Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Eryca    13/02/2013    7 recensioni
Intorno a me la guerriglia continua a impazzare e capisco che non ho molto tempo per prendere una decisione. Qualcosa – che non saprei definire – di assolutamente incontrollato, che va contro ogni mio ideale di razionalità, mi sussurra che quella ragazza merita di vivere.
Seguo il mio istinto, mandando in frantumi anni di studi.

**
Léon, giovane rivoluzionario, parte della nobiltà di toga, nonché seguace di Robespierre.
Amélie, giovane popolana, figlia di un ciabattino.
Un amore costruito sull'odio.
Dietro di loro, un panorama carico di morte e odio, in una Francia dove la Rivoluzione si infiamma e lascia una scia di cadaveri dietro di sé.
Genere: Romantico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

2.

Fiamme rosse, i suoi capelli

 

Non ricordo il momento preciso in cui sono emersa dal fondo di un profondo pozzo nero, in cui niente aveva un senso eppure tutto sembrava averne, per ritrovarmi a fissare un soffitto affrescato che mi fa pensare alla Francia quale città conosciuta in tutto il mondo – è così che dice William, il burattinaio inglese – per le sue sfarzose regge. Ho sempre sentito parlare delle magnifiche feste organizzate a Versailles, ma non ho mai potuto rendere l’idea astratta di tutto ciò concreta: io sono una popolana, sono un niente.

Mio padre parla spesso di rivoltarsi, citando il personaggio di spicco del momento, un certo Robespierre; dovrei essere d’accordo con lui e con il resto della mia gente, ma sono indignata nel vedere come egli parlamenti bene le sue tesi dicendo che “il popolo è sovrano”, per poi tornare alla sua vita agiata, alle sue cariche amministrative.

Sostiene che lui è come noi, ma allora perché non l’ho mai visto camminare tra le strade della periferia, sgobbare per guadagnarsi un pezzo di pane? Perché – se lui è come noi – indossa le vesti di un aristocratico e dorme in un letto confortevole?

Perché, perché, perché – se lui è come noi – guarda da lontano la rivolta, al sicuro, mentre le persone muoiono mutilate, massacrate, sbudellate?

Sento il viso bagnato e mi rendo conto che una lacrima sta scorrendo sul mio viso. Erano anni che non mi sfogavo in questo modo: io non sono una di quelle nobildonne capricciose che possono permettersi di piagnucolare perché non hanno ricevuto il tè. No. Io mi alzo quando il sole sorge, mi tiro su le maniche della vecchia veste scolorita e mi appresto a lavorare, perché mio padre – quel pover’uomo – non può fare tutto da solo; Bastien – Bastien, piccolo mio, dove sei? – è così piccolo che lavora occasionalmente e mia madre è morta durante il suo secondo parto.

Continuo a tenere gli occhi puntati sul grosso disegno a muro. L’affresco è così bello che sembra essere stato dipinto da una mano divina: tutto il soffitto è blu a rappresentare il cielo e due putti si abbracciano al centro della scena, contornati da nuvolette dorate, mentre altre figure angeliche svolazzano. Non avevo mai visto una parete dipinta, ne avevo solo sentito parlare, e ora fisso sconvolta l’opera d’arte, mentre mi rendo conto di essere sdraiata su un letto.

Un letto.

Non una brandina in legno, così rigida che potrebbe far venire il mal di schiena a chiunque.

Un letto.

Il panico – che era rimasto assopito – si impadronisce del mio corpo e non mi dà la possibilità di avere un buon risveglio. Il fatto che solo i ricchi possano permettersi un letto – un letto, ma è possibile che sia un vero letto? – mi rende impossibile pensare di trovarmi in una casa popolare. Mon Dieu, dove sono finita?

Mi metto a sedere sul comodo materasso – che splendida sensazione – e mi rendo conto che l’affresco non è l’unico elemento aristocratico della stanza: pregiati arazzi in velluto rosso oscurano la finestra e mobili in legno cerato decorano lo spazio.

Mi porto le mani alla testa e premo sulle meningi, cercando di affievolire il dolore lancinante e ricordare come ho fatto ad arrivare in questo posto. Ricordo, come se fossero ancora presenti, il fumo, la folla e la paura di non poter trovare Bastien.

Bastien.

Il suo nome mi provoca una fitta allo stomaco e il senso di colpa non tarda ad arrivare, portandosi con sé lo stimolo di piangere. Sono sempre stata una sorella premurosa, ho stretto la mano di Bastien come se fosse l’unico appiglio al mondo così tante volte che ora mi sembra impossibile non sentire le sue dita intrecciate alle mie.

Piango, mentre l’immagine del mio fratellino che mi prega di non lasciarlo da solo si fa spazio nella mia mente, quasi a voler aumentare il mio dolore.

Ed ecco che, proprio come ogni volta, iniziano a spuntare dalla terra sotto cui erano sepolti i “se avessi fatto”, pretendendo l’attenzione che meritano; ma io non ho proprio tempo per crogiolarmi nel rimorso, così uso il metodo migliore per spronarsi: mi colpisco in faccia con una forza che non mi è propria e riprendo il controllo.

Devo utilizzare il pragmatismo che è in me. Prima devo occuparmi di ciò che ha un’importanza vitale: capire dove mi trovo.

Sono sicura che questa casa appartiene all’uomo che mi ha messa in salvo.

Bene, Amélie Lebeau, puoi farcela, mi sprono scendendo dal grosso letto a baldacchino.

Noto senza stupore che indosso ancora la mia veste, più sporca e polverosa del solito a causa della brutta esperienza subita; cerco invano di scacciare via il ricordo di me stessa a terra, calpestata da decine di persone. Il mio corpo viene percorso da un’ondata di brividi.

La porta è pesante e devo impiegare tutte le mie forze per riuscire, infine, ad aprirla. Un corridoio buio, illuminato solo da alcuni candelabri, mi da il benvenuto nell’abitazione. Il soffitto è a cassettoni dorati e le pareti sono interamente dipinte con motivi orientali, secondo la moda del momento. Tutto questo sfarzo mi mette a disagio, io sono abituata a vivere in una squallida casa popolare, tra la paglia e un umile camino a scaldare le fredde notti invernali, non ho mai neanche visto un simile lusso prima d’ora. Dentro di me, emozioni contrastanti: la meraviglia di fronte ad un senso dell’estetica così raffinato dichiara guerra alla parte del mio cervello che rivendica il diritto del popolo di avere più cibo e meno tasse da pagare. Sì, anche io, in fondo, condivido gli ideali di mio padre; ma se penso che quei dannati rivoluzionari hanno fatto sì che perdessi Bastien, divento livida di rabbia. Cammino timida attraverso il corridoio, quando sento delle voci: mi affretto a sentire da dove provengono e, non appena individuo la sorgente, le seguo.

Sono sull’uscio di un’enorme salone, incapace di muovere un solo muscolo e completamente sconvolta alla vista di tanta sontuosità. Anche questo soffitto è affrescato, ma in maniera totalmente diversa dalla stanza in cui mi sono svegliata: il disegno rappresenta una scena biblica che non sono in grado di riconoscere e i colori sono così accesi che mi abbagliano. Il pavimento è liscio e io non ho mai visto niente di simile, mi sembra fuori da ogni grazia – oh, com’è bello, com’è bello.

Al centro della stanza è posizionato un lungo tavolo in legno pregiato, così lucido che sono sicura venga curato più di un neonato.

E solo ora mi accorgo della presenza di un uomo, seduto a capotavola, al fondo della sala.

Quel viso.

Trattengo il fiato, incapace di respirare.

È l’uomo che mi ha salvata.

 

*

 

 

 

Ha gli occhi più grossi che io abbia mai visto, la popolana.

Ma quello che più mi sconvolge è la sua espressione esterrefatta, come se fosse impossibile che si trovi veramente qui, in questo luogo, e in mia presenza. Come darle torto? Non ha praticamente senso che una come lei sia al cospetto di uno come me.

Eppure – stento a crederci – le ho salvato la vita.

 

Sono appena uscito dalla locanda, il comizio è terminato così come le bevute e, chi ha alzato un po’ troppo il gomito, è stato scortato in una delle squallide camere della pensione. Mi aggiro tra le strade infuocate di una Parigi che stento a riconoscere, schivando con agilità i corpi che sembrano crollarmi addosso, esanimi. Non ho mai visto niente del genere e mi sembra quasi surreale, come uno di quei romanzi cavallereschi del circolo bretone che mi faceva leggere il Curato. Il fragore della rivolta arriva alle mie orecchie come un martello, ma non posso deconcentrarmi se voglio rimanere in vita.

Sto per imboccare il vialetto dove la carrozza mi sta attendendo – salvezza, salvezza! – quando noto un fatto bizzarro: in centro alla strada, vi è una porzione di spazio che le persone sembrano evitare – o almeno alcune di loro – aggirandola. Mi avvicino, stimolato dalla mia curiosità innaturale e mi rendo conto che la gente sta evitando un corpo. Anzi, una giovane donna.

 

Non accenna a muovere un muscoloso, quella divinità dai capelli del colore del diavolo e continua a guardarmi sbalordita e forse anche un po’ intimorita. E io, seduto in tutta la mia eleganza, mi domando ancora perché l’abbia messa in salvo, facendomi carico della sua persona. Avrei potuto calpestarla, come ha fatto il resto della gente intorno a lei: nessuno se ne sarebbe accorto, se non i suoi familiari. Nessuno le avrebbe fatto un funerale. Lei è niente.

Ma chi può avere il potere di dire quali vite valgono e quali no?

 

Ha i capelli rossi, questo cadavere.

Il pelo del diavolo.

Dovrei girare sui tacchi e andarmene, in fondo è quello che ho sempre fatto quando si trattava di semplice plebe. Eppure, forse per quella particolare caratteristica malefica, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Ho sempre avuto seri dubbi sul fatto che i capelli rossi significassero il male e, in effetti, sono solo i cattolici fanatici che continuano a crederci. Ma è radicato in me, come ogni tipo di pregiudizio sociale.

Poi, d’un tratto, il cadavere tossisce.

Non è un cadavere! mi dice il mio cervello, additandomi come un imbecille. E ora? Che cosa faccio? Il dubbio si insinua nella mia mente come un tarlo, impedendomi di usare la mia tanta adorata razionalità, oggetto della mia filosofia.

Intorno a me la guerriglia continua a impazzare e capisco che non ho molto tempo per prendere una decisione. Qualcosa – che non saprei definire – di assolutamente incontrollato, che va contro ogni mio ideale di razionalità, mi sussurra che quella ragazza merita di vivere.

Seguo il mio istinto, mandando in frantumi anni di studi.

 

Maximilien non sarebbe affatto fiero di me, ne sono più che certo. Ho agito senza logica, dando libero sfogo alla passione che è dentro di me. Che cosa ne è di tutti i miei ideali secondo i quali la ragione trionfa?

Predichi bene ma razzoli male, mi ammonisce la mia coscienza.

Scaccio i dubbi – ormai è tardi per il pentimento – e mi concentro sulla figura che sta sull’uscio della stanza, ancora completamente immobile.

«Spero abbiate riposato bene, Mademoiselle» utilizzo il tono più educato che conosca, la voce alta a causa dell’ampiezza dalla stanza. La vedo sussultare, come se la mia voce l’avesse riportata alla realtà. Che strano personaggio.

«V-voi...» inizia titubante, ma poi si ferma. Ha una voce flebile e dolce, come quella di una ragazzina che ancora non è cresciuta. Non riesco a capire quanti anni possa avere, questo cadavere vivente. «Voi chi siete?» domanda, infine.

Quello che mi sconvolge non è tanto ciò che ha detto, ma il fatto che l’abbia detto.

Molte persone durante la mia vita mi hanno posto tale domanda, ma erano Generali, nobili parigini oppure membri dell’alta borghesia. Gente al mio stesso livello.

E ora, questo cadavere, questa feccia che è pari al nulla, ha il coraggio di chiedermi chi sono io, guardandomi con quei suoi occhi fieri.

«Forse dovreste dirmi chi Voi siate, non credete?» Il mio tono di voce è tagliente, segno che il mio orgoglio è stato evidentemente ferito.

Indossa una veste scura così sudicia che quasi mi fa ribrezzo e mi chiedo come possa non sentire l’impulso di togliersela. Continua a rimanere immobile e io non posso fare altro che osservarla.

Smeraldi, i suoi occhi.

Fiamme rosse, i suoi capelli.

«Non so come sono arrivata in questa abitazione e non so chi Voi siate.» dice a denti stretti «Siete Voi a dovermi delle spiegazioni.»

La mia rabbia arriva come una tempesta estiva ed esplode, invadendomi. Mi alzo di scatto dalla sedia e procedo a grandi passi verso la ragazza. Ho perso il mio tanto amato autocontrollo e la mia facciata di tranquillità è andata a fare una passeggiata, lasciandomi solo e furioso. La fronteggio e ora posso vedere quanto i lineamenti del suo viso siano delicati: ha una pelle chiarissima e i suoi capelli sembrano ancora più rossi, da vicino.

Mi rendo conto di non aver mai visto occhi così verdi in tutta la mia vita.

Ti faccio stare zitta io, puttana.

«Io sono Léon Derville e Voi mi dovete portare rispetto.» Le sputo in faccia queste parole come se fossero gli insulti più offensivi che conosca. «Avrei dovuto lasciarvi morire.»

Cerco di placare la tormenta dentro di me, rendendomi conto che mi sono esposto davanti ad una semplice popolana, la quale non ha alcun diritto di vedere le mie debolezze.

Merde!

«Voi...?» La sua voce è incredula e incerta, mentre la domanda rimane sospesa nell’aria. «Siete Voi l’uomo che mi ha salvata?»

La sua bocca è semiaperta e le parole non dette aleggiano tra di noi, come se fossero state scritte nel pulviscolo.

I suoi occhi mi stanno ringraziando, lo leggo nelle sue iridi, che sembrano le pagine aperte di un libro complesso ed entusiasmante.

E io rimango muto, attonito, sconvolto, incapace di pronunciare una qualsiasi parola, quando mi accorgo che sulle sue guance stanno scendendo lente – quasi volessero essere sicure che io mi accorga di loro – le lacrime.

Com’è possibile che in cinque minuti di incontro – averla tenuta svenuta tra le braccia non conta – tutte queste emozioni si stiano facendo spazio tra di noi? Noi? Me e la popolana.

La popolana.

Richiamo all’ordine le emozioni che ho sempre cercato di riporre nel cassetto del dimenticatoio e mi ricompongo, dicendomi che ho già fatto anche troppo per questa feccia, quindi non deve interessarmi il suo pianto – il suo dolce, dolcissimo pianto – e nemmeno la sua sorte.

Ho una missione molto più importante di cui occuparmi.

«René!» Al richiamo, la mia cameriera entra nella stanza con il solito cipiglio impeccabile, degno di una membra educata della servitù nobile.

«Dai a questa Mademoiselle dei vestiti puliti, poi falla accompagnare a casa sua da François.» La donna annuisce al mio tono severo, gli occhi rivolti verso il pavimento.

Do un’ultima occhiata alla popolana, prima di uscire di scena, e mi rendo conto che le lacrime le si sono seccate sulle guance. Mi guarda con fermezza e nei suoi occhi riesco a scorgere perplessità.

Volto la schiena e sono sulla porta, quando la sento mormorare: «Sono Amélie Lebeau.»

Silenzio. Non rispondo, ma resto fermo sulla porta. Senza uscire, senza entrare. 

«Me lo avevate chiesto e io non Vi avevo risposto.» dice con semplicità, eppure riesco a intravedere le sue scuse implicite, dietro quella confessione.

Sento il suo Perdonatemi dietro ad un semplice nome.

Esco dalla stanza, senza guardarmi dietro le spalle.

Amélie Lebeau.

La ragazza dai capelli fiammanti.

 

*

 

 

Angolo Autrice

Ho cercato di riprodurre abbastanza fedelmente il clima settecentesco, utilizzando elementi della moda del tempo, come ad esempio lo stile orientaleggiante; spero di essere stata abbastanza credibile nella descrizione della “casa” di Léon. Per il resto, ho scelto di usare la forma di cortesia del “Voi”, visto e considerato che all’epoca era nella quotidianità.

Che ne pensate di Amélie? E di Léon? Ho proprio voglia di sentire i vostri pareri a riguardo, quindi fatevi sentire! ;)

Lascio a voi i commenti!

Un bacione,

Eryca.

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Eryca