2.
Fiamme
rosse, i suoi capelli
Non
ricordo il momento preciso in cui sono emersa dal fondo di un profondo
pozzo
nero, in cui niente aveva un senso eppure tutto sembrava averne, per
ritrovarmi
a fissare un soffitto affrescato che mi fa pensare alla Francia quale
città
conosciuta in tutto il mondo – è così
che dice William, il burattinaio inglese
– per le sue sfarzose regge. Ho sempre sentito parlare delle
magnifiche feste
organizzate a Versailles, ma non ho mai potuto rendere l’idea
astratta di tutto
ciò concreta: io sono una popolana, sono un niente.
Mio
padre parla spesso di rivoltarsi, citando il personaggio di spicco del
momento,
un certo Robespierre; dovrei essere d’accordo con lui e con
il resto della mia
gente, ma sono indignata nel vedere come egli parlamenti bene le sue
tesi
dicendo che “il popolo è sovrano”, per
poi tornare alla sua vita agiata, alle
sue cariche amministrative.
Sostiene
che lui è come noi, ma allora perché non
l’ho mai visto camminare tra le strade
della periferia, sgobbare per guadagnarsi un pezzo di pane?
Perché – se lui è
come noi – indossa le vesti di un aristocratico e dorme in un
letto
confortevole?
Perché,
perché, perché – se lui è
come noi – guarda da lontano la rivolta, al sicuro,
mentre le persone muoiono mutilate, massacrate, sbudellate?
Sento
il viso bagnato e mi rendo conto che una lacrima sta scorrendo sul mio
viso.
Erano anni che non mi sfogavo in questo modo: io non sono una di quelle
nobildonne capricciose che possono permettersi di piagnucolare
perché non hanno
ricevuto il tè. No. Io mi alzo quando il sole sorge, mi tiro
su le maniche
della vecchia veste scolorita e mi appresto a lavorare,
perché mio padre – quel
pover’uomo – non può fare tutto da solo;
Bastien – Bastien, piccolo mio,
dove sei? – è così piccolo
che lavora
occasionalmente e mia madre è morta durante il suo secondo
parto.
Continuo
a tenere gli occhi puntati sul grosso disegno a muro.
L’affresco è così bello
che sembra essere stato dipinto da una mano divina: tutto il soffitto
è blu a
rappresentare il cielo e due putti si abbracciano al centro della
scena,
contornati da nuvolette dorate, mentre altre figure angeliche
svolazzano. Non
avevo mai visto una parete dipinta, ne avevo solo sentito parlare, e
ora fisso
sconvolta l’opera d’arte, mentre mi rendo conto di
essere sdraiata su un letto.
Un
letto.
Non una
brandina in legno, così rigida che potrebbe far venire il
mal di schiena a
chiunque.
Un
letto.
Il
panico – che era rimasto assopito – si impadronisce
del mio corpo e non mi dà
la possibilità di avere un buon risveglio. Il fatto che solo
i ricchi possano
permettersi un letto – un letto,
ma è possibile che sia un vero
letto? –
mi rende impossibile pensare di trovarmi in una casa popolare. Mon Dieu, dove sono finita?
Mi
metto a sedere sul comodo materasso – che
splendida sensazione – e mi rendo conto che
l’affresco non è l’unico
elemento aristocratico della stanza: pregiati arazzi in velluto rosso
oscurano
la finestra e mobili in legno cerato decorano lo spazio.
Mi
porto le mani alla testa e premo sulle meningi, cercando di affievolire
il
dolore lancinante e ricordare come ho fatto ad arrivare in questo
posto.
Ricordo, come se fossero ancora presenti, il fumo, la folla e la paura
di non
poter trovare Bastien.
Bastien.
Il suo
nome mi provoca una fitta allo stomaco e il senso di colpa non tarda ad
arrivare, portandosi con sé lo stimolo di piangere. Sono
sempre stata una
sorella premurosa, ho stretto la mano di Bastien come se fosse
l’unico appiglio
al mondo così tante volte che ora mi sembra impossibile non
sentire le sue dita
intrecciate alle mie.
Piango,
mentre l’immagine del mio fratellino che mi prega di non
lasciarlo da solo si
fa spazio nella mia mente, quasi a voler aumentare il mio dolore.
Ed ecco
che, proprio come ogni volta, iniziano a spuntare dalla terra sotto cui
erano
sepolti i “se avessi fatto”,
pretendendo l’attenzione che meritano; ma io non ho proprio
tempo per
crogiolarmi nel rimorso, così uso il metodo migliore per
spronarsi: mi colpisco
in faccia con una forza che non mi è propria e riprendo il
controllo.
Devo
utilizzare il pragmatismo che è in me. Prima devo occuparmi
di ciò che ha
un’importanza vitale: capire dove mi trovo.
Sono
sicura che questa casa appartiene all’uomo che mi ha messa in
salvo.
Bene,
Amélie Lebeau, puoi farcela, mi
sprono scendendo dal grosso letto a baldacchino.
Noto
senza stupore che indosso ancora la mia veste, più sporca e
polverosa del
solito a causa della brutta esperienza subita; cerco invano di
scacciare via il
ricordo di me stessa a terra, calpestata da decine di persone. Il mio
corpo
viene percorso da un’ondata di brividi.
La
porta è pesante e devo impiegare tutte le mie forze per
riuscire, infine, ad
aprirla. Un corridoio buio, illuminato solo da alcuni candelabri, mi da
il
benvenuto nell’abitazione. Il soffitto è a
cassettoni dorati e le pareti sono
interamente dipinte con motivi orientali, secondo la moda del momento.
Tutto
questo sfarzo mi mette a disagio, io
sono abituata a vivere in una squallida casa popolare, tra la paglia e
un umile
camino a scaldare le fredde notti invernali, non ho mai neanche visto
un simile
lusso prima d’ora. Dentro di me, emozioni contrastanti: la
meraviglia di fronte
ad un senso dell’estetica così raffinato dichiara
guerra alla parte del mio
cervello che rivendica il diritto del popolo di avere più
cibo e meno tasse da
pagare. Sì, anche io, in fondo, condivido gli ideali di mio
padre; ma se penso
che quei dannati rivoluzionari hanno fatto sì che perdessi
Bastien, divento
livida di rabbia. Cammino timida attraverso il corridoio, quando sento
delle
voci: mi affretto a sentire da dove provengono e, non appena individuo
la
sorgente, le seguo.
Sono
sull’uscio di un’enorme salone, incapace di muovere
un solo muscolo e
completamente sconvolta alla vista di tanta sontuosità.
Anche questo soffitto è
affrescato, ma in maniera totalmente diversa dalla stanza in cui mi
sono
svegliata: il disegno rappresenta una scena biblica che non sono in
grado di
riconoscere e i colori sono così accesi che mi abbagliano.
Il pavimento è
liscio e io non ho mai visto niente di simile, mi sembra fuori da ogni
grazia –
oh, com’è bello,
com’è bello.
Al
centro della stanza è posizionato un lungo tavolo in legno
pregiato, così
lucido che sono sicura venga curato più di un neonato.
E solo
ora mi accorgo della presenza di un uomo, seduto a capotavola, al fondo
della
sala.
Quel
viso.
Trattengo
il fiato, incapace di respirare.
È
l’uomo che mi ha salvata.
*
Ha gli
occhi più grossi che io abbia mai visto, la popolana.
Ma
quello che più mi sconvolge è la sua espressione
esterrefatta, come se fosse
impossibile che si trovi veramente qui, in questo luogo, e in mia
presenza.
Come darle torto? Non ha praticamente senso che una come
lei sia al cospetto di uno come
me.
Eppure
–
stento a crederci – le ho salvato la vita.
Sono
appena uscito dalla locanda, il
comizio è terminato così come le bevute e, chi ha
alzato un po’ troppo il
gomito, è stato scortato in una delle squallide camere della
pensione. Mi
aggiro tra le strade infuocate di una Parigi che stento a riconoscere,
schivando con agilità i corpi che sembrano crollarmi
addosso, esanimi. Non ho
mai visto niente del genere e mi sembra quasi surreale, come uno di
quei
romanzi cavallereschi del circolo bretone che mi faceva leggere il
Curato. Il
fragore della rivolta arriva alle mie orecchie come un martello, ma non
posso
deconcentrarmi se voglio rimanere in vita.
Sto
per imboccare il vialetto dove la
carrozza mi sta attendendo – salvezza, salvezza! –
quando noto un fatto bizzarro:
in centro alla strada, vi è una porzione di spazio che le
persone sembrano
evitare – o almeno alcune di loro – aggirandola. Mi
avvicino, stimolato dalla
mia curiosità innaturale e mi rendo conto che la gente sta
evitando un corpo.
Anzi, una giovane donna.
Non
accenna a muovere un muscoloso, quella divinità dai capelli
del colore del
diavolo e continua a guardarmi sbalordita e forse anche un
po’ intimorita. E
io, seduto in tutta la mia eleganza, mi domando ancora
perché l’abbia messa in
salvo, facendomi carico della sua persona. Avrei potuto calpestarla,
come ha
fatto il resto della gente intorno a lei: nessuno se ne sarebbe
accorto, se non
i suoi familiari. Nessuno le avrebbe fatto un funerale. Lei
è niente.
Ma chi
può avere il potere di dire quali vite valgono e quali no?
Ha
i capelli rossi, questo cadavere.
Il
pelo del diavolo.
Dovrei
girare sui tacchi e andarmene, in
fondo è quello che ho sempre fatto quando si trattava di
semplice plebe.
Eppure, forse per quella particolare caratteristica malefica, non
riesco a
staccarle gli occhi di dosso. Ho sempre avuto seri dubbi sul fatto che
i
capelli rossi significassero il male e, in effetti, sono solo i
cattolici
fanatici che continuano a crederci. Ma è radicato in me,
come ogni tipo di
pregiudizio sociale.
Poi,
d’un tratto, il cadavere tossisce.
Non è
un cadavere! mi dice il mio cervello,
additandomi come un imbecille. E ora? Che cosa faccio? Il dubbio si
insinua
nella mia mente come un tarlo, impedendomi di usare la mia tanta
adorata
razionalità, oggetto della mia filosofia.
Intorno
a me la guerriglia continua a impazzare
e capisco che non ho molto tempo per prendere una decisione. Qualcosa
– che non
saprei definire – di assolutamente incontrollato, che va
contro ogni mio ideale
di razionalità, mi sussurra che quella ragazza merita di
vivere.
Seguo
il mio istinto, mandando in frantumi
anni di studi.
Maximilien
non sarebbe affatto fiero di me, ne sono più che certo. Ho
agito senza logica,
dando libero sfogo alla passione che è dentro di me. Che
cosa ne è di tutti i
miei ideali secondo i quali la ragione trionfa?
Predichi
bene ma razzoli male, mi
ammonisce la mia coscienza.
Scaccio
i dubbi – ormai è tardi per il pentimento
– e mi concentro sulla figura che sta
sull’uscio della stanza, ancora completamente immobile.
«Spero
abbiate riposato bene, Mademoiselle»
utilizzo il tono più educato che conosca, la voce alta a
causa dell’ampiezza
dalla stanza. La vedo sussultare, come se la mia voce
l’avesse riportata alla
realtà. Che strano personaggio.
«V-voi...»
inizia titubante, ma poi si ferma. Ha una voce flebile e dolce, come
quella di
una ragazzina che ancora non è cresciuta. Non riesco a
capire quanti anni possa
avere, questo cadavere vivente. «Voi chi siete?»
domanda, infine.
Quello
che mi sconvolge non è tanto ciò che ha detto, ma
il fatto che l’abbia detto.
Molte
persone durante la mia vita mi hanno posto tale domanda, ma erano
Generali,
nobili parigini oppure membri dell’alta borghesia. Gente al
mio stesso livello.
E ora,
questo cadavere, questa feccia che
è
pari al nulla, ha il coraggio di chiedermi chi
sono io, guardandomi con quei suoi occhi fieri.
«Forse
dovreste dirmi chi Voi siate, non credete?» Il mio tono di
voce è tagliente,
segno che il mio orgoglio è stato evidentemente ferito.
Indossa
una veste scura così sudicia che quasi mi fa ribrezzo e mi
chiedo come possa
non sentire l’impulso di togliersela. Continua a rimanere
immobile e io non
posso fare altro che osservarla.
Smeraldi,
i suoi occhi.
Fiamme
rosse, i suoi capelli.
«Non
so
come sono arrivata in questa abitazione e non so chi Voi
siate.» dice a denti stretti «Siete Voi
a dovermi delle spiegazioni.»
La mia
rabbia arriva come una tempesta estiva ed esplode, invadendomi. Mi alzo
di
scatto dalla sedia e procedo a grandi passi verso la ragazza. Ho perso
il mio
tanto amato autocontrollo e la mia facciata di tranquillità
è andata a fare una
passeggiata, lasciandomi solo e furioso. La fronteggio e ora posso
vedere
quanto i lineamenti del suo viso siano delicati: ha una pelle
chiarissima e i
suoi capelli sembrano ancora più rossi, da vicino.
Mi
rendo conto di non aver mai visto occhi così verdi in tutta
la mia vita.
Ti
faccio stare zitta io, puttana.
«Io sono Léon Derville e Voi mi dovete portare
rispetto.» Le
sputo in faccia queste parole come se fossero gli insulti
più offensivi che
conosca. «Avrei dovuto lasciarvi morire.»
Cerco
di placare la tormenta dentro di me, rendendomi conto che mi sono
esposto
davanti ad una semplice popolana, la quale non ha alcun diritto di
vedere le
mie debolezze.
Merde!
«Voi...?»
La sua voce è incredula e incerta, mentre la domanda rimane
sospesa nell’aria.
«Siete Voi l’uomo
che mi ha salvata?»
La sua
bocca è semiaperta e le parole non dette aleggiano tra di
noi, come se fossero
state scritte nel pulviscolo.
I suoi
occhi mi stanno ringraziando, lo leggo nelle sue iridi, che sembrano le
pagine
aperte di un libro complesso ed entusiasmante.
E io
rimango muto, attonito, sconvolto, incapace di pronunciare una
qualsiasi
parola, quando mi accorgo che sulle sue guance stanno scendendo lente
– quasi
volessero essere sicure che io mi accorga di loro – le
lacrime.
Com’è
possibile che in cinque minuti di incontro – averla tenuta
svenuta tra le
braccia non conta – tutte queste emozioni si stiano facendo
spazio tra di noi? Noi? Me e la
popolana.
La
popolana.
Richiamo
all’ordine le emozioni che ho sempre cercato di riporre nel
cassetto del
dimenticatoio e mi ricompongo, dicendomi che ho già fatto
anche troppo per
questa feccia, quindi non deve
interessarmi il suo pianto – il suo
dolce, dolcissimo pianto – e nemmeno la sua sorte.
Ho una
missione molto più importante di cui occuparmi.
«René!»
Al richiamo, la mia cameriera entra nella stanza con il solito cipiglio
impeccabile, degno di una membra educata della servitù
nobile.
«Dai a
questa Mademoiselle dei vestiti
puliti, poi falla accompagnare a casa sua da
François.» La donna annuisce al
mio tono severo, gli occhi rivolti verso il pavimento.
Do
un’ultima occhiata alla popolana, prima di uscire di scena, e
mi rendo conto
che le lacrime le si sono seccate sulle guance. Mi guarda con fermezza
e nei
suoi occhi riesco a scorgere perplessità.
Volto
la schiena e sono sulla porta, quando la sento mormorare:
«Sono Amélie Lebeau.»
Silenzio.
Non rispondo, ma resto fermo sulla porta. Senza uscire, senza entrare.
«Me lo
avevate chiesto e io non Vi avevo risposto.» dice con
semplicità, eppure riesco
a intravedere le sue scuse implicite, dietro quella confessione.
Sento
il suo Perdonatemi dietro ad un
semplice nome.
Esco
dalla stanza, senza guardarmi dietro le spalle.
Amélie
Lebeau.
La
ragazza dai capelli fiammanti.
*
Angolo
Autrice
Ho
cercato di riprodurre abbastanza
fedelmente il clima settecentesco, utilizzando elementi della moda del
tempo,
come ad esempio lo stile orientaleggiante; spero di essere stata
abbastanza
credibile nella descrizione della “casa” di
Léon. Per il resto, ho scelto di
usare la forma di cortesia del “Voi”, visto e
considerato che all’epoca era
nella quotidianità.
Che
ne pensate di Amélie? E di Léon? Ho
proprio voglia di sentire i vostri pareri a riguardo, quindi fatevi
sentire! ;)
Lascio
a voi i commenti!
Un
bacione,
Eryca.