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Autore: Breed 107    31/08/2007    25 recensioni
Lei è una schiava, la sua schiava... lui è un principe, il suo padrone. Due vite che si incontrano, due destini che si intrecciano... Capitoli dal 1° all'11° revisionati
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akane Tendo, Ranma Saotome
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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It takes me higher

di Breed 107

 

 

Una preghiera prima di cominciare: per favore leggete anche il Carla’s corner alla fine del capitolo, è importante!

 

Capitolo tredicesimo.

Perché mi fai questo, Hikage?”

“Hikage non è il mio vero nome.”

Akane non ne fu sorpresa, questo confermava i suoi sospetti. Non era stata una follia improvvisa a spingere il ragazzo ad attaccarla. Si appoggiò ancor di più all’albero alle sue spalle e inspirò con difficoltà.

Non capiva perché le fosse arduo respirare, la ferita al braccio era superficiale e anche quella alla coscia era appena più profonda di un graffio, perché avvertiva tanta spossatezza? La vista stava annebbiandosi rapidamente, non era possibile, non aveva perso così tanto sangue da… a meno che…

Cosa mi hai fatto?” domandò rabbiosa, stringendo i pugni con tutta la forza che ancora le restava fino a lacerarsi la pelle con le unghie: aveva bisogno di quel dolore per restare lucida ed aspettare. Tempo, aveva bisogno di tempo, lui sarebbe arrivato… L’avrebbe salvata.

Hikage, o meglio, colui che fino a quel momento aveva chiamato Hikage la guardò, lo sguardo spento e tranquillo di sempre, anche se forse c’era dell’altro in quegli occhi. Della tristezza? Del rimorso? “Mi spiace, Akane, ma sarà doloroso. E lungo… impiegherai delle ore a morire. Mi dispiace” ripeté abbassando la spada. Sembrava considerare finito quel combattimento, eppure non si mosse, non provò nemmeno a scappare pur sapendo che presto sarebbe stato raggiunto. Già la foresta risuonava delle voci del principe e di Ryoga che richiamavano furiosamente la ragazza seduta tra le radici dell’albero dinanzi a lui.

“Avrei voluto regalarti una morte rapida e senza alcuna sofferenza, ma sei un’avversaria ostica. Il principe ti ha allenato bene.”

Cos’era quello, un contentino, un addio onorevole? Cosa si era aspettato, che si sarebbe arresa a lui e alla sua spada senza combattere? “Se non scappi ti prenderà” gli disse Akane, deglutendo a fatica. La gola le si stava serrando, rendendole sempre più difficile respirare e quasi impossibile parlare.

Quanto avrebbe voluto odiarlo! Le stava portando via la vita e con essa la possibilità di vendicarsi… Le stava portando via Ranma! Non l’avrebbe mai più visto, non avrebbe più parlato con lui… Non l’avrebbe mai più sentito chiamarla maschiaccio.

Perché?” domandò di nuovo, le lacrime che s’affollavano negli occhi ormai quasi ciechi. Distingueva a malapena la sagoma scura dinanzi a sé e quasi non si accorse che le si era avvicinata.

“E’ il mio lavoro” Akane sussultò avvertendo la sua voce tanto vicina e strizzò le palpebre nello sforzo di guardarlo in volto. Con un gesto deciso Hikage abbassò il cappuccio che gli copriva quasi interamente il capo, le s’inginocchiò accanto e l’osservò con quella che era chiaramente pena. Una mano guantata risalì fino al volto pallido della schiava e le sfiorò una guancia in una carezza gentile e delicata a cui lei non ebbe la forza di sottrarsi.

“Ti ho ucciso per il volere di un altro Akane. E’ questo quello che sono, un assassino. Non avrei voluto, mai… non te. Ma questo sono io” mormorò al suo orecchio con scoramento. Si chinò su di lei e la baciò, sfiorandole le labbra con la stessa dolcezza con cui ne aveva pronunciato il nome.

Akane avvertì il tocco leggero della sua bocca, pensò addirittura di avvertire il sapore salmastro di lacrime non versate. Serrò gli occhi, l’unica parte del corpo che ancora poteva controllare e unico modo per rifiutare quel gesto tanto gentile da colui che l’avrebbe uccisa. Quel bacio, il suo primo vero bacio, le bruciò quasi le labbra screpolate colmandola di dolore e rimpianto.

Una singola lacrima scivolò lungo la guancia ricoperta di polvere, lasciando una scia bollente sulla pelle fredda fino a fermarsi accanto alla bocca. Il ragazzo conosciuto come Hikage gliel’asciugò con le punte delle dita, con tatto e cautela, quasi temendo che un tocco più energico avrebbe potuto mandare in pezzi la sua avversaria. “Mi spiace – ripeté forse più a se stesso – non posso far altro per te che abbreviare le tue sofferenze.

Aspetta, avrebbe voluto gridargli, aspetta! Lui verrà, verrà a salvarmi! Aspetta… non posso morire, non ancora!

Akane chiuse gli occhi su nuove lacrime incandescenti e si morse il labbro, sperando che il lieve dolore procuratosi la scuotesse abbastanza da pregarlo di non farlo. Lui sarebbe arrivato, ne era certa! Sentiva la sua voce come un’eco lontana, ma ugualmente la udiva. Sembrava così preoccupato, doveva aspettarlo… aspetta…

Hikage osservò ancora il volto esangue della giovane avversaria e sospirò. Non era mai stato tanto difficile, ma forse quella sarebbe stata l’ultima volta. Sì, osò sperare, il principe e suo cugino erano vicini, l’avrebbero preso e lui si sarebbe fatto catturare perché quella doveva essere anche la sua fine. Si alzò deciso e rafforzò la presa intorno alla spada che stringeva con sapienza; aveva dato la morte ad Akane, ma poteva, doveva, liberarla dalla sofferenza che presto l’avrebbe avvinta.

Sollevò l’arma oltre il capo, la lama s’illuminò colpita da un raggio di sole morente e mandò un bagliore intenso che si infranse sul volto pallido della sua vittima. Hikage osservò ancora un volta il corpo abbandonato ai suoi piedi “Finirà   presto per entrambi” sussurrò con voce tremula, ma la sua mano non tremò calando il fendente.

 

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Com’era cominciato tutto questo? Quando l’inganno era stato perpetuato?

Akane ricordava bene il giorno in cui Hikage era giunto a corte, sotto le mentite spoglie di una fragile e triste cameriera. Anche lei aveva creduto a quella mascherata, come non credervi, del resto? Era un abile dissimulatore, ora ne aveva ulteriore conferma.

Sì, ricordava il giorno in cui lei e la dolce Hikage si erano conosciute…

 

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Genma aggrottò pensoso le sopracciglia: non aveva mai visto donna più brutta di quella. Era talmente distratto dal viso null’affatto attraente da esserne quasi affascinato, in un certo senso. Ascoltava a malapena la preghiera fremente che la vecchia stava supplicando accettasse, le sue parole accorate gli giungevano in un mormorio indistinto.

Sconcertato fissava quei lineamenti sgraziati e arcigni, sollevato comunque dalla consapevolezza che per quanto distratto egli fosse, sua moglie invece ascoltava attenta. Era una gran fortuna che Nodoka fosse tanto presa dal suo ruolo di sovrana: dare udienza ai propri sudditi era un compito faticoso e, francamente parlando, il più delle volte di una noia mortale.

In un regno florido come quello che la buona sorte gli aveva dato da governare, la maggior parte dei colloqui che era costretto a sorbirsi riguardavano liti tra vicini da redimere, proposte per la costruzione di nuovi edifici da adibire alle funzioni più disparate, concessioni di permessi per praticare questa o quella attività. O come nel caso di quella donnetta non proprio affascinante, richieste per lavorare a corte.

Il Re si mosse a disagio sul trono: la donnetta aveva appena finito di porgere la sua vibrante richiesta ed ora attendeva un responso che naturalmente egli non era in grado di darle, dal momento che aveva ascoltato solo metà di quanto avesse detto…

Si schiarì la voce sperando di darsi un tono e volse l’attenzione alla sua sposa che a sua volta lo stava guardando in attesa. “Cara, lascio a te la decisione confidando nel tuo innato buon senso” asserì con misura e teatrale pacatezza. Notò la moglie sorridere, segno che doveva averne smascherato la recita e il sovrano si mosse ancora a disagio sul seggio improvvisamente scomodo.

“Come desideri, caro marito. Signora, la ragazza per cui è qui a chiedere un lavoro è con lei?” domandò poi rivolta alla donna che annuì, la gioia visibile sul volto rugoso.

“Sì, augusta maestà! Hikage presto, fatti avanti affinché la nostra bella regina possa vederti!”

Una figura esile si separò dalla piccola folla radunata ai lati della grande sala delle Udienze e a capo chino avanzò quasi scivolando sul lucido marmo, fino a porsi di fronte ai due troni proprio accanto alla piccola donna. Genma batté le palpebre, esterrefatto: per sua fortuna la giovane non assomigliava alla genitrice. Per nulla.

‘Che bizzarria della natura è questa?’ si domandò, fissando la ragazza inchinarsi con rispetto. Era alta per quanto sua madre era piccola; bella per quanto brutta era l’altra, discreta per quanto l’altra appariva chiassosa e grossolana. Lunghi capelli neri lucenti le ricadevano in una fluente coda sulle spalle, risaltando esacerbatamene sulla candida veste che portava; veste dalle lunghe maniche nonostante il gran caldo di quell’estate inoltrata. Il volto struccato e privo d’ogni espressione appariva levigato e impreziosito da occhi molto scuri. Osservandoli, il sovrano di Augusta provò una sensazione indescrivibile, un disagio molto più accentuato di quello provato poco prima per l’esser stato colto a fantasticare.

Era lo sguardo più vuoto ed opaco che avesse mai incrociato: quelle perle nere altrimenti attraenti erano quasi spaventose nella loro mancanza di vitalità. Una profonda malinconia doveva esser causa di un simile sguardo spento, valutò l’uomo che scambiando un’ulteriore occhiata con la consorte capì di non esser il solo a pensarlo.

Nodoka batté le palpebre, sconcertata. Non era la prima volta che qualcuno veniva a mendicare un lavoro per sfuggire alla povertà, ma era certo la prima volta che si trovava di fronte ad una giovane così svuotata d’ogni emozione. Non era timidezza, né imbarazzo o vergogna. No, quella ragazza era spenta. Un involucro vuoto.

“Lei è la mia unica figliola, loro auguste Altezze. Siamo giunte in questa meravigliosa città da poco, spinte dal bisogno. Ho cercato lavoro per la mia Hikage e ovunque mi è stato detto che una ragazza dalle sue doti, quali discrezione e buona volontà è sempre ben accetta a palazzo. Vi assicuro, vostre Altezze, che il lavoro e la fatica non la spaventano!” la vecchia continuava a parlare, indicando di tanto in tanto la silenziosa giovane al suo fianco.

C’era qualcosa di lievemente inquietante in quella giovane silenziosa, immobile sotto lo sguardo della folla assiepata nella sala, così composta da non sembrare neppure viva. L’indifferenza con cui assisteva al colloquio che pure la riguardava in prima persona era totale.

“Hikage è il tuo nome, vero?” le domandò la sovrana spinta dal desiderio di scuoterla, in qualche modo. Si sarebbe quasi aspettata di vederla sussultare, ma la ragazza invece mantenne la propria impassibilità e sollevò il bel volto verso di lei, mostrando appieno la sconcertante vacuità del suo sguardo.

“Sì, sua altezza reale” rispose con voce ferma, stranamente profonda per una donna così esile.

“Credi che ti piacerebbe lavorare qui a palazzo, cara?” tornò a chiederle Nodoka, decisa a tirar fuori da quella imperturbabile ragazzina una qualsiasi emozione. L’immagine dello sguardo di Ranko così vivace e turbolento le apparve dinanzi in uno stridente contrasto con i pozzi neri della giovane che le stava a pochi passi.

“Sì, sua grazia. Sarebbe davvero un onore per me lavorare per una padrona tanto bella e cortese.

Nodoka sospirò, combattuta sul da farsi: non aveva alcun motivo per rifiutare una richiesta portata con tanto patimento dalla madre della giovane a suo cospetto, ma l’istinto le diceva di non voler quella ragazza a palazzo. Quel qualcosa in lei, quel qualcosa di così oscuro da ottenebrare lo sguardo di una ragazza nel periodo più florido dell’esistenza la inquietava. Ma non poteva lasciarsi condizionare da stupide sensazioni del momento: probabilmente la vita di quella giovane era stata penosa a tal punto da aver sopito ogni sua emozione. Magari a corte tra tanti altri giovani così impetuosi e che affrontavano la vita con caparbia spensieratezza avrebbe riacquistato quanto perso…

Conquistata da quel proposito, Nodoka scacciò definitivamente ogni dubbio e rivolse alla madre trepidante il più caloroso dei propri sorrisi “La vostra richiesta è accettata, signora. Da oggi Hikage lavorerà qui a palazzo.”

“Oh, grazie! Grazie, sua altezza! Non se ne pentirà! Lei così salva la mia adorata figliola da un destino crudele!” il volto sciupato della donna si contorse per il pianto dirotto che la scosse e i suoi inchini divennero più profondi. Non smise di ringraziare e di augurare ogni bene ai beneamati sovrani di Augusta nemmeno quando, richiamata da un cenno di Nodoka, Maya affiancò la figlia e le chiese con gentilezza di seguirla affinché potesse spiegarle i suoi doveri e mostrarle la camera dove avrebbe dormito.

L’eco dei ringraziamenti e delle benedizioni della vecchia si spense solo quando la sua figura piccola e curva fu sparita dietro una delle porte secondarie. Sparizione che fu accolta con un sospiro di sollievo da Genma: non sapeva cosa fosse peggio, se ritrovarsi a fissare la bruttezza agghiacciante di quella megera o la sconcertante insensibilità della figlia.

‘Se Ranko fosse docile la metà di quella tipa, organizzarle il matrimonio sarebbe stato uno scherzo…’ pensò, mentre già un altro suddito si avvicinava per porgere la sua richiesta.

 

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“D’accordo, per oggi finiamola qui.”

Akane chiuse gli occhi e intimamente ringraziò le divinità protettrici delle povere schiave afflitte. Non l’avrebbe mai ammesso a voce alta, ma era contenta che lo strazio fosse finito, seppure solo per quel giorno. Raramente nel corso della sua vita che pure era stata difficile e non priva di sofferenze, aveva provato un simile sollievo. Se solo avesse potuto restare lì ancora per un po’, solo un altro po’ di tempo, per riposare…

Con uno sforzo ammirevole riaprì gli occhi per ritrovarsi a fissare ciò che da ben tre giorni costituiva il suo compagno di allenamento: uno scoppiettante fuoco, la cui luce brillava quasi con malizia in quel mattino inoltrato di fine primavera.

Inspirò abbattuta, ma il sollievo provato poco istanti prima le aveva restituito un po’ delle energie dissipate e con un sospiro si alzò in piedi.

Era un disastro.

I capelli le ricadevano flosci sulle spalle completamente zuppi, così come bagnata era la casacca scura che indossava, o quel poco che ne restava, cioè… Brandelli di stoffa bruciacchiata le pendevano sulle braccia, lasciando intravedere la pelle annerita per il fumo e la cenere. Anche le mani erano completamente ricoperte di fuliggine che la secchiata d’acqua non aveva potuto ripulire.

Aggrottò le sopracciglia e si scrutò i palmi, scoprendo nuove vesciche tra le tracce di carbone; mosse un po’ le dita, tanto per esser certa di poterlo fare: poteva, ma non fu piacevole. Piccole staffilate di dolore le pungevano la pelle arrossata come punture di vespa.

Imprecò tra sé, pensando che stavolta un semplice impacco di semi di lino non sarebbe servito a farle passare il bruciore. Ma lo scempio non era limitato solo alla parte superiore del corpo.

Come constatò con amarezza, anche le gambe erano ricoperte da uno spesso strato di fango solo in parte rappreso e che in alcuni punti colava viscido a causa dell’ultimo bagno procuratole dal principe affinché non prendesse fuoco insieme alla stoffa della casacca. Le piccole scarpette in seta che indossava erano malconce come il resto, consumate dal terreno su cui era stata accovacciata per ore; ogni osso sembrava reclamare la sua parte di sofferenza proprio a causa della posizione cui era stata costretta. Anche le spalle erano indolenzite per la tensione, per tacere del braccio destro: ad ogni minimo movimento i muscoli urlavano il loro dissenso.

‘Ma chi me l’ha fatto fare?’ pensò in uno sfogo di amarezza che non le era consono. Non era mai arretrata davanti ai duri allenamenti d’Obaba, nemmeno per quelli più ardui e faticosi. Un po’ si vergognava di tanto scoramento, ma doveva ammettere che il suo attuale allenatore non aveva nulla da invidiare alla vecchia maestra amazzone in quanto a durezza, mentre la batteva, e alla lunga, per sgradevolezza.

Si allenava solo da tre giorni sotto la guida del giovane principe, eppure le sembravano secoli. Secoli d’offese, di accuse di incapacità e inviti, molto poco principeschi a dire il vero, a lasciar perdere. Akane doveva ringraziare il proprio orgoglio se non l’aveva fatto. Avrebbe preso quella castagna a costo della vita, per poi ficcargliela in gola.

Lo sguardo stanco si animò leggermente a quell’allettante prospettiva ed un piccolo sorriso sognante le arricciò le labbra screpolate per la sete, ma fu una beatitudine fugace. Fu proprio la voce inacidita di Ranma a riportarla all’amara realtà.

“Ehi, ti sei incantata maschiaccio?”

Akane non si prese nemmeno la briga di ribattere a quel nomignolo che ormai da tre giorni sembrava aver sostituito quello vero. Lo guardò sperando di irradiare abbastanza odio affinché lui lo percepisse “No, signore” rispose con freddezza.

Ranma assottigliò gli occhi, per nulla stupito dall’acredine che le aveva colorito la voce. Era ovvio che lo odiasse: non lo apprezzava prima, figurarsi ora dopo il trattamento a cui la stava sottoponendo! Non era volutamente crudele con lei, ma sapeva che se voleva rendere quella lumaca più veloce, l’unica era stuzzicare il suo orgoglio di combattente.

E poi trattarla male gli veniva quasi naturale. Comportandosi così aveva infine l’indubbio vantaggio di riuscire a tenere lontani alcuni pensieri allarmanti che di tanto in tanto gli si affacciavano alla mente. Pensieri assurdi, illogici e completamente folli… Come per esempio quello contro cui improvvisamente si ritrovò a combattere nel guardarla in quel momento.

Una striscia di fango mista a cenere le attraversava il volto, annerendole soprattutto la fronte ed il naso. Doveva essersela fatta spostando i capelli dal volto e lasciando lì quel baffo sbarazzino con le dita ricoperte di caligine. Era proprio una pasticciona, eppure quel segno, come dire?, lo inteneriva. Avrebbe voluto tanto allungare una mano e ripulire quella macchia, sfiorandole la pelle…

Incrociò le braccia al petto, come a volersi impedire fisicamente di soccombere ad un simile impulso scellerato “Continueremo domani, anche se penso che sarà fatica sprecata. Hai idea del tempo che mi stai facendo perdere per questa sciocchezza?”

Akane si morse l’interno della guancia per impedirsi di ricordargli che per apprendere quella stessa sciocchezza, lui aveva impiegato quasi una settimana. Ricacciò in gola lo sdegno e tenne a bada la voce per rispondergli con quanta più freddezza potesse “Il padrone è fin troppo generoso con me.”

Parole di zucchero, sguardo assassino. Ranma gongolò; se continuava a pungolarla in quel modo, avrebbe afferrato quelle maledette castagne in men che non si dica e quell’impertinente avrebbe dovuto ammettere che come allenatore superava anche la saggia Obaba. Sperava solo che non fosse troppo presto o il divertimento sarebbe durato poco.

Più volte si era chiesto come mai adorasse strapazzarla così; le risposte che si era dato non sempre gli erano piaciute… Perché amava guardare i suoi occhi incendiarsi. Perché il pensiero di esserle indifferente gli avrebbe fatto male. Perché quella era la vera Akane, quella che si arrabbiava, che lanciava cuscini e lo linciava con quei grandi, vividi occhi ambrati. E a lui soltanto lei si mostrata nella sua autenticità. A lui solo.

Nessun altro poteva dire altrettanto, nemmeno Obaba e meno che mai quell’idiota di Ryoga. Che continuasse a trattarla con riguardo rendendosi ridicolo, che importava se poi era a lui che Akane mostrava il suo vero aspetto? Non che questo lo sottraesse da occasionali sensazioni fastidiose, che qualcuno avrebbe potuto con superficialità definire gelosia. Geloso di Ryoga, lui? Perché, poi? Solo perché all’eterno disperso sembravano esser rivolti gli sguardi più gentili e garbati d’Akane ed un’imprecisata quantità di sorrisi? Inconcepibile.

Se avesse voluto avrebbe potuto farla sorridere quanto e più di quel disperato di Ryoga! Solo non voleva. L’aveva detto di preferire l’Akane scorbutica dopotutto, no?

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Per evitare che il caos di quei pensieri lo sommergesse del tutto colmandolo di una tensione che non aveva mai provato prima che lei giungesse a palazzo, Ranma si avvicinò al piccolo falò ancora acceso e con pochi, rapidissimi gesti raccolse le castagne ormai ridotte a piccoli gusci carbonizzati. Sorrise soddisfatto di sé e poi lasciò cadere i piccoli frutti in terra “E senza nemmeno dovermi slacciare i polsini” mormorò, a voce comunque abbastanza sostenuta perché lei sentisse.

Akane strinse i pugni, ignorando il dolore che ciò le provocò e livida di rabbia carezzò per alcuni istanti la folle idea di assestare un calcio nel borioso didietro del padrone ancora accovacciato, mandandolo dritto dritto tra le fiamme scoppiettanti. Avrebbe potuto farlo passare per un incidente…

Sobbalzò quando lui si rialzò di scatto “Va’ a palazzo a ripulirti, sei in condizioni pietose.”

‘Grazie a chi?’ avrebbe tanto voluto chiedergli, ma ad esser sincere sapeva d’esser ugualmente responsabile; aveva accettato di farsi allenare da lui, anzi, aveva accettato con gioia quasi, tentata dalla prospettiva di un’intera giornata di libertà. Ora le sembrava assurdo il solo aver creduto ad una simile idea: probabilmente quel sadico aguzzino l’avrebbe torturata a vita, troppo era lo spasso che farlo gli procurava.

Senza degnarlo di una parola Akane si avviò verso il bosco, così furiosa da dimenticare persino la presenza degli altri sul pianoro. Quel giorno Taro ed Ame si erano uniti al piccolo gruppetto formato da lei, Obaba ed il principe; purtroppo né Ranko, né il signor Ryoga si erano presentati, una impegnata con le estenuanti lezioni degli istitutori in vista dell’odiato matrimonio, l’altro disperso.

Con passo marziale Akane si addentrò nella fitta vegetazione e non diminuì l’andatura fino a quando si sentì richiamare; la schiava del capitano le fece cenno di aspettarla per poi raggiungerla sorridente. “Il principe mi ha detto di venirti dietro!” le spiegò appena le fu accanto, il sorriso imperturbabile.

Perché?”

“Oh, non l’ha detto, ma forse è preoccupato per te: ha detto al padrone che gli sembrava ti fossi ferita più degli altri giorni.

“Figurati se è per quello! Non gli importa nulla, potessi pure perderla la mano!” sbottò, lasciando venir fuori tutta la rabbia che aveva represso. Detestava urlare con Ame, ma c’erano volte in cui la dolcezza di quella ragazza ed il suo sorriso palesemente felice le davano ai nervi quasi quanto le sbruffonate del proprio padrone. Era così delicata! Sembrava fatta apposta per far risaltare la propria rozzezza, la propria rudezza.

Ame si strinse nelle spalle ed abbassò mortificata i chiari occhi ed Akane sentì il rimorso crescerle dentro. Sospirò e cercò di calmarsi, non era giusto scaricare le proprie frustrazioni sull’amica “Scusa se ho urlato. Sono un po’ stanca” si giustificò sapendo che c’era del vero in quelle parole e fu lieta quando l’altra tornò a sorriderle, la comprensione dipinta sul viso grazioso.

“Avrai anche fame! Il principe non ti ha dato nemmeno un attimo di tregua oggi, si vede che tiene molto che tu riesca – per quanto ingenua, Ame comprese che proseguire quel discorso avrebbe fatto urlare di nuovo l’amica e saggiamente decise di cambiare argomento –  Probabilmente siamo ancora in tempo per pranzare con le altre, sempre che tu non debba restare in camera.”

Akane scosse il capo; da quando aveva cominciato ad allenarla, il principe consumava i propri pasti con il resto della famiglia, lasciandola libera di dividere i suoi con le altre donne. Si era chiesta se dietro quella scelta ci fosse il desiderio di liberarsi di lei almeno per qualche ora, dato che trascorrevano insieme il resto della giornata… e della notte, a ben vedere.

“Andiamo, devo cambiarmi prima” borbottò, il malumore stranamente accresciuto. E doveva anche bendarsi le mani alla meno peggio, pensò con un sospiro rassegnato.

 

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C’era del fermento tra le donne quel giorno. Akane lo avvertì appena superata al soglia delle cucine e in cuor suo ne fu grata: qualsiasi cosa servisse a distrarre quelle pettegole era ben accetta! Cominciava ad essere un po’ a corto di scuse per le ferite con cui si presentava da giorni a tavola e se avesse dovuto ancora una volta rispondere a domande in merito, si sarebbe messa ad urlare.

Quando si accostò al tavolo pronta ad occupare il solito posto, capì subito a cosa fosse dovuta l’eccitazione che serpeggiava tra quelle quattro oche. Un viso nuovo era spuntato all’orizzonte, nuovo alimento per i loro chiacchiericci da cortile.

Una ragazza mai vista prima, infatti, sedeva dall’altro capo del tavolo, per nulla intimidita dal clamore che con tutta evidenza aveva suscitato. Con gesti calmi e misurati consumava il suo pasto rispondendo alle tante domande che le piovevano da ogni direzione, senza mai staccare gli occhi dalla sua ciotola. Akane le invidiò quasi la compostezza di fronte a tanta imbarazzante curiosità e continuò a fissare la nuova arrivata, non potendo evitarsi a sua volta un pizzico di quella stessa indiscrezione che tanto deprecava.

Era davvero bella, valutò osservandone l’incarnato pallido con un po’ di invidia: il trascorrere tanto tempo all’aperto aveva conferito alla propria pelle un colorito dorato che non le donava affatto. La sconosciuta aveva anche modi estremamente femminili, di certo il padrone non avrebbe mai potuto definirla maschiaccio tanto facilmente!

Sbuffando, Akane richiamò Sayuri, una delle poche che non sembrava esser ossessionata dal conoscere ogni retroscena della vita della ragazza pallida. “Oh, anche oggi sei dei nostri! Il tuo padrone si sta davvero stancando di te, allora!” sbottò l’amica andandole in contro, la voce venata d’ironia che strappò un sorriso poco convinto ad Akane che si limitò a stringersi nelle spalle.

“Magari. Credi che sia rimasto qualcosa da mangiare per me e Ame o le cuoche sono troppo impegnate a dar aria alla bocca?”

>La cameriera scosse la testa, divertita dalla mancanza di tatto della schiava del principe. Non doveva esser di buon umore, valutò sorridendole con sincera simpatia “Vi porto io qualcosa, non preoccuparti. Comunque è una nuova arrivata, una cameriera assunta stamani. Maya dice che forse l’assegnerà alla principessa, visto il suo modo aggraziato di muoversi  e la sua avvenenza potrebbe essere una dama di compagnia perfetta una volta che la giovane Ranko sarà principessa di Ryugenzawa.”

Ame lanciò un’occhiata alla ragazza nuova e aggrottò perplessa le fini sopracciglia “Non credo che alla principessa piacerà. Ha sempre detto di volere Akane come dama di compagnia, un giorno.

Sayuri ridacchiò “Questo sempre che il principe Ranma si decida a lasciarsi sfuggire una schiava dal temperamento tanto ardente! Vi porto subito da mangiare!” disse allontanandosi, non dimenticando di lanciare alla suddetta Akane un’occhiata maliziosa che la fece arrossire.

Il fremito che aveva distratto le altre donne di servizio durò meno di quanto la schiava del principe avesse sperato. Ben presto, smontate dalla mancanza di collaborazione da parte dell’ultima arrivata, molte di loro tornarono alle proprie faccende e quelle che invece erano libere da ogni incombenza tornarono a dedicarsi a ciò che non smetteva mai di procurar loro diletto, vale a dire l’interrogare la suddetta schiava dell’erede al trono.

Come Akane aveva temuto, non poche avevano notato sia le ferite che le vere e proprie sparizioni sue e del principe; più di una le aveva chiesto cosa facessero mai nel bosco per tutto quel tempo e anche quel giorno non le furono risparmiate domande in merito.

“Guardo il principe allenarsi, ve l’ho già detto” rispose con voce stanca all’ennesima questione sull’argomento e continuò a mangiare tentando di ignorare i commenti.

“Capisco che osservare un ragazzo tanto avvenente possa dare un certo appagamento, mia cara, ma vuoi farci davvero credere che lui ti porti con se solo per fargli da spettatrice?”

‘Se conoscessero la presunzione di quell’essere non se la porrebbero nemmeno questa domanda…’ si disse la schiava, pretendendo di esser diventata sorda di colpo. Quella era l’ultima volta che pranzava in quella sala senza Obaba, si ripromise sapendo che l’aura austera della maestra aveva effetto persino su delle simili sfrontate.

Lanciò un’occhiata all’altro capo della lunga tavola dove la nuova arrivata continuava il suo pasto in totale solitudine. C’era da invidiarla ancora una volta…

“E’ una strana – Sayuri le sedette accanto e fece un cenno verso la silenziosa ragazza – Non parla se non le si rivolge una domanda diretta e… e poi, non so, ha uno sguardo così triste da stringermi il petto.”

“Sì, è vero! L’ho notato anch’io! Deve averne passate di brutte, la piccola” commentò una delle più anziane delle comari, nel cui sguardo però non ardeva la compassione, quanto la smania si saperne di più delle peripezie della piccola.

Akane guardò un’ultima volta verso la nuova arrivata, prima di dedicarsi al proprio pasto: chissà se avrebbe mai avuto l’occasione di scambiare qualche chiacchiera con quella ragazza tanto silenziosa, si domandò.

L’occasione capitò anche prima del previsto.

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Faceva un male cane. Abbattuta, Akane fissò le proprie mani e sospirò. Non poteva far altro che aspettare, si disse frustrata. Non era il dolore a farle tanta rabbia, seppur lancinante. Rannicchiata in quel cantuccio buio, nascosta ad ogni sguardo, aspettava. Che la mano smettesse di sanguinare, che la tristezza passasse… che le lacrime che avvertiva in petto svanissero.

Si morse il labbro inferiore, arrabbiata con se stessa. Era davvero tanto debole da far sì che le sue parole la ferissero, ancora? Non era stato tenero, né gentile, ma questa non era una novità. Quante volte, si chiese sospirando ancora, quante volte le sue parole erano state infatti gentili? Avrebbe potuto numerarle sulle dita di una mano… A proposito di mano, il taglio sembrava non voler smettere di sanguinare e la sottile striscia di stoffa che vi aveva avvolto intorno, dopo averla ricavata dal lembo della sua martoriata veste, era già intrisa di sangue.

Le fini sopracciglia si flessero fino a raggiungersi quasi al centro della fronte corrugata. Sì, era vero, si disse osservando la macchia scura allargarsi sul tessuto, lui non aveva quasi mai avuto parole gentili per lei, ma quell’esplosione d’ira… e le sue parole! L’aveva cacciata via! Le aveva ordinato di non farsi vedere fino a quando non sarebbe guarita…

Con uno sbuffo irritato pensò che quel che era peggio era che in tutta quella penosa sfuriata, lui non l’avesse mai chiamata maschiaccio.

Già, stavolta non c’era stato spazio per l’ironia: il principe era davvero furioso con lei. Doveva considerarla una vera incapace a quel punto.

‘Come se m’importasse qualcosa…’ si disse appoggiando il capo alle ginocchia raggruppate contro il petto. Che le importava del resto se lui la odiava? Lei l’aveva odiato da sempre, quindi niente di più naturale che l’odio finisse con il diventare reciproco, già. E per il fatto che non riusciva a scordare quegli occhi colmi di furia, beh, non era importante nemmeno quello. Anzi, era un bene! Se preso dalla rabbia lui avesse smesso di allenarla, non sarebbe stata lei a fare il primo passo indietro…

‘Mi considera un’incapace.’

Che importanza aveva? Non aveva mai desiderato esser considerata qualcosa di diverso da lui, no?

“Tutto bene?”

Akane sobbalzò, spaventata per la voce che dal buio la sorprese. Sgranò gli occhi e sconcertata si ritrovò a fissare il volto grazioso della sconosciuta giunta a corte solo da qualche giorno.

Batté le palpebre, non potendo impedirsi di arrossire: che razza di combattente era se una semplice cameriera poteva coglierla così alla sprovvista?! Il principe aveva ragione a lamentarsi di lei!

La ragazza era come sempre vestita con un candido abito bianco, la cui nitidezza sembrava fatta apposta per farla risaltare nelle ombre della stanza deserta. Le stava ritta dinanzi, il volto sereno e l’espressione indifferente, o forse no, non era poi così impassibile. Una leggera curiosità le atteggiava il bel viso, chinato su di lei in paziente attesa che le rispondesse.

Akane si schiarì la gola per superare la sorpresa della vera e propria apparizione “Ehm, sì sto bene. Non ti ho sentito entrare” le disse, lanciando un’occhiata alla porta lasciata appena dischiusa poco più in là.

“Eri impegnata a guardarti le mani – le spiegò l’altra senza batter ciglio – Sei ferita.

Non era una domanda e Akane non poté negare. Si alzò, abbassando vergognosa il viso e scrollò le spalle “Non è nulla. Un taglio insignificante” borbottò, le gote infiammate per lo sdegno. Provò a nascondere la mano sanguinante dietro alla schiena, pur sapendo quanto a quel punto fosse inutile un gesto simile.

La sconosciuta non replicò subito, poi con decisione le afferrò il braccio e lo tirò a sé e prima che Akane potesse reagire, le prese la mano ferita tra le sue. Il primo istinto della schiava fu quello di ritrarsi, ma la presa era sorprendentemente salda, così come fermo apparve il suo sguardo a malapena visibile in quella penombra imperante. “Fa’ giudicare me” le disse, il tono sempre pacato.

Le scostò la benda improvvisata e non parve molto impressionata dal profondo taglio che segnava il palmo dell’altra. Incurante, le stese le dita e per un bizzarro istante Akane pensò che volesse leggerle il futuro, tanto era concentrato il suo sguardo, poi la vide annuire “Un’ustione. La pelle scottata è facile a tagliarsi. Devi ripulire il taglio e fasciarti con qualcosa di più consono.

“Lo so” asserì Akane, irritata. Non aveva bisogno di consigli, non da una perfetta sconosciuta per lo meno! Ritirò finalmente la mano e la rimise dietro alla schiena, allontanandola dallo sguardo critico della cameriera. “Cosa vuoi da me?” le domandò imbronciata.

L’altra non parve accorgersi del suo malumore. “Niente – rispose semplicemente – Ti ho visto ed ho pensato che avessi bisogno d’aiuto. Ora però ti lascio sola, anche se ti consiglierei di scegliere un altro luogo dove nasconderti, visto che questa stanza non è lontana dalle cucine. Detto questo, inchinò leggermente il capo in un breve cenno di saluto e ritornò verso la porta da cui era entrata.

Akane si sentì perfino peggio, se possibile. Stava diventando arrogante proprio come il suo padrone, forse? Gridare contro chi le prestava attenzione stava diventando quasi un'abitudine, si disse ripensando allo sfogo con Ame qualche giorno prima. In fondo quella ragazza aveva solo voluto darle una mano. Non era colpa sua se non poteva rifugiarsi nella camera che di solito divideva con il principe, così come non era colpa della diafana cameriera che lui le avesse praticamente urlato di sparire dalla sua vista.

“Ehi, scusa! – la richiamò quando l’altra era quasi uscita del tutto – Non dovevo reagire così! Perdonami!”

La ragazza si volse a guardarla e per la prima volta sul suo viso comparve una vera espressione: sembrò quasi stupita. Batté le palpebre un paio di volte, le labbra appena dischiuse, poi riprese il controllo di se stessa e la maschera cordiale ed impassibile di prima tornò al proprio posto.

“Chiedi ad una cuoca di darti dell'olio di chin-ssu-ts’ao.(*)” fu tutto quello che disse prima di sparire definitivamente. Confusa, Akane restò a fissare lo specchio della porta, vuoto.

Quando molto più tardi Akane ritornò nella camera del principe, la mano aveva smesso di sanguinare già da un po’, invece il ricordo della strana ragazza non l'abbandonava. Non ne poteva esser certa, ma le era parsa quasi stupita dalle sue scuse, come se non fosse avvezza ad esserne oggetto. Ora capiva perfettamente cosa avevano voluto dire le altre donne quel giorno in cucina, circa la tristezza che avvolgeva quella ragazza come un’aura. Così forte da serrare il petto.

Possibile, si chiese con allarmante ingenuità, che anche le persone libere potessero essere infelici fino al punto di irradiare la propria infelicità in maniera così… fisica? Il cugino del principe, il signor Ryoga, a volte sembrava emanare portentose onde depressive, così palpabili da essere oggetto di scherno da parte dell’erede al trono e del capitano Taro, ma era diverso: per quanto depresso potesse essere il ragazzo, la malinconia che seguiva quella giovane era così totale da sembrarle quasi connaturata. Come se l’infelicità le si fosse radicata dentro.

Rabbrividì al pensiero, provando un’immensa compassione per la giovane sventurata. Persino lei aveva pensieri gradevoli a cui aggrapparsi, persino la sua vita aveva luci che le scaldavano il cuore… E poi aveva uno scopo! Anzi, pensò la schiava spingendo la pesante anta della porta intarsiata della camera principesca, ne aveva più di uno a ben vedere.

La vendetta e la ricerca della sua famiglia erano primarie, ma anche riuscire ad afferrare quelle maledette castagne per sbatterle sull’arrogante grugno del principe stava assumendo un’importanza capitale a quel punto.

Sollevò gli occhi pensosi nella camera inondata dal sole pomeridiano e stupita si ritrovò proprio a faccia a faccia con il suddetto grugno regale. Regale e ancora arrabbiato, evidentemente. Gli occhi cobalto infatti la attraversarono con freddezza e la stessa postura del ragazzo indicava una rabbia a malapena trattenuta. Teneva le braccia incrociate al petto e le labbra strette in una pallida linea sottile. Le ampie spalle erano irrigidite, come dura appariva la linea della mascella serrata. Insomma, Akane ebbe l'impressione di trovarsi a cospetto dell’insofferenza personificata.

Sentendosi inspiegabilmente in colpa, la giovane schiava deglutì nervosa: che fosse irritato perché disubbidendo ad un suo ordine gli si era presentata dinanzi?

“Dove diavolo eri?” più che domandarglielo, Ranma le ringhiò contro.

“Eh?” fu la pronta risposta che ottenne.

“Ti ho cercato ovunque, persino nella stanza di Obaba! Dove ti eri nascosta?” tornò a chiederle, ancor più irritato dalla sua espressione stupita.

Ma lei mi ha detto…” cominciò flebilmente Akane, prima che lui sbuffando la interrompesse.

“Se, se, lasciamo perdere. Hai medicato la mano?” senza aspettare risposta, le si avvicinò per afferrarle il polso e sollevarle il braccio.

Era la seconda volta che le accadeva quel giorno, ma stavolta la ragazza non ebbe l’impressione che il principe volesse leggerle il futuro: a giudicare dal suo sguardo critico, si aspettava un ennesimo disastro. Fu lieta quindi di vederlo stupirsi quando scostata la benda pulita che le ricopriva il taglio, si accorse dell’ottimo lavoro fatto.

Cosa è che ti colora di rosso la pelle?”

“Olio di chin-ssu-ts’ao. E’ ottimo per le scottature, oltre che per la preparazione di liquori e se non sbaglio dovrebbe anche avere qualche potere magico.

Ranma inarcò un sopracciglio “Conosci il potere curativo delle erbe? Lo ignoravo… Bene, qualcosa sai anche tu, quindi.

Akane distolse imbarazzata lo sguardo. Era stata una delle cuoche più anziane a spiegarle alcune delle virtù della pianta che Hikage le aveva suggerito. Ed era stata sempre la simpatica cuoca a dirle il nome dell’ultima arrivata a palazzo. “Non credi che sia un nome molto adatto a lei, Akane?”(**) le aveva chiesto con un sorriso, prima di fasciarle la mano con una candida benda in lino.

“Quanto ci metterà a guarire?” le domandò brusco il padrone, anche se era visibilmente meno furioso di prima, anzi, forse si sbagliava, ma le sembrò persino sollevato. Parte della rigidezza della sua posa era svanita e, cosa strana, continuava a tenerle la mano tra le proprie con delicatezza.

“Occorreranno un paio di giorni affinché rimargini, qualcuno in più per riavere la completa mobilità della mano. Probabilmente guarirà del tutto in una decina di giorni” spiegò solerte lei, riportando le parole della cuoca. Non riusciva a staccare lo sguardo dalle loro mani unite e quel sollievo che aveva riconosciuto in lui adesso le allargava il cuore: non era più arrabbiato con lei!

“Spero che questo ti serva di lezione! – Ranma sospirò – Ti avevo detto di non riprovarci, non con la pelle così scottata! Devi ascoltarmi, la prossima volta potresti danneggiarti irrimediabilmente, è questo che vuoi? Andare in giro con un uncino al posto della mano? Certo, il tuo fascino forse se ne gioverebbe…”

Gli occhi di Akane saettarono all’insù, specchiandosi in quelli di lui. Un sorriso spontaneo le sollevò gli angoli della bocca: era tornato, il tono canzonatorio. Ed era bello sentirlo perché significava che non avrebbe smesso di allenarla. Non l’avrebbe più scacciata…

“Allora, prometti di non fare più di testa tua?”

Come sembrava ansiosa la sua voce! Possibile che si fosse impensierito per lei? Possibile che tenesse alla sua mano, perché in fondo era a lei che teneva?

Al sol pensiero, le sue guance esplosero e in risposta anche quelle di Ranma divennero vermiglie. Imbarazzato, lasciò andare finalmente la mano che quasi non s’era accorto di tenere ancora e si allontanò, bofonchiando che era tempo di prepararsi per la cena.

Quella sera, al contrario di quanto accadeva dall’inizio degli allenamenti, Ranma cenò nella sua camera.

 

--- --- ---

Da quel giorno Akane ebbe la sensazione di incappare in Hikage di continuo. La incrociava nei corridoi, nelle cucine e ovviamente nella camera di Ranko che a malapena sopportava la sua presenza, visto che come le era stato più volte precisato, la cameriera l’avrebbe seguita a Ryugenzawa; non che avesse qualcosa di personale contro di lei, ma la giovane principessa proprio non riusciva ad arrendersi all’idea dell’imminente matrimonio, infischiandosene delle rassicurazioni del padre sull’avvenenza e la gentilezza del futuro sposo. Ranko dubitava che suo padre ricordasse persino il nome del ragazzo…

Dal canto suo la cameriera compiva diligentemente ogni incombenza richiestale, del tutto indifferente alle proteste di Ranko e ai suoi continui rimbrotti. Si limitava ad ascoltare le lamentele della principessa con il suo sguardo pacato e indifferente, l’espressione impassibile di sempre. Alla fine, persino Ranko si arrese di fronte a tanta freddezza e quasi rassegnata, se pur non del tutto doma, cominciò a trattare la sua cameriera con maggiore riguardo e gentilezza.

Non che questo cambiamento parve essere recepito da Hikage che continuò il suo lavoro con il solito silenzioso zelo.

Libera dagli allenamenti affinché la mano potesse guarire del tutto, Akane si trovò con molto tempo a disposizione e molto poco da fare. Il principe Ranma aveva ripreso ad allenarsi con Obaba ed il signor Ryoga e così a lei non era rimasto altro che dividere le lunghe ore di noia con la principessa, sempre che lei fosse libera dai suoi soffocanti studi sull’etichetta e su Ryugenzawa: sembrava che conoscere ogni anfratto del suo futuro regno fosse un dovere irrinunciabile, a dar credito alla regina Nodoka.

Ma anche quando Akane non era in compagnia di Ranko e si aggirava per la reggia in cerca di qualcosa da fare, le capitava sempre più spesso di incontrare il volto solenne e serio di Hikage. All’inizio si limitava a salutarla con un cenno del capo, ricevendone uno identico in risposta, ma quando gli incontri cominciarono a diventare più frequenti, Akane decise che fosse arrivato il momento di scambiare qualche parola con lei. Non voleva ammetterlo, ma proprio come le pettegole in cucina, anche lei era molto curiosa sulla nuova arrivata.

Colse l’occasione di avvicinarla, quando, ad una settimana dal suo arrivo a palazzo, passeggiando in uno dei tanti cortili interni, la vide seduta su una delle panche di pietra che lo circondavano. Era strano vederla non occupata in una delle tante incombenze affidatele da Maya o dalla stessa Ranko; sembrava particolarmente assorta nell’osservare l’aiuola debordante di fiori, le sottili sopracciglia appena corrugate e le labbra strette in una linea sottile e severa. Chissà quali pensieri le si affollavano dietro quell’espressione accigliata.

“Salve” Akane le sorrise con calore, quando lei alzò il volto per guardarla. Non sembrò stupita nel trovarsela di fronte.

“Salve” ricambiò il saluto. Aveva davvero una voce profonda, pensò la schiava.

“Ti disturbo? Avevi un’espressione tanto assorta…”

Hikage si limitò a scuotere il capo poi, come se ci avesse pensato su solo in un secondo momento, le indicò la panca, invitandola a sederle accanto. Akane accettò, mentre il suo sorriso si affievoliva visibilmente.

C’era uno strano silenzio in quel cortile, o forse a lei sembrò particolarmente compatto per la presenza dell’altra ragazza. Si schiarì la voce, nel tentativo di dissipare quella atmosfera tesa. “Sei libera?” le domandò la prima cosa che le venne in mente, sperando che stavolta Hikage non rispondesse solo a gesti.

“La principessa è occupata con i suoi studi. Non c’è bisogno di me” spiegò semplicemente l’altra, con somma soddisfazione di Akane.

“Anch’io non ho molto da fare… Anzi, sono un po’ annoiata a dire il vero!”

Hikage la guardò per alcuni istanti, uno sguardo penetrante che fece sentire la schiava particolarmente esposta. Quasi si pentì di aver avvicinato la cameriera, ma fu questione di pochi istanti.

“Il principe sta allenandosi con suo cugino?”

“Già e a quanto pare non gli serve una spettatrice.”

“Vorresti stare con lui?”

Akane batté le palpebre, mentre un rossore violento le si diffuse sul viso. Confusa ed imbarazzata, scosse il capo con decisione “No, no! Assolutamente! Non c’è niente che vorrei di meno, anzi! Come hai… no! Non lo voglio!” sapeva di star straparlando, ma era più forte di lei. La completata mancanza di malizia in quella domanda la confondeva più delle allusioni delle donne a cui era quasi abituata. Inspirò profondamente, per riacquistare il controllo di sé e poi sorrise, gentile.

“In verità lo verrei, perché così potrei allenarmi… non per altri motivi, è ovvio” specificò poi in tutta fretta.

Hikage abbassò lo sguardo sulle mani congiunte di Akane, poi i suoi occhi cupi tornarono a fissarsi su di lei “Quella ferita… ha a che fare con i tuoi allenamenti?”

“In un certo senso. – Akane sollevò la mano ancora bendata e gliela mostrò – Ho seguito il tuo consiglio e sta guarendo molto rapidamente, ti ringrazio ancora… e ancora mi scuso per averti urlato contro, sono stata scortese.

La cameriera tornò ad aggrottare le sopracciglia sottili, come se toccasse a lei essere confusa adesso “Ti sei già scusata, perché lo fai di nuovo?” le domandò, chiaramente perplessa.

“Ecco… mi sono comportata davvero in maniera odiosa e allora… Sei a corte da pochi giorni e non conosci molte persone, ti sentirai un’estranea… ed urlarti contro non è certo il miglior modo per farti sentire a tuo agio.

Il silenzio calò di nuovo e stavolta Akane ebbe la netta sensazione di esser soppesata dalla taciturna ragazza che continuava a fissarla con lieve interesse. Poi, improvviso, un piccolo, timido sorriso distese le labbra della giovane e fu come vedere il sole filtrare tra le nubi.

Stupita Akane tornò a battere le palpebre, colpita da quella vera e propria visione; le venne in mente la frase che il principe le aveva rivolto tempo prima… Sei più carina quando sorridi… beh, era proprio quello che avrebbe voluto dire all’altra ragazza, ma così come era comparso, il sorriso scemò via fugace, lasciando però una dolce rilassatezza nei tratti della giovane che ora sembrava meno turbata di quando l’aveva avvicinata. “Sei una persona gentile” asserì con naturalezza, quasi ad esporre un’ovvietà, ed era proprio questo suo tono crudamente schietto ad imbarazzare Akane ancor di più.

“Io… non so se… ecco, gentile non è proprio la parola adatta a…” ecco, stava di nuovo parlando a sproposito!

“Ti alleni in qualche arte marziale particolare?” domandò poi di colpo l’altra, prendendola alla sprovvista.

“Uhm? Conosci le arti marziali?” quello poi!

“Un po’…” rispose vaga Hikage distogliendo un momento gli occhi, poi tornò a guardarla, genuinamente interessata “So che sei stata cresciuta da quell’amazzone giunta con te a corte. Deve averti insegnato molte tecniche interessanti del suo popolo. Sai combattere?”

“Beh, il principe non la pensa così – Akane tornò a guardarsi di sfuggita la mano, poi si strinse nelle spalle – ma non sono tanto incapace quanto lui dice… anche se purtroppo devo ammettere che con lui non avrei alcuna possibilità. E’ molto veloce, ed è forte, anche più di quel che sembra… ed è scaltro! Riesce a capire subito qual è il punto debole del suo avversario e poi lo usa contro di lui! Ma con questo non voglio dire che sia sleale! E’ solo… ecco, è furbo, ma ama le arti marziali. Credo che non ci sia niente che ami di più.

Ancora quello sguardo penetrante che parve attraversare la giovane schiava, scrutandone il volto con attenzione “Lo ami?”

Gli occhi di Akane stavolta si spalancarono tanto da farle quasi male. Il rossore stavolta non si limitò a infuocarle le guance, ma esplose violento sull’intero viso; sentì una morsa serrarle la bocca dello stomaco con tale violenza da impedirle di ribattere subito che no, certo che no! Lei odiava il principe, lo detestava! Come le poteva mai venire in mente una cosa simile?! Era assurdo!

Con orrore si accorse che preziosi secondi passarono prima che trovasse la forza di scuotere il capo con veemenza. Oh numi divini! Una smentita tanto flebile di certo sarebbe sembrata sospetta… Deglutì con forza, riconquistando il fiato sufficiente a rispondere “No. Lo odio. Sperò che risuonasse convincente alle orecchie dell’altra almeno quanto lo era alle proprie.

Batté le palpebre e quasi intimidita ritornò a fissare il volto serio di Hikage. Dalla sua espressione indecifrabile non riuscì a capire se le avesse creduto o meno. “Sei… sei sempre così brutalmente diretta?” le domandò con un briciolo di voce. Non era stata la domanda in sé a sconvolgerla, dopotutto allusioni su lei e Ranma erano frequenti, persino da parte di Obaba che più di una volta scherzosamente le ricordava come il ragazzo fosse in debito di un bacio prescritto dal Codice delle Amazzoni.

Quello che l’aveva sconcertata era la certezza pressoché assoluta che Hikage conoscesse già la risposta a quella domanda. Lei sapeva… forse lo sapeva anche meglio di se stessa.

Akane non era sciocca e già tempo aveva compreso che ciò provava per il suo padrone non poteva definirsi odio, ma capirlo ed ammetterlo non erano la stessa cosa e lei non era pronta ad affrontare la realtà dei fatti. Voleva ancora illudersi che non odiarlo non significasse di per sé amarlo. Poteva chiudere gli occhi e fingere di detestarlo e che magari, continuando a ripeterlo, ciò sarebbe diventata la realtà.

La domanda di Hikage e il suo sguardo tranquillo ed implacabile al tempo stesso l’avevano messa con le spalle al muro, perché, per quanto assurdo potesse essere, lei sapeva… Le era penetrata dentro, nonostante fosse un’estranea. Con un brivido terrorizzato, Akane si chiese se anche per tutti gli altri fosse così facile leggerle dentro, superare le sue barriere e capire quello che ancora lei tentava di nascondere, prima di tutto a sé.

“Non ti chiederò più nulla del genere fino a che non sarai pronta.

La schiava dell’erede al trono aggrottò le sopracciglia: che voleva mai dire una frase tanto enigmatica? Quella Hikage era davvero una persona particolare… Strana, ma proprio per questo interessante. Nonostante l’imbarazzo provato e il disagio, Akane sorrise, contenta ora d’averla avvicinata.

Dentro di lei prepotente nasceva il desiderio di penetrare quel mistero, quella stranezza.

“Hikage, ti va di essere mia amica?”

 

--- --- ---

 

Nessuno gliel’aveva mai chiesto.

E’ strano, il potere che avevano le parole era davvero strano. Sapevano ferire, e questo lo aveva imparato presto; nella sua vita, se pur breve, di parole feroci ce n’erano state tante, troppe fino a che aveva imparato ad ignorarle… o a credere ad esse. Alla fine fanno meno male, le offese, se non le consideri tali.

Ti dicono che sei orribile, ma soffri solo se pensi che non sia vero, perché se sei orribile davvero allora non ti stanno facendo del male, ti stanno solo dicendo la verità. Questo Konatsu, o Hikage come la conoscevano nel palazzo di Augusta, lo aveva imparato presto e la sofferenza per le parole cattive era diventata sempre più sopportabile, fino a quando non aveva più sentito dolore. E non solo quello.

Oramai non provava nulla. Ed era un bene, visto il suo compito. Uccidere e provare dolore non erano una buona accoppiata e lui dopotutto quello era, un assassino privo di sentimento. Privo di cuore: non solo di sentimenti buoni, ma d’ogni tipo di emozione. Freddo. Solo.

Ma le parole avevano anche un altro potere. Quello di coglierti alla sprovvista, di mostrarti una realtà che non si conosce fino a quando questa non si palesa. E questo era accaduto con Akane, quando lei gli aveva chiesto di diventare sua amica: le aveva mostrato che l’amicizia esisteva, anche se lui non la conosceva.

Era strano… e crudele, persino più crudele del non avere sentimenti. Perché ora Konatsu sapeva che l’amicizia esisteva, ma che non gli era permesso provarla… sentirla. Perché era tutta una finzione. Un bugiaLui era una finzione.

Akane aveva chiesto ad Hikage la cameriera di essere sua amica, non a Konatsu, non all’assassino pagato per ucciderla. Non l’aveva avvicinata per quello, non era il calore umano che lui cercava; doveva spiarla, seguire i suoi movimenti e scoprire le sue abitudini affinché potesse compiere il suo lavoro, ma non aveva previsto che lei offrisse amicizia al suo alter ego… Non che questo cambiasse i suoi piani. Avrebbe ucciso Akane, di certo. Occorreva solo aspettare il momento opportuno e poi l’avrebbe fatto, senza alcun rimpianto. Del resto come poteva provare un sentimento che non conosceva? Come l’amicizia che lei gli aveva offerto con tanto slancio.

Aveva annuito, perché sapeva che questo Akane si aspettava da lui, o meglio, da lei. E curioso l’aveva vista sorridere con calore e trasporto.

Era davvero strano il potere delle parole…

 

--- --- ---

 

Avrebbe tanto voluto dire che era stato un caso, un incidente. Gli sarebbe piaciuto affermare in tutta sincerità che quanto accaduto non fosse frutto di un desiderio inconscio. Ma Konatsu non poteva mentire, non sapeva mentire, persino a se stesso. Nonostante la sua intera vita in quegli ultimi tempi fosse tutta una simulazione, anzi, forse proprio per questo, almeno con se stesso era sincero fino allo spasimo perché altrimenti la finzione sarebbe diventata troppo allettante e gli avrebbe fatto perdere di vista la sua missione: essere Hikage era troppo bello per dimenticare che in realtà lui era un assassino, pagato per uccidere colei che sempre più spazio stava occupando nella sua vita.

Per un po’ aveva persino sospettato di essersi innamorato di Akane. Non era così e il sollievo provato solo in parte aveva alleviato il peso che sempre più greve stava formandosi in lui, in quel posto fino ad allora sconosciuto che altri definivano anima e che lui non aveva mai avuto la percezione di possedere, figurarsi dargli un nome.

No, non amava Akane, ma questo non avrebbe reso più facile l’ucciderla. E poi era accaduto. Lei l’aveva scoperto, parte della messinscena era stata smascherata per quello che poteva sembrare un caso, un incidente… ma Konatsu sapeva che nel profondo di sé, in quel luogo che altri chiamavano anima, aveva desiderato che ciò avvenisse, che lei scoprisse il fatto che in realtà era un uomo.

Non sapeva che Akane era incapace di nuotare, non l’avrebbe mai nemmeno sospettato. Sapeva tante altre cose di lei, cose che lei stessa gli aveva detto o che aveva intuito da solo: sapeva che Akane nascondeva qualcosa, qualcosa di talmente importante che avrebbe sconvolto la sua intera esistenza; sapeva anche che era gentile, nonostante i modi a volte bruschi. Sapeva anche che era innamorata, lei per davvero, del suo padrone e che si ostinava a negarlo. Per paura di non riuscire a reggere la sofferenza.

Il principe probabilmente non l’aveva ancora compreso, troppo confuso dai propri sentimenti sulla giovane schiava per prestare attenzione ad altro. Teneva a lei, questo era fin troppo ovvio, lo si leggeva nel suo sguardo tumultuoso quando si posava su lei, in quegli occhi che la cercavano ovunque quando non era al suo fianco. E più cattive erano le sue parole, più i suoi occhi diventavano ardenti e pieni di desiderio. Desiderare qualcosa che in teoria di appartiene ma che per timidezza non riesci nemmeno a sfiorare… non doveva esser facile per il principe provare emozioni tanto contrastanti.

Ma nonostante avesse appreso e compreso tante cose su Akane, Konatsu ignorava che non sapesse reggersi a galla. Così quando l’aveva vista andare giù, sparire sotto la superficie fredda e scura del lago, per alcuni attoniti istanti era rimasto immobile e guardare quel punto, stupito del fatto che non riaffiorasse. Solo quando le increspature sull’acqua erano sparite, segno che lei non stava più dibattendosi per risalire, si era domandato se per caso la ragazza non stesse affogando.

Si era tuffato nel piccolo lago prima ancora di rispondersi e dopo aver riempito i polmoni della prima aria autunnale, si era inoltrato tra la massa scura e minacciosa dell’acqua melmosa, ma per fortuna non molto profonda. Aveva arrancato alla cieca, fino a quando la sua mano aveva sfiorato qualcosa di soffice e lo aveva attirato a sé, scoprendo con sollievo che si trattava proprio del braccio di Akane. Lottando con la necessità d’aria, Konatsu aveva nuotato verso l’alto, o almeno aveva sperato fosse quella la superficie, seguendo un pallido chiarore.

Riemergendo dall’acqua gelida, aveva respirato a fondo, riempiendo i polmoni contratti e senza perder tempo per osservare la sua zavorra umana, si era diretto alla riva non lontana, accompagnato dalle grida terrorizzate delle altre donne; aveva avuto la fugace visione del volto di Ame sconvolto e rigato dalle lacrime, prima che parecchie mani lo afferrassero e lo trascinassero sul duro terreno. Ansimando, solo a quel punto si era deciso a voltarsi verso Akane e ne aveva notato il colorito pallido, quasi violaceo della pelle e delle labbra. Akane stava morendo…

Come un fulmine, la vecchia Obaba era avanzata dal muro di donne atterrite e un suo dito adunco si era poggiato al centro del petto immobile di Akane, il volto più corrugato del solito, ma, Konatsu l’aveva notato con un altro flotto di sollievo ad inondargli il cuore, non allarmato. E Akane aveva ripreso a respirare, rantolando all’inizio e tossendo via l’acqua che aveva ingoiato, infine aveva aperto gli occhi, lucidi e febbrili per il terrore provato.

Aveva guardato la sua maestra per prima, poi i due occhi color caramello avevano vagato tra i visi delle donne fino a fermarsi su quello di Konatsu e le sue labbra, ora meno pallide, si erano mosse senza emettere alcun suono. A Konatsu era parso di leggere un grazie su quelle labbra silenziose.

Pochi minuti dopo, avvolti in numerosi teli e lasciati soli dietro espresso ordine dell’amazzone, Akane aveva finalmente ritrovato la voce, non per ringraziarlo ancora, ma per domandargli se era un uomo. Konatsu l’aveva guardata, sconcertato e stupito, ma non aveva avuto il coraggio di mentirle. Aveva semplicemente annuito con il capo e aveva abbassato lo sguardo.

“Non so perché tu debba fingerti ciò che non sei, ma non temere, non lo dirò a nessuno” aveva mormorato la ragazza, le mani pallide strette attorno ai lembi dei teli che la avvolgevano nel tentativo di ridarle calore.

“Non vuoi sapere il perché?” le aveva chiesto, quasi desiderando che lo facesse, ma Akane aveva scosso il capo, alcune ciocche le si erano appiccicate al viso. Solo le gote erano accese, risaltando violentemente contro l’incarnato ancora niveo di chi è scampato alla morte.

“No. Non m’importa se sei un uomo in realtà, anzi, perdonami se ti ho costretto a dirmi la verità, ma per me non cambia nulla: sei un’amica… anzi, un amico… e sei colui a cui devo la vita.”

Konatsu aveva battuto le palpebre: solo in quel momento si era reso conto di aver salvato Akane.

Un dolore nuovo e mai provato gli aveva serrato il petto. Rimorso? Forse, non ne aveva mai provato prima. Ma cos’altro poteva dargli tanta sofferenza al pensiero di aver sì salvato la ragazza, solo per poi ucciderla con le proprie mani?

Quasi sarebbe stato meglio lasciarla morire così, lasciandola in un sonno eterno cullata dalle acque del piccolo lago non lontano dal palazzo reale… Ma Obaba non avrebbe permesso che ciò accadesse, si disse il ninja lanciando uno sguardo alla vecchia amazzone, impegnata a raccogliere piccoli ramoscelli per accendere un fuoco. Certo, la maestra avrebbe salvato Akane, perché non ci aveva pensato? Perché si era tuffato in acqua senza considerare che stringendo a sé l’amica, lei avrebbe potuto accorgersi del suo corpo maschile?

Il dubbio che avesse voluto esser scoperto lo tormentò non poco.

 

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Note:

(*)Chin-ssu-ts’ao: nome cinese dell’iperico, pianta conosciuta anche come Erba di San Giovanni. Il suo nome proviene dal latino hypericon, “sotto l’erica”. Varie le proprietà medicamentose che gli si attribuiscono fin dall’antichità: all’epoca delle Crociate, era ritenuto capace di guarire le ferite da spada; nel Settecento è ben noto agli spadaccini il balsamo del cavaliere di San Vittorio, a base di Iperico ed altre erbe, che si diceva guarisse qualsiasi ferita di lama. Tra le virtù dell’iperico si annoverano anche la cura dei morsi di serpenti, nonché l’epilessia. L’olio di Iperico, che viene chiamato “erba da fuoco”, viene ritenuto molto efficace nel caso di ustioni anche gravi. In cucina non è usato per particolari ricette, ma viene invece utilizzato come aromatizzante per liquori e innocuo colorante. Non sono riuscita a trovare il nome giapponese, popolare o meno, dell’iperico, per questo ho optato per quello cinese, anche perché ITMH non è ambientato in Giappone… in effetti si tratta di un mondo immaginario, per cui datemi per buona questa piccola licenza linguistica, please!(fonti varie, per lo più wikipedia.

(**) Hikage in giapponese significa “ombra”.

 

Carla’s corner

Salve gente! Lo so, sono letteralmente sparita dall’etere, nonostante avessi promesso di non farlo… sigh, che dire se non che, naturalmente, mi spiace tantissimo? Odio non mantenere le promesse e anche se qualche scusante ce l’ho, non voglio sottrarmi alle mie responsabilità, per cui se volete scagliarmi addosso pomodori e ortaggi vari, prego, accomodatevi pure.

In segno di buona volontà, ho pensato di postare non uno, ma ben quattro capitoli nuovi in una sola volta: il tanto atteso capitolo 13 di ITMH e i primi tre della nuova fiction, L’Ultimo desiderio (titolo che nel sondaggio proposto tempo fa a stravinto a mani basse). In realtà c’è un motivo valido per questa sbornia, per cui vi prego di non aspettarvi aggiornamenti così sostanziosi tanto spesso ^_^;. Il fatto è che avendo disdetto il mio fornitore ufficiale di internet, tra poco potrei restare senza linea per un po’, motivo per cui ho pensato di inviare tutto il materiale corretto in una sola volta, ma mi raccomando, centellinatelo con cura! Io proverò a non sparire più, ho anche rinnovato il mio abbonamento all’intenet-point che in un recente passato mi ha permesso di non esser tagliata fuori dal mondo virtuale in seguito a varie rotture tecnologiche. Per ora vi auguro buona lettura e vi chiedo ancora scusa.

Ah, dimenticavo: saluto tanto tanto la mia beta, la somma Cri aka Tiger eye, la dolcissima Mikki (hai ripreso il lavoro con i marmocchi?) e coloro che mi hanno commentato sul sito di manganet: vi assicuro che leggo con attenzione tutti i commenti postati, anche quelli per le mie fic più vecchie! Un saluto anche all’ultima arrivata, si fa per dire, cioè Flavia. Dedico questi capitoli a tutti voi che avete avuto la pazienza di aspettarmi e a tutti coloro che con gentilezza mi hanno chiesto che fine ho fatto. Grazie, infinitamente grazie.

Inoltre vorrei precisare che ho pubblicato questo 13° capitolo diITMH senza averlo sottoposto ancora al vaglio della mia fantastica beta. Ho alcuni dubbi in merito a qualcosa, quindi non è escluso che qualcosina potrebbe essere modificata in futuro, ma vi assicuro che non si tratta di cambiamenti che sconvolgeranno la trama, ma solo di scelte per così dire stilistiche. Ancora grazie per l'attenzione!

  
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