutti, tranne che per me. La mia sentenza non sarà riscritta e questo è il mio destino fino alla fine dei tempi. Accetta questa singola speranza che ti ho procurato, Patrick Jane. Perché puoi essere sicuro di questo. Non ne avrai un’altra.
Jane si allontanò da lui, annuendo ed abbassando il volto verso il pavimento polveroso. Su di sé sentiva l’onore e l’onere di quella possibilità che non avrebbe esitato ad accettare.
-Verrai visitato da tre spiriti, Patrick Jane. Aspetta il primo domani, quando l'orologio suonerà l'una. Aspetta il secondo la notte successiva alla stessa ora. Il terzo la notte seguente, quando cesserà di vibrare l'ultimo colpo delle dodici. Non contare di rivedermi. Cerca, nel tuo stesso interesse, di ricordarti quello che è accaduto stasera tra noi!
Detto questo, Leroi Johnson percorse la strada verso la finestra. La sua forma lo attraversò senza difficoltà dileguandosi nell’oscurità nella notte.
Jane cercò di fermarlo per offrirgli almeno il suo saluto, ma l’uomo era già scomparso. Era solo, semidisteso sul pavimento freddo di un edificio deserto e scricchiolante. Aveva il volto coperto dalle lacrime e dalla paura. E nessuno, nessuno a dargli una mano per rialzarsi.
Sentiva i polmoni riempirsi d’aria, ne percepiva il volume sulla parete delicata degli alveoli. Eppure non sentiva l’ossigeno rigenerarlo. Stava annegando nell’aria che aveva attorno.
Puntellandosi sulle braccia, arrivò al letto e stese le coperte fin sopra i capelli, tremando come un bambino. Avrebbe dato l’anima per potersi stringere a qualcosa, a qualsiasi cosa. Ma non c’era nulla con lui.
E solo, in preda ai singhiozzi cadde in un lungo sonno senza sogni.

 
 

-Fine Strofa Prima-

 

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