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Autore: mysterious    11/02/2013    4 recensioni
Patrick Jane non aveva mai raccontato a nessuno che cos’era successo dopo, ciò che aveva visto, che aveva fatto, pensato. E come avrebbe potuto descrivere, con quali parole, la sua angoscia, la sua disperazione?
Genere: Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Patrick Jane
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THE BEGINNING
 
Quella sera Patrick Jane era intervenuto come ospite ad uno degli show televisivi con lo share più alto del momento: da anni, ormai, poteva permettersi di scegliere soltanto i migliori, forte com’era della fama di sensitivo che si era procurato spacciando per abilità paranormali delle doti di mentalista assolutamente fuori del comune.
Il padre, un falso medium al seguito di un Luna Park itinerante, lo aveva  iniziato, fin da bambino, all’arte della truffa, insegnandogli a prendersi gioco delle persone facendo leva sulle loro superstizioni e la loro ingenuità. Inizialmente titubante a seguire il genitore sulla strada dell’imbroglio e della frode, il giovane Patrick – che non aveva dove altro andare – aveva finito per divenire complice del padre, la cui abilità, peraltro, aveva ben presto superato: ora Jane era in grado di penetrare i meandri più reconditi della mente di chiunque, utilizzava con estrema facilità le tecniche della suggestione e dell’ipnosi, conosceva a fondo l’arte della manipolazione e dell’illusione e, grazie alla sua padronanza dell’ingegneria sociale, sapeva cogliere ed interpretare senza margine d’errore ogni espressione, sguardo, parola dei suoi interlocutori.
Dopo aver conosciuto la sua futura moglie, Angela, Jane aveva deciso di lasciare, per lei e con lei,  l’ambiente del circo, troncando ogni rapporto con il padre. Tuttavia, non aveva rinunciato ai soldi facili: il ruolo di medium ben gli si addiceva e, davanti a quegli occhi azzurri profondi come il mare, non pochi, soprattutto donne, erano disposti a cominciare a credere all’esistenza dell’aldilà e alla possibilità di comunicare con esso.
Anche quella sera, come al solito, Jane aveva accolto l’invito dei conduttori dello show a deliziare – e impressionare – il pubblico con una dimostrazione “in pillole” dei suoi poteri: per suo tramite, un uomo aveva potuto parlare ancora una volta con la moglie, morta pochi mesi prima in un incidente d’auto, mentre una giovane donna, visibilmente turbata, si era sentita chiedere perdono da un padre che, da vivo, non aveva avuto per lei alcun tipo di riguardo.
Nascondendo alle telecamere un’espressione a metà tra il soddisfatto (per la parte recitata magistralmente) e l’annoiato (per un rituale che si ripeteva pressoché identico ogni volta che compariva in televisione), Jane era tornato a sedersi accanto ai due conduttori, che, deliziati dalla sua performance, avevano accompagnato con un caloroso applauso  - cui faceva eco quello scrosciante del pubblico in sala - il suo “ritorno dall’altra dimensione”.
La scaletta del suo intervento era ormai prossima al termine: ancora poche risposte e poi, riscosso il cachet pattuito, avrebbe fatto finalmente rientro a casa. “Casa”, in realtà, era un termine assai riduttivo, considerando che lui e la sua famiglia erano magnificamente sistemati in un’elegante villa di Malibù, là«dove le montagne incontrano il mare», recita una famosa targa nel centro della città.
L’ultima domanda che gli era stata posta, a proposito dell’imprendibile killer seriale Red John, non lo aveva sorpreso: la polizia aveva recentemente chiesto il suo aiuto per tentare una ricostruzione del profilo psicologico di quell’assassino e la notizia aveva fatto rapidamente il giro dei quotidiani e del web.
«E’ un brutto, piccolo uomo tormentato…», aveva ripetuto ai presentatori dello show, «… un’anima sola. Triste, molto triste.» 
 
I fari dell’auto proiettavano due bianchi coni di luce sull’asfalto della strada che conduceva alla villa.
Era trascorsa circa un’ora e mezza da quando, lasciati gli studi televisivi, aveva imboccato la tangenziale che l’aveva condotto fuori città, verso le alture di Malibù. La luna, piena e appena velata dalla foschia che si alzava dal mare, aveva un che di inquietante, quella sera.
Le luci di casa erano ancora accese. Probabilmente, Angela era rimasta sveglia ad aspettarlo. La piccola Charlotte, invece, sua figlia, doveva essere già da un po’ nel mondo dei sogni: di norma, alle nove di sera, cominciava a mostrare i primi segni di cedimento, dopo un’intera giornata passata a correre, ballare, giocare… a sfogare, insomma, la normale esuberanza infantile!
Parcheggiata l’auto, Jane aveva estratto dalla tasca della giacca il proprio mazzo di chiavi, aveva aperto la porta ed era stato accolto dalla luce calda delle numerose lampade ed appliques del salone d’ingresso.
Non c’era nessuno: solo il triciclo di Charlotte, “parcheggiato”, come al solito, nell’esatto punto in cui la bimba aveva deciso di scendere, cioè … inevitabilmente tra i piedi! Con un tenero sorriso, lo aveva spostato in un angolo, per poi salire a passi spediti al piano di sopra: già pregustava il calore che sempre sapeva infondergli l’abbraccio avvolgente della moglie, l’unica persona adulta con cui poteva essere, finalmente, se stesso, dopo una lunga giornata tutta finzione ed ipocrisia.
La camera da letto si trovava in fondo ad uno stretto corridoio, sulle cui pareti, color mattone, si affrontavano, specchiandosi una nell’altra, fotografie grandi e piccole della famigliola: i momenti più belli della loro vita insieme.
Un biglietto affisso sulla porta chiusa della camera da letto aveva subito attirato la sua attenzione. Sul suo volto si era allargato un sorriso malizioso: probabilmente, un’idea carina di Angela.
Non poteva immaginare che, da lì a pochi secondi, avrebbe sperimentato l’inferno da vivo.
 
«Caro Sig. Jane, non mi piace essere calunniato attraverso i media, specie da uno sporco truffatore avido di denaro…»
 
Le prime parole che aveva letto avvicinandosi gli avevano raggelato il sangue. Come in una scena al rallentatore, il sorriso aveva lentamente lasciato il posto ad un’espressione perplessa, incredula, sbigottita. Gli occhi continuavano a leggere, ma il cervello voleva impedirlo: il pensiero volava alla velocità della luce ad un nome… Red John.
 
«Se lei fosse un vero sensitivo, invece che un insignificante verme disonesto, non avrebbe bisogno di aprire la porta per vedere che cosa ho fatto alla sua adorabile moglie e a sua figlia.»
 
Senza rendersene conto, aveva letto trattenendo il fiato, ma ad un tratto il suo corpo aveva richiesto il necessario apporto di ossigeno; istintivamente, aveva inspirato a fondo, le labbra tremanti e la morte nel cuore.
Facendo violenza su se stesso, aveva afferrato il pomello della porta come fosse incandescente e, restando immobile sulla soglia, irrazionalmente aggrappato alla speranza che si trattasse soltanto di uno scherzo di cattivo gusto, aveva dato al battente una debole spinta: un fascio di luce, proiettatosulla parete di fondo della camera da un’abat-jour orientata verso l’alto, illuminava il sorriso sgocciolante di uno smiley dagli occhi tristi, tracciato dalla mano dell’assassino col sangue delle sue due ultime vittime…
 
Non aveva mai raccontato a nessuno che cos’era successo dopo, ciò che aveva visto, che aveva fatto, pensato. E come avrebbe potuto descrivere, con quali parole, la sua angoscia, la sua disperazione?
Dallo smiley sul muro, lo sguardo di Jane si era lentamente abbassato sul letto in penombra: i corpi di sua moglie e di sua figlia, coperti di sangue ancora fresco, giacevano scomposti tra le lenzuola sgualcite, i polsi immobilizzati da legacci di plastica neri. Su entrambe le vittime tagli netti e precisi, inferti freneticamente all’altezza della gola e del busto con una lama molto affilata. Il killer aveva infierito sulle viscere della moglie. In quel momento, colto da una vertigine improvvisa e incontrollabile, Jane era crollato sulle ginocchia e aveva vomitato anche l’anima.
Non sapeva quanto tempo aveva trascorso raggomitolato sul pavimento, scosso da violenti spasmi che rendevano vano ogni suo tentativo di rialzarsi.
Aveva strisciato lungo il corridoio, piangendo come un bambino, incapace di frenare i singhiozzi convulsi che gli squassavano lo stomaco. Aveva pregato di risvegliarsi da quell’incubo o di morire.  
Ma l’uomo, quasi sempre, sopravvive al proprio dolore e così anche a Jane, alla fine, era toccato di continuare a vivere.
Chissà come, era riuscito a digitare il 911 sul tastierino del suo cellulare e, verosimilmente, doveva aver detto qualcosa di comprensibile se, poco dopo, polizia e mezzi di soccorso avevano raggiunto, a sirene spiegate, la sua abitazione.
Quella era stata la prima di tante notti insonni. La scientifica aveva iniziato i rilevamenti, i fotografi scattato decine di istantanee e filmato la scena del crimine da ogni angolazione; i poliziotti – alcuni dei quali, malignamente, si chiedevano come mai quello straordinario veggente avesse mancato di presagire proprio quella tragedia –  lo avevano subissato di domande per ore e ore, finché, sopraffatto dallo shock e dalla tensione nervosa, aveva perso i sensi.
Si era risvegliato la mattina seguente in una saletta di osservazione dell’ospedale di Malibù, e, come sempre accade il giorno successivo ad una sciagura, il primo istante non aveva realizzato; ma poi, come quando, impetuosa e travolgente, giunge improvvisa l’ondata di piena di un fiume, così il dolore, prorompente, acutissimo, si era riacceso tutto in una volta nella sua mente e nel suo cuore.
Per la seconda volta in poche ore si era sentito come se qualcuno gli avesse tolto la terra sotto i piedi.
Si era messo a sedere sul letto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia flesse, la testa nascosta fra le mani, gli occhi ormai inariditi dal troppo pianto. Le sue scarpe erano ai piedi del letto e la giacca appesa ad una sedia, ma per il resto aveva ancora indosso gli abiti della sera prima. Il suo sguardo aveva indugiato sulla sedia vuota:  non aveva più nessuno.
Si era messo le scarpe e aveva afferrato distrattamente la giacca mentre già guadagnava la porta. Aveva vent’anni più di ieri e li dimostrava tutti.
«Signor Jane! Signor Jane!», lo aveva chiamato un’infermiera, ma lui non si era neppure voltato e nessuno aveva avuto la forza di trattenerlo.
 
Davanti alla villa, dietro ai nastri gialli e neri che abitualmente contrassegnano il perimetro della scena di un crimine, erano – ancora o di nuovo? – parcheggiate alcune auto della polizia. Jane aveva pagato la corsa al tassista e aveva imboccato il vialetto d’accesso senza attendere il resto. Si muoveva come un automa, un passo avanti e due indietro, almeno così avrebbe voluto il suo inconscio.
Un agente gli era subito mosso incontro e aveva tentato di spiegargli che non avrebbe potuto entrare finché i rilevamenti non fossero stati ultimati:
«Mi dispiace, signore, ma non può entrare in casa. Non ha un altro posto dove andare? Qualcuno che possa ospitarla temporaneamente?»
«No», aveva risposto Jane, lapidario, senza neppure guardare il poliziotto e senza accennare a fermarsi. Sulla porta, ad attenderlo, l’ufficiale in comando, asciutto e professionale:
«Signor Jane, mi dispiace, ma, come le stava spiegando il mio agente, non possiamo lasciar entrare nessuno. Non ci vorrà molto, una giornata, al massimo due. Poi potrà riprendere possesso della sua abitazione. Posso solo consentirle di prendere in fretta qualche effetto personale, ma dovrà farlo attraverso uno dei miei uomini.»
«Mia moglie e mia figlia… dove sono?», aveva chiesto Jane con tono inespressivo.
«Il coroner ha portato i corpi all’obitorio della contea. Eseguirà personalmente l’autopsia, forse già domattina.» Solo a quel punto, sentendolo come un dovere non ancora espletato, aveva aggiunto un laconico: «Mi dispiace per la sua perdita. So che è dura.»
“Mi dispiace per la sua perdita. So che è dura”…
Jane lo aveva fissato intensamente, la testa lievemente reclinata e ruotata su un lato, le labbra socchiuse: anche in quel frangente non aveva potuto evitare di leggere i pensieri del suo interlocutore.
«Non credo», aveva esordito. «Lei non è sposato e non ha mai avuto figli, quindi non può neppure lontanamente immaginare ciò che provo in questo momento. Inoltre, non crede nel paranormale e, dentro di sé, pur essendo disgustato dall’omicidio, si chiede, vagamente compiaciuto, come io possa aver fallito proprio con la mia famiglia.» Si era voltato senza aggiungere altro, e senza cambiare espressione era tornato da dove era venuto, seguito in silenzio dallo sguardo attonito del poliziotto.  
In casa, non aveva preso nulla. Nel portafoglio aveva ancora il cachet della sera prima, ed era molto più di quanto gli servisse. A piedi, la giacca su una spalla e la camicia spiegazzata fuori dei pantaloni, era sceso in città e aveva affittato una camera in un modesto e appartato motel della periferia: non sarebbe mai tornato ad abitare là dove sua moglie e sua figlia erano state barbaramente trucidate, non tanto perché ciò avrebbe rinnovato ogni giorno il suo dolore, quanto piuttosto perché il senso di colpa che provava non gli avrebbe mai più permesso di godere della fama, della ricchezza e di tutti gli annessi e connessi che in quegli anni di imbrogli e di raggiri si era procurato.
Diffamare Red John gli era costato caro. Non aveva resistito al desiderio di mostrarsi una spanna superiore, di tracciarne un ritratto dimesso, presentandolo come un delinquente comune, lui, che si reputava un artista del crimine e un genio del male. Avrebbe dovuto immaginare che era come lanciargli una sfida; avrebbe dovuto immaginarlo …
Ma non l’aveva fatto ed ora non era disposto a perdonarsi.
Due giorni dopo le conclusioni dell’esame autoptico, gli era stato dato il consenso ad inumare le vittime. Poi, era tornato alla villa: l’aveva svuotata di ogni mobile, ogni suppellettile, ogni traccia di vita vissuta. Aveva eliminato il letto matrimoniale, gettato il materasso intriso del sangue di sua figlia e di sua moglie, spogliato ogni parete, ma non aveva cancellato lo smiley di Red  John:
«Giuro che ti prenderò», aveva promesso poggiando la mano su quel cerchio di sangue ormai rappreso, «in qualunque modo, a qualunque costo, e ti farò rimpiangere ciò che hai fatto alla mia famiglia. Cancellerò questo maledetto sorriso dalla tua faccia.»
Il materasso del lettino di Charlotte era intatto: la piccola si trovava nel lettone con la mamma, la sera dell’omicidio. Jane lo aveva steso sul pavimento, proprio sotto lo smile. Un cuscino, una coperta e ne aveva ricavato un letto di fortuna.
«Per non dimenticare, e per dimostrarti che non ho paura…» aveva detto la prima volta che ci si era coricato, tenendo lo sguardo, sbarrato da un’insonnia senza possibilità di cura, fisso su quell’orrendo simbolo di morte.
   
 
  
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