Nuova Zelanda,
gennaio 2002
Ore 19.40
-Domani
a quest’ora sarò sull’aereo per casa.-
pensò ad alta voce il moro, seduto sul
bordo del letto, i gomiti piantati sulle ginocchia, le mani che
strofinano il
viso, come se, cancellando dalla vista l’immagine della
partenza, potesse
cancellare la partenza stessa. La schiena è curva e tesa. Si
piega al peso
della stanchezza di quei due lunghi anni e mezzo che ha trascorso
lontana da
casa, dal suo amato, caldo, morbido letto; era nervosa per
l’impossibilità di
sciogliere i nodi che i muscoli sembravano aver voluto formare apposta,
in uno
dei pochi momenti che poteva rilassarsi e uscire dal mondo,
dimenticarsi del
resto, abbandonato per qualche ora fuori da quella
stanza.
Tra
ventiquattro ore sarebbe stato seduto sul sedile di un volo diretto che
l’avrebbe riportato nel Kent, la sua patria. Ventiquattro ore
e sarebbe finito
tutto, un’avventura, un lungo viaggio durato due anni e
mezzo, sarebbe svanito
tutto in un momento. O forse no. Avrebbe potuto… No, doveva
tornare a casa, da
sua madre. Aveva bisogno di lei e lei di lui. Doveva tornare, era
inutile
fuggire dal proprio passato: prima o tardi torna, sempre. E fa ancora
più male.
Non voleva ritardare, ma neanche dimenticare tutto, vedere il proprio
sogno
frantumarsi in mille schegge. Lentamente si voltò verso il
letto, dove steso
v’era l’altra parte di sé,
l’unica persona che fosse riuscita a rubargli il
cuore, a dargli un senso di completezza. Era la sua metà,
ciò che gli dava la
forza di andare avanti, di superare l’astio nei confronti del
padre, forse perché
lui stesso aveva ricoperto in quel periodo tale ruolo. I suoi occhi
azzurri lo
guardavano, distanti.
-Mi
mancherai.- disse lui, per poi tendergli una mano. Orlando sorrise e la
prese,
stringendola e soffermandosi a guardare le loro mani intrecciate, per
l’ultima
volta.
-Anche
tu, Viggo.- rispose per
poi rialzare lo
sguardo e trovare le labbra dell’amante (è questo
che sono?) a pochi millimetri
di distanza. Lo baciò con amore e passione, come aveva fatto
fino a quel
momento, e bisogno, un disperato bisogno di non vedere crollato il
proprio
sogno, il proprio amore. Eppure era sempre stato chiarissimo che tra
loro altro
non ci sarebbe stato che una relazione fisica, iniziata per puro caso,
in un
uggioso pomeriggio di ottobre.
Improvvisamente
si sentì afferrare per un fianco e stendere sotto il corpo
di Viggo. Per quanto
lo amasse e desiderasse, però, non voleva essere preso, non
così, e non
l’ultima loro sera insieme, non dopo la sua freddezza. Era
cambiato dal giorno
prima, non sembrava più lo stesso. E per quanto egli fosse
certo del proprio
amore, come poteva esserlo di quello dell’altro? E
voltò il viso dall’altra
parte, verso la porta, quasi volesse improvvisamente fuggire da
lì.
-No,
Viggo.- affermò senza guardarlo negli occhi. Gli istanti che
seguirono furono
carichi di silenzio e tensione. L’inglese sentiva
perfettamente lo sguardo del
danese su di sé, ma non fece niente. Non aveva voglia di
farsi prendere da lui,
non quella volta, non più. Voleva avere un bel ricordo
dell’uomo che più gli
era stato vicino in quell’ultimo periodo. E fare sesso con
lui, a nanche un
giorno dalla partenza avrebbe complicato e reso doloroso il distacco
ancora più
di quanto, per quanto riguardava lui, già non fosse.
L’uomo
allentò la presa e pochi istanti dopo Orlando
sentì freddo: era solo, nel
letto, senza il caldo corpo di Viggo a fargli da scudo e proteggerlo
dal mondo
fuori. Sentiva l’altro rivestirsi con
tranquillità, senza fretta, e questo lo
uccise. Sarebbe stata molto più semplice e immediata una
sfuriata, che il
silenzio e la finta illusione che fosse tutto normale, che tutto
andasse bene,
mentre, era evidente, qualcosa tra loro due si era rotto,
inevitabilmente e
inesorabilmente. Si alzò a sedere nuovmente sul letto e lo
osservò per qualche
minuto, nel più totale silenzio. Lo amava, nonostante avesse
promesso a se
stesso di non farlo, di non sbagliare, almeno quella volta. In
realtà non
sapeva se fosse amore vero o solo una fortissima amicizia con
l’implicazione
del sesso. Già perché il sesso era sempre stato
un problema per lui. E ora lo
era diventato a maggior ragione. Aveva rafforzato la loro
amicizia… o forse…
l’aveva resa ancora più fragile e sottile di
quanto già non fosse.
-Viggo…?-
pronunciò in un flebile sussurro, chiedendosi se ne valesse
davvero la pena di
metterlo al corrente di ciò che provava. No, molto
probabilmente gli avrebbe
riso in faccia. Quando però incontrò il suo
sguardo, curioso e sospeso
nell’aria, l’inglese sospirò.
Meglio non litigare, non l’ultima volta che si
sarebbero visti.
-Sì?-
domandò lui guardandolo, mentre si voltava e fermandosi,
come se da ciò che
avrebbe detto, sarebbero potute cambiare le cose.
-Grazie,
per questo.-
-Grazie
a te.- mormorò per poi riprendere a vestirsi. –Tu
non ti vesti? O aspetti il
prossimo?- chiese lui con voce sarcastica e un sorriso ironico dipinto
sulle
labbra.
-Che
stai dicendo?- chiese mentre si rivestiva, o meglio cercava i vestiti
per
indossarli, sparsi per la camera.
-Beh,
l’hai sempre saputo che tra noi non c’è
stato altro che sesso. Non mi stupirei
se nel frattempo ti fossi divertito anche con qualcun altro, qui
dentro. Non ti
biasimerei, d’altronde per me non sei stato altro che la mia
piccola puttana.-
-Beh,
ovvio. Ma per stasera non ho altri clienti.- rispose lui con voce
ferma,
meravigliandosi dei propri nervi saldi. Non poteva credere a cosa
avesse detto.
Tra loro c’era sempre e solo stata attrazione fisica senza
alcun coinvolgimento
emotivo che superasse la semplice amicizia, lo sapeva.
Perché allora faceva
così male?
Vide
il biondo chinare il capo, come se le sue parole avessero potuto
ferirlo
davvero. Annuì tra se stesso, come se solo in
quell’istante avesse compreso una
verità evidente, e se ne andò chiudendo
violentemente la porta.
Orlando
rimase in camera e si rivestì. E scese in cucina a farsi un
caffè nero, amaro,
come le parole dell’uomo e come le lacrime che,sapeva,
avrebbero solcato il
proprio viso una volta che quel fottuto aereo fosse partito.