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Autore: miss potter    14/02/2013    3 recensioni
[...] quando si sconfina nel campo “emozioni”, Sherlock Holmes va in panico. Lui non lo sa, non ancora, ma sorriderebbe se sapesse quanto emozioni e chimica abbiano in comune…
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buongiorno, fandom!
Tanto per essere alternativi ed anticonvenzionali, ecco qui il prodotto di una notte passata maledicendo la festa di quest'oggi.
Non cambio idea, nossignore, non approvo la celebrazione di un sentimento importante come l'amore confinato ad un singolo giorno dell'anno. E no, neanche questi due, piccoli omini che mi hanno sconvolto l'ultimo anno e mezzo di vita mi faranno cambiare idea, quindi zitti tutti e beccatevi questo mio strappo alla regola.
Sperando che le uova non siano sode, aspetto vostre notizie asap!
Buon san Valentino e bla bla bla a tutti.

miss potter

                             

                              A
rms






Al piccolo Sherlock Holmes non piace essere toccato. È un dato di fatto e non sa bene dire il perché, sa solo che lo detesta.
C’è un non so che di appiccicoso nelle carezze dei parenti che gli strizzano le guance, a Natale, sproloquiando qualcosa su quanto sia cresciuto e sul fatto che dovrebbe nutrirsi di più.
Disapprova sua madre quando passa in camera sua e di Mycroft per il bacio della buonanotte, lasciandogli l’impronta del rossetto sulla fronte. Suo padre non lo fa. Lui legge il giornale, dopo cena, beve mezzo bicchiere di scotch, fuma la pipa e si ritira aspettando la signora Holmes nel lettone, zona offlimits per il piccolo e dolce Sherlock, ormai troppo grande per chiedere di farsi spazio tra le lenzuola dei grandi come quando era piccolo.
“Mycroft, perché mamma e papà dormono insieme?” chiede una notte a suo fratello, svegliandolo nel cuore della notte.
“Sono sposati, Sherlock. È normale che lo facciano.”
“Ma perché dormono nello stesso letto, abbracciati, e si baciano tutta la notte? Non resterebbero comunque sposati se non lo facessero?”
Mycroft sbuffa e si rigira dalla parte opposta, maledicendo quella volta in cui aveva chiesto un fratellino nella lettera a Babbo Natale.
“Perché si vogliono bene. Si fanno le coccole.”
“Coccole” il bambino scandisce bene questa parola, come un neonato fa la prima volta con “mamma”.
E il piccolo, dolce, confusissimo Sherlock ci pensa tutta la notte, le dita intrecciate sul pancino, i grandi occhi azzurro cielo piantati nel soffitto e un’espressione corrucciata che non fa presagire nulla di buono.
“Mycroft?”
“Che c’è?!” sbotta il maggiore.
“Cosa sono le coccole?”
Un altro sbuffo e Mycroft si rassegna al suo destino da fratello maggiore col compito di spiegare l’affettività al minore. Non osa immaginare quando Sherlock verrà più grande e scoprirà che i bambini non nascono sotto i cavoli, ma scaccia quel pensiero dalla sua testa prima che a Sherlock vengano in mente altre domande scomode.
“Beh, è quando mamma ti bacia, o ti abbraccia. Quando la zia Tessa ti accarezza la testa o quando papà ti batte una mano sulla schiena quando prendi un bel voto a scuola…”
“Oddio. Ma è orribile, allora.”
“No, non lo è. È semplicemente… umano.”
“Beh, io non coccolarerò mai nessuno.”
“Si dice coccolerò, Sherlock. Coccolerò. E poi non puoi saperlo. Un giorno anche tu avrai qualcuno da coccolare e da cui farti coccolare.”
“Piuttosto mi faccio trasformare in un rospo.”
Mycroft ride di gusto davanti alla solita testardaggine del fratellino e scuote la testa, rimboccandosi le coperte.
“E se poi arriva la principessa?” sospira.
“Le principesse sono stupide. Preferisco i principi, loro sì che sono coraggiosi.”
Il silenzio cala greve sulla stanza da letto e il maggiore dei fratelli Holmes pensa che tutto questo parlare di coccole, di rospi e di baci lo cominci a mettere a disagio.
Ha solo quattordici anni ma il sesso non è un tabù per lui. Ci sarà tempo per spiegare le regole del gioco anche al suo curioso fratello minore, sempre così pieno di interrogativi, e spera che la conversazione gli abbia fatto venire sonno perché non ha intenzione di proseguire oltre.
“Buonanotte, Sherlock.”
“Mycroft?”
“Hm.”
“Mi racconti una storia sui pirati?”

                                                                                                    §
 
Sherlock è uno studente modello e non ha bisogno dell’approvazione generale per averne la conferma, né da parte dei professori né tantomeno dei suoi mediocri compagni di classe.
C’è una biondina, Molly Hooper, sveglia ma tremendamente trasparente quando si parla di sentimenti, che da quando l’anno scolastico è iniziato non gli toglie gli occhi di dosso. Gliel’aveva anche fatto notare, un giorno.
“Molly, smettila di fissarmi. La tua espressione non riflette esattamente la tua intelligenza, quando lo fai” le disse, provocando nella ragazzina prima l’arrossarsi violento delle guance, poi lo sgranarsi repentino degli occhi, tremendamente lucidi, per dopo finire con una fuga disperata nel bagno delle ragazze, dove rimase rinchiusa per tutta la mattina.
Le donne, lui, non le capiva proprio. A cominciare dal fatto che non sapeva mai come prenderle, soprattutto quando c’erano di mezzo cose disgustose come ormoni, mestrui e peli superflui.
Non che per contro abbia molti amici maschi, s’intende. I suoi rapporti coi compagni di classe spaziano dalla sopportazione reciproca alla molto sporadica condivisione del microscopio a biologia.
Successe, un giorno, che Sherlock dovette dividerlo con uno nuovo, un ragazzo bassetto e dai corti capelli color grano, due grandi occhi malinconici che fissavano l’obiettivo con estrema apatia.
“Devi aumentare l’esposizione, se no non vedi un accidenti” gli aveva detto, indicandogli la rotellina del luce.
Fu in quel momento che il biondo alzò lo sguardo gettandolo in quello del moro, così vicino al suo.
“Oh, grazie” fece lui, sorridendo, e Sherlock ebbe la certezza di non aver mai visto un sorriso più bello di quello. “Comunque piacere, sono John.”
Sherlock osservò la grande mano di John allungarsi verso la sua e corrugò la fronte, senza sapere come comportarsi. Nessuno gli si era mai presentato spontaneamente, né tanto meno lo avevano mai ringraziato per qualcosa. Il massimo che era riuscito ad ottenere dai suoi coetanei era un’imprecazione nei confronti del suo inesistente tatto verso le relazioni umane e anche un paio di ceffoni da parte del gentil sesso.
Quel gesto sapeva di novità, e a lui piaceva imparare cose nuove. Da morire.
“Sherlock.”
I due si strinsero la mano e Sherlock ebbe la seconda certezza di quella giornata: dalla presa calda e sicura del suo nuovo – unico – amico John non se ne sarebbe mai separato.

                                                                                                       §

“Invitalo a cena” esordisce un giorno Mycroft, in vestaglia bordeaux sulla soglia della camera del fratello.
Sherlock, apparentemente assorto tra le pagine del volume di chimica, di cui dovrebbe dare l’esame tra una settimana, alza lo sguardo e lo pianta con estremo biasimo addosso al fratello, ammiccante davanti a lui.
“Invitare chi, di grazia?”
“Lo sai.”
“No davvero, scusa, ma sono talmente stupido che non ci arrivo.”
“Non serve essere te per capire a chi mi sto riferendo.”
Il ragazzo sbuffa, sollevando gli occhi al cielo, e chiude il librone piegandone rumorosamente la copertina.
“So dove vuoi arrivare, Myc, e credo fermamente che non siano affari tuoi.”
“Tutto quello che ti riguarda è affar mio, Sherlock. Tu invitalo. Vedrai che avrò ragione.”
“A proposito di cosa?”
“A proposito che forse, finalmente, il mio fratellino ha trovato qualcuno abbastanza folle con cui condividere la propria giovinezza.”
Il più giovane dei due sgrana gli occhi all’inverosimile e le guance gli mutano di qualche tono da un carne pallidissimo ad un ciliegia quanto mai imbarazzante, e Mycroft sorride sotto i baffi a quella reazione. Suo fratello aveva da sempre avuto un debole per gli esperimenti, le formule chimiche, e anche per qualche esplosione: ma quando si sconfina nel campo “emozioni”, Sherlock Holmes va in panico. Lui non lo sa, non ancora, ma sorriderebbe se sapesse quanto emozioni e chimica abbiano in comune…
“È il mio migliore amico, non me lo devo sposare!”
“Mi ringrazierai, un giorno!” esclama Mycroft ghignando e fa per uscire.
“Aspetta…”
Sherlock, seduto alla sua scrivania con le mani giunte sotto al mento, sembra starci a pensare un minuto. D’altra parte, pensa, cos’è una cena? Niente di che. Nulla di impegnativo, o di assolutamente impegnato. Nessun appuntamento. Solo una innocua, innocente cena, la prima a pensarci bene dopo anni che si conoscono. Non avrebbe significato nulla.
“Sì, perché no? Almeno mamma avrà qualche pensiero diverso dal prendersi cura di due scellerati come noi due.”
Mycroft non ha ancora disimparato a sorridere. È la parte mancante del fratello, il sorriso. Mycroft protegge. E Sherlock non sa proteggersi da solo.
“Così mi piaci” dice il maggiore, materno, scompigliandogli la selva di ricci con le dita di una mano per poi avviarsi definitivamente fuori dalla stanza.
“Non farci l’abitudine, però!” gli urla dietro Sherlock prima che si chiuda la porta alle spalle, col miglior sorriso di sempre stampato sul volto.
Sherlock passa la restante parte della serata davanti allo specchio del bagno, inspirando ed espirando, cercando di dare un senso a quello che, per i suoi canoni, appare come qualcosa di estremamente stupido e banale, come invitare a cena qualcuno.
“John, ehm… Ho pensato che, magari, sempre se ti va… No, no, no. Pessimo. Ciao, John! Che ne dici se, una di queste sere, venissi da me, a cena? La mia famiglia ne sarebbe felice. Oh, certo. Complimenti, Sherlock. Terrorizzalo! Vedrai che non ci penserà due volte prima di scappare a gambe levate…” continua a rimproverarsi, facendo avanti e indietro per la stanza e grattandosi nervosamente la testa riccioluta.
“Okay, proviamo così. John, domani sera. A cena. Da me. Otto in punto. No, troppo stile campo di concentramento… Ci sono! John, ti andrebbe di venire a cena a casa mia, domani sera? Perfetto!”
“Che scena commovente.”
La voce orrendamente mielosa e allo stesso tempo ruvida di Mycroft sulla soglia fa sobbalzare il ragazzo che, in un paio di passi, lo raggiunge e gli sbatte la porta del bagno in faccia.
“Vattene, serpente!”
“Dovresti buttartele giù quelle battute, Shakespeare. Altrimenti rischi di boccheggiare quando ti ritroverai davanti a quei fantastici occhi blu” ridacchia Mycroft dall’altra parte della porta prima di rifugiarsi in camera sua col sorriso da fauno sulle labbra che da sempre lo contraddistingue.
Suo fratello ha ragione. Non può rischiare figuracce al suo primo non-appuntamento.
Sarebbe stato tutto perfetto. Fino nei più minimi dettagli.
Il giorno dopo, Sherlock si sveglia con la nausea e un accenno di singhiozzo. Di cosa si dovrebbe preoccupare, in fondo? Che John rifiuti l’invito? E anche se fosse? Okay, nessun problema, sarà per la prossima volta. Amici come prima. Ma ovviamente dirà di sì. Deve dire di sì, perché Sherlock ci tiene, è stato sveglio fino alle due di notte per ripassare quel discorso di una riga e mezza scarabocchiata a penna dietro lo scontrino del Tesco. Sarebbe andato tutto a meraviglia.
“Buona fortuna, Romeo” gli dice Mycroft, seduto in poltrona trincerandosi dietro al Financial Times, mentre il fratello esce di casa.
“Sta’ zitto.”
L’appuntamento è alla stazione della metro, così che avrebbero fatto la strada assieme verso il college, momento in cui Sherlock avrebbe avanzato la sua proposta.
Gli tremano le mani: sicuramente, pensa, è dovuto al freddo particolarmente pungente di quella mattina. Se le strofina con forza e trotta giù dalle scale mobili.
Il treno delle sette e trentacinque, quello di John, ferma puntuale davanti alla panchina dove ha preso posto Sherlock che, teso come le corde del suo violino, si alza di scatto lisciandosi il cappotto scuro e lasciando che il bavero gli copra il collo fino a metà zigomi.
Tra l’ondata di gente che si riversa fuori dalle cabine, non passa molto tempo prima che il ragazzo riesca ad individuare l’amico che, con sua più somma delusione, nota abbracciato ad una ragazza mentre scherza con un paio di compagni di corso.
Rimane immobile, al centro della banchina, mani in tasca e senza la forza di dire o fare nulla, solo con un gran mal di pancia e le orecchie che gli fischiano.
“Ehi!” esclama il biondo sventolando una mano non appena lo intravede, un’ombra mimetizzata nella folla stretta nel suo cappotto e nascosta dietro alla zazzera di ricci color ebano.
“Ciao” risponde quest’ultimo in un bisbiglio, lanciando un’occhiata gelida al resto dell’allegra compagnia.
John toglie il braccio dalle spalle di Sarah che si affretta a cingergli la vita con possessione, come una bambina alla gonnella della madre, mentre gli altri due ragazzi, uno di mezza statura, capelli castano scuro e una faccia squadrata, l’altro con qualche problema di peso, un paio di occhiali minuscoli sul naso a patata e un principio di calvizie sulla nuca, lo squadrano da capo a piedi con vago interesse.
“Tu devi essere… Holmes, di chimica” dice il più magro dei due, accennando un metallico sorriso di circostanza che si affretta a nascondere per via dell’apparecchio.
“Oh sì, che stupido. Sherlock, lui è Gregory e frequenta Criminologia. E lui invece è Mike ed è a Medicina con me.” annuncia John con un ampio sorriso sulle labbra, tutto il contrario di quelle di Sherlock, contratte in una smorfia di totale indifferenza verso quei perfetti sconosciuti ai quali stringe la mano per pura formalità.
“Chiamami Greg” esclama benevolo il ragazzo dai capelli castani.
“E a me, non mi presenti?” interviene la ragazza, tirando John per un braccio.
“So già chi sei” le fa Sherlock.
Sarah pare illuminarsi d’immenso.
“Oh, dunque il mio John ti ha parlato di me?! Come sei carino, tesoro…”
John scansa all’ultimo secondo un bacio diretto nel centro esatto del naso.
“Sarah…”
“No, solo che all’uscita dell’università non puoi fare a meno di salutarlo con la vivacità di una piovra in amore, quindi non è difficile dedurre che tu sia una sorta di fidanzata, o quello che tu pensi di essere per John.”
I ragazzi alle loro spalle si piegano in due dalle risate, battendosi con forza le mani sulle ginocchia, a differenza di Sarah che si tramuta in una specie di statua di sale in procinto di spaccarsi di netto, e di John, che si limita invece a schiaffarsi una mano in faccia e a sospirare.
“Bella questa, Sawyer!” esclama il ragazzo grosso con gli occhiali, agitando le dita grassocce a mo’ di tentacoli, dandole poi una pacca sulla spalla alla quale lei si sottrae con uno scatto nervoso.
“Ma questo qui, è amico tuo per caso?!” sbotta a pochi centimetri dal volto di John, indicando il moro con la punta dell’indice tremolante.
“Si chiama Sherlock e sì, è un mio vecchio amico. Adesso potresti anche evitare di assordarmi, grazie.”
Sherlock nasconde sotto il bavero sollevato l’involontario sorriso che si sostituisce con entusiasmo al broncio di poco fa, cercando con lo sguardo quello di John il quale ricambia la complicità prima di scoppiare anche lui in una sonora risata dopo che Sarah si è staccata dal gruppo pestando con forza i piedi e borbottando qualche imprecazione tra sé e sé.
“Forse è meglio che le andiamo dietro, John!” ridacchia Greg, ancora con le lacrime agli occhi, facendogli segno di seguirlo.
“Sì, grazie ragazzi. Io… faccio la strada con Sherlock. Ci vediamo dopo.”
“Okay, come preferisci. A dopo” dice Mike in un’alzata di spalle.
Non appena quei due spariscono nella folla della Tube, John e Sherlock si avviano con passo più lento verso la superficie, mani in tasca e testa bassa. All’aria aperta, entrambi respirano a pieni polmoni la fresca brezza di una mattina come tante nella City, solo un po’ più speciale.
“Cominciava a mancarmi il rinomato tatto di Sherlock Holmes verso i sentimenti altrui” scherza John, urtandolo amichevolmente con una spalla.
Sherlock lo sbircia da sotto i ricci, aggrottando le sopracciglia.
“Quella ragazza non mi piace” borbotta col tono di quando da bambino rifiutava la zuppa di cavolfiore.
John gli sorride dolcemente e non può fare a meno di dargli ragione, come del resto aveva fatto all’epoca di Charlotte, di Jeanette e di Mary.
Ad un tratto, l’amico fa qualcosa che Sherlock proprio non si aspetta: solleva un braccio, gli sfiora la schiena accarezzandogliela col polpastrello del dito medio, e glielo fa passare dietro al collo, cingendogli le spalle proprio come Sherlock l’aveva visto fare con Sarah poco fa, ma con più calore e sicurezza e il ragazzo ha la terza certezza più grande della sua vita: in quell’abbraccio, ci potrebbe anche morire ed essere comunque felice.
“Per fortuna che ci sei tu, a proteggermi” gli dice poi John, le labbra praticamente appoggiate dall’orecchio dell’amico, in un sussurro che a Sherlock fa accapponare ogni centimetro di pelle.
Il fiato tiepido e i capelli di John che gli solleticano la pelle della fronte, quella vicinanza, la sensazione che porta con sé quel mezzo abbraccio così sincero e spontaneo, gli fanno correre un leggero brivido lungo la schiena e non teme di ricambiare il gesto prendendo la mano di John, penzolante sulla sua spalla, e stringerla nella sua con affetto.
Camminano così per qualche minuto, stretti l’uno nell’altro, prima che il biondo prenda la parola.
“Ah, di cosa volevi parlarmi?”
Lo stomaco di Sherlock inizia dunque la sua carrellata di capriole e contorsioni su se stesso, per poi finire spiaccicato contro il proprio ventre in un carpiato davvero niente male.
“Ehm, sì. Dunque… io…”
“Tu?”
Sherlock molla la presa della mano del suo migliore amico che lo imita, quasi a suggellare la serietà di quel momento. Si fermano così, in mezzo al marciapiede, non curanti della gente che passa loro accanto e che, ogni tanto, li urta scusandosi in continuazione.
“Ecco, volevo sapere se…”
Si odia profondamente. Si odia per dover apparire così stupido di fronte all’unico amico che aveva mai avuto, di fronte a John, per non riuscire a spiaccicare una parola di tutte quelle del discorso che si è preparato la notte prima.
Prende un profondo respiro prima di aprire di nuovo bocca.
Michiedevosetiandrebbediveniredamestasera. P-per cena, s’intende. Insomma…”
John stenta a capire le parole dell’amico da tanta è velocità con cui quella frase è pronunciata, e si intenerisce fuori misura quando nota l’imporporarsi delle guance scarne di Sherlock che non la smette di dondolarsi sul posto e di morsicarsi il labbro inferiore.
“Questa sera andrà benissimo.”
Strano come quelle poche, semplicissime parole si rivelano per Sherlock come la rivelazione del segreto scientifico più importante del ventunesimo secolo. No, forse molto meglio.
“Alle otto?”
“Ci sarò” conferma John raggiante, prima che riprendano il cammino, mano nella mano, verso il college in cui condividono le lezioni di chimica e i momenti più belli dei loro vent’anni.
Dentro di sé, entrambi urlano dalla gioia.
 
                                                                                                      §
 
Il fatidico giorno è arrivato e John non sta più nella pelle.
Nel cortile del college, studenti, genitori ed insegnanti compongono l’enorme puzzle di luci, colori e flash di macchine fotografiche che è la proclamazione dei laureandi a dottore in Medicina e Chirurgia. Le tavolate sono immense, fiori rossi e ghirlande colorate sbucano ovunque e già si odono i singhiozzi di qualche madre commossa e le urla goliardiche di studenti più giovani o già laureati, venuti ad assistere i loro amici.
La signora Watson si tormenta il cappellino verde prato sulla testa ed Harriet fa l’occhiolino ad una ragazza mora in prima fila.
La discussione della tesi è andata benissimo e John si aspetta il massimo dei voti, anche se la cosa che gli preme di più al momento è levarsi di dosso la sua ridicola divisa da laureando e correre a festeggiare con le persone più importanti della sua vita.
Sherlock, a proposito, si è laureato due anni fa in Chimica ma non ne vuole sapere di chiudersi dentro ad un laboratorio a vita o di fare qualche scoperta straordinaria nel campo farmacologico. L’amicizia con Mike Stanford e Gregory Lestrade si è approfondita: Mike lavora come tirocinante a Medicina Legale insieme a Molly Hooper, anatomopatologa, in attesa di essere assunto in qualche ospedale, e il criminologo è stato accettato a Scotland Yard come semplice poliziotto.
“Il mio scopo è arrivare ad essere promosso ispettore!” ha detto a Sherlock quando si è laureato.
“Sì, certo. Riesumami quando ce la farai” era stata la risposta del moretto, sempre così propenso a tenersi stretti i suoi pochi amici.
Splende il sole fuori e dentro i cuori di tutti e, dopo la cerimonia, i neo laureati si riversano nel giardino, addobbato per l’occasione, e partono le foto di rito e i pianti isterici dei parenti.
Sherlock, elegantemente vestito con la giacca piegata sull’avambraccio, se ne sta all’ombra del busto del fondatore dell’università sotto a un colonnato, le braccia conserte e lo sguardo lontano.
John lo raggiunge di corsa, il fiato corto e la divisa già sbottonata, un sorriso a trentadue denti sul volto arrossato dal sole e dai baci di sua madre.
“Eccoti qua! Scusa ma… mia madre… mi ha… trattenuto” esclama, riprendendo fiato.
Sherlock piega le labbra in un sorriso sghembo che farebbe impazzire chiunque e batte le mani con fare plateale.
“Complimenti, John. Benvenuto nel club dei disoccupati!” scherza, schivando la più che meritata gomitata da parte dell’amico.
“Che fai, porti iella?”
È davvero buffo, pensa Sherlock, coi capelli tutti scarmigliati, le guance rosse e i segni del rossetto della madre su tutta la faccia. Per non parlare della tremenda divisa che ha dovuto indossare anche lui quando ha concluso i tre anni del suo corso.
Il ragazzo ride di gusto e si avvicina a John scuotendo la testa ricciuta.
“Ma guardati, dottore…” mormora suadente allungando la mano destra sul viso di John ed appoggiando il pollice all’angolo delle sue labbra, pulendo una sbavatura rossa “Dovresti prenderti più cura di te.”
Sherlock si morde il labbro inferiore mentre fa scorrere il polpastrello sulla bocca e poi sul suo mento di John provocando in quest’ultimo una momentanea catatonia.
John pensa che al mondo non potrebbe esserci nulla di più sexy del suo migliore amico, compagno, mentre gli fissa con ardore le labbra.
Sorride malizioso e si fa più vicino, intrecciando le dita delle mani con quelle dell’altro. I toraci aderiscono in un perfetto incastro di muscoli e respiro e John getta lo sguardo in quello ceruleo di Sherlock, vicino, vicinissimo, non curandosi dei fischi eccitati e dei “Vai Watson!”, “Dacci dentro” ed altre varianti meno caste dei suoi amici alle loro spalle, perché di tutta l’intera giornata questo è sicuramente il momento migliore di tutti e di sempre.
“Allora devo sbrigarmi a prendere la mia medicina quotidiana, non sei d’accordo?” sussurra John lambendo col proprio fiato la bocca già schiusa di Sherlock.
“Assolutamente”  mugola questi, lasciandosi sfuggire un gemito di sincera approvazione quando l’altro dà inizio alle danze, tra l’acclamazione dei passanti e il silenzioso grido di vittoria di Mycroft, nascosto dietro ad una colonna.

                                                                                                        §

Quando raggiunge l’orgasmo, John si chiede se sia davvero solo tutta questione di chimica. Sì, insomma, quella roba che a Medicina impari sulle endorfine, adrenalina, eccetera. Perché se così fosse, oh beh, non si spiegherebbe il motivo per cui, cinque anni fa, a Sherlock non abbiano dato la lode.
Nudo, nel letto del coinquilino e quest’ultimo sotto di sé, tremante ed umido come una fogliolina appena uscita dalla sua gemma, ripensa alla prima volta che ha fatto l’amore, e maledice Dio, il destino, Buddha e i venusiani tutti per non aver incontrato prima Sherlock Holmes.
“John…” mormora il consulting detective, intervallando i sussulti a piccole risate fuori controllo.
Il medico strofina il naso nell’avvallamento tra le scapole del compagno, captando e registrando ogni sensazione, dall’odore intenso ma eccitante del sudore, alla fragranza dello shampoo al mughetto di Sherlock, dal profumo del sesso che impregna le lenzuola, all’aroma del caffè che Mrs. Hudson sta preparando giù al 221 A, catalogando il tutto sotto la voce “Vita”.
“Sher?”
“Qu-questa notte… è… st-stato semplicemente…oddio” balbetta il detective finendo la frase nell’ennesima risata.
John ride di riflesso e deve scivolargli via di dosso, stendendosi supino per tenersi gli addominali iper stimolati, in ogni senso, se non vuole morire soffocato sulla schiena di uno Sherlock in totale blackout mentale.
“Sì, ci puoi giurare!” conviene, asciugandosi gli occhi col polpastrello dell’indice destro e cominciando a regolarizzare il proprio respiro.
Sherlock, ancora a pancia in giù, inspira ed espira come se avesse percorso la maratona di New York in equilibrio sulle braccia ma, nonostante le scariche di piacere che continuano a scombussolargli ogni fibra del corpo, trova la forza per girare il collo verso John ed allungargli un braccio sul torace.
“Buon san Valentino, Sherlock” sussurra quest’ultimo al suo indirizzo, dolce come un cioccolatino ripieno di mou ed altrettanto stomachevole alle orecchie del destinatario.
“Fanculo san Valentino… Questa cosa me la dovrai fare tutti i giorni, ad ogni ora del giorno e della notte e in ogni stanza, senza discriminazioni tra superfici orizzontali e non. Mi sono spiegato, dottore?”
Entrambi scoppiano di nuovo a ridere come due adolescenti alla loro prima volta e non smettono nemmeno quando John cinge la schiena di Sherlock col suo braccio, in un intreccio appassionato che sa di promesse e genuinità.
Il suono melodioso della loro felicità rimbomba per tutto l’appartamento, fin giù a Baker Street, propagandosi ben oltre il parco, lungo il fiume, ed arrivando a contagiare tutta la città dell’infinita gioia che solo due anime, forgiate per morire nella fusione dell’una nell’altra, potrebbero trasmettere.
 

I never thought that you would be the one to hold my heart
You came around and you knocked me off the ground from the start

You put your arms around me
and I believe that it’s easier for you to let me go
You put your arms around me and I’m home 


Arms - Christina Perri

  
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