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Autore: leo rugens    15/02/2013    10 recensioni
Sistemò meglio lo zaino sulla spalla sinistra, combattendo il venticello che gli arrossava il naso.
I passanti spintonavano, correvano, «Ragazzo, stai attento a dove metti i piedi, per l’amor del cielo!»
Si limitava a stringere un po’ di più quei fogli ingialliti, delle scuse forse sussurrate, i nuvoloni grigi del cielo che pesavano sulle spalle, un macigno. Lui, miracolo vivente, andava avanti, il giubbotto di jeans consumato sui gomiti, il guanto grigio a mezze dita sfilacciato, il buco nero alle spalle che risucchiava tutto, magari anche lui.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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leo rugens' stories 2013 ©
Disclaimer: Questa storia è stata scritta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla.
Non si tenta in alcun modo di stravolgere il profilo dei caratteri noti.
Alcune citazioni sono tradotte da me, e sono prese dai libri The Fault in Our Stars e The Perks of Being a Wallflower.
Sono completamente estraniate dal loro contesto originale.
Nessuno degli One Direction mi appartiene, in alcun modo.
La trama è ispirata alla canzone The Man Who Can't Be Moved dei The Script, la sottoscritta ha ovviamente rimpinzato il tutto con la sua sfrenata fantasia.
Se copiate, giuro che vi prendo a sprangate. 



Oh, salve a tutti!
Eccomi qui, ad intasare questo fandom con la mia ennesima fanfiction Larry Stylinson! Doveva essere una one shot, doveva. La mia Vale mi ha consigliato (costretto, a dirla tutta, ma la amo lo stesso) a scrivere il sequel, forse perché non voleva che finisse male. Ma chi sa, come finirà!
Questo intanto è il primo capitolo (saranno due, è una cosa molto breve) e vorrei sapere cosa ne pensate, davvero.
Non ci metto niente a premere su completa e lasciare tutti con il dubbio, me compresa.
Se mi volete contattare trovate tutto nella mia bio, tanto amore per tutti,

Sun.


 


"Addio", disse al fiore. 
Ma il fiore non rispose. 
"Addio", ripeté. 
Il fiore tossì. Ma non perché fosse raffreddato. 
"Sono stato uno sciocco", disse finalmente, "Scusami, e cerca di essere felice."
Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria.
Non capiva quella calma, quella  dolcezza. 
"Ma sì, ti voglio bene", disse il fiore, "e tu non l'hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia questa campana di vetro, non la voglio più."
"Ma il vento..." 
"Non sono così raffreddato. L'aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore."
"Ma le bestie..." 
"Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano così belle. Se no chi verrà a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse bestie non ho paura. Ho i miei artigli."
E mostrava ingenuamente le sue quattro spine. 
Poi continuò: 
"Non indugiare così, è irritante. Hai deciso di partire e allora vattene."

Non voleva che lo vedesse piangere.

(Antoine De Saint-Exupéry - Le Petit Price)


 

The man who can't be moved


"How can I move on when I'm still in love with you?"

Capitolo uno.
 
***

Sistemò meglio lo zaino sulla spalla sinistra, combattendo il venticello che gli arrossava il naso.
I passanti spintonavano, correvano, «Ragazzo, stai attento a dove metti i piedi, per l’amor del cielo!»
Si limitava a stringere un po’ di più quei fogli ingialliti, delle scuse forse sussurrate,  i nuvoloni grigi del cielo che pesavano sulle spalle, un macigno. Lui, miracolo vivente, andava avanti, il giubbotto di jeans consumato sui gomiti, il guanto grigio a mezze dita sfilacciato, il buco nero alle spalle che risucchiava tutto, magari anche lui.


«Haz?»
Un naso che strusciava contro il suo collo, le dita intrecciate.
«Mh?»
«Ti amo.»
«Anche io.»


Il semaforo diventò verde e si affrettò ad attraversare l’incrocio, gli occhi un poco strizzati per la polvere che li irritava. Mancavano un paio di isolati, se ricordava bene. Non era cambiato niente: lo stesso café sull’altro lato della strada, il palazzo rosa accanto a un negozio di giardinaggio. Il suo pensiero volò , per gioco, anche alla sigaretta che fumò quel giorno.
La cicca era ancora lì sul marciapiede?
Se si sforzava riusciva quasi a vederla, l’impronta ancora calda delle labbra, il fumo che si disperdeva nell’umidità dell’aria.


«Lou, hai una sigaretta?»*
Gliela porse, guardandolo interrogativo. Harry odiava fumare, non sopportava la nicotina e tutte le dipendenze.
«Vuoi che te l’accenda?» Chiese, tastandosi le tasche alla ricerca dell’accendino.
«Oh, assolutamente no.» Rise lui, la sigaretta che ballava un poco.
«E perché la tieni in bocca?»
«Metafore, Tomlinson, metafore.»
Corrugò le sopracciglia, una tacita domanda che Harry afferrò al volo.
«Sto tenendo la morte fra le mie labbra, ma non le do il permesso di uccidermi accendendola.»
Sorrise scuotendo la testa, scompigliandogli i ricci con una mano.


«Signora, scusi…»
Una donna di mezza età lo superò scocciata, sbuffando. Lui non si diede per vinto e provò a fermarne un altro.
«Signore, ha un secondo?»
«Non compro niente.»
«Volevo solo chiederle un informazione.»
«Dimmi ragazzo.»
Tirò fuori una loro foto sgualcita dalla tasca del pantalone e la mostrò all’uomo.
«Ha visto il ragazzo con i ricci in giro da queste parti?»
«No, mi spiace.»
Neanche il tempo di mormorare un grazie che quello era già andato via. Sospirò sistemando meglio la sciarpa beige, che sapeva ancora di lui.


«Ma quella non è la mia sciarpa?»
«Solo per stasera, ti prego, sta benissimo con il maglione, e poi è tua!»
«Va bene, ma se la sporchi la lavi tu, a man…»
Un bacio frettoloso sulla guancia e lui fra le sue braccia.

«Harry, diavolo, sei diventato altissimo.»
«E tu devi farti la barba, pizzichi.»


«Ciao.»
«Ehi, posso chiederti una cosa?»
Il bambino lo guardò curioso, annuendo appena. Si chinò alla sua altezza, porgendogli la foto.
«Hai visto il ragazzo accanto a me nella foto da queste parti?»
«L’altro giorno al supermercato mentre mamma faceva la spesa. Perché?» Domandò, restituendogliela.
«Cosa ti rende felice?»
«Non lo so.»
«Allora riproviamo» Rise «Come ti senti quando sei felice?»
«Bene. Tanto.»
«Lui mi fa sentire così sempre.»
«Allora ritrovalo.» Guardò l’orologio della farmacia e spalancò gli occhi sorpreso «Devo andare a casa, ciao!»
Lo salutò con la mano finché non sparì all’angolo della via, l’elastico della fionda che penzolava fuori dalla tasca.


«Harry, piantala di leggere quel libro, gli involtini si freddano!»
«Non è 'quel libro', è The fault in our stars.» Borbottò entrando in cucina e guardandolo male.
Alzò lo sguardo dal suo piatto, smettendo di mangiare.
«E cos’ha di speciale?»
«Tutto, dice la sacrosanta verità ogni volta.»
«Tipo?»
«Ti ricordi quando mi leggevi i racconti che scrivevi alle elementari?»
Rise, e fra un sorriso e l’altro aggiunse un sì sussurrato.
«È  lì che ho capito di essere innamorato di te. »
«C’è un momento preciso in cui capisci di amare qualcuno?»
Annuì, baciandogli il naso.
«Perché ti innamori nello stesso modo in cui ti addormenti. Poco alla volta e poi, bum, tutto insieme.»**



Arrivò giusto davanti all’angolo della strada e, tirata fuori una coperta, si sedette senza tante cerimonie sul marciapiede.
Tolse il cappello di lana chiaro, inspirando a fondo e alzando, dopo secoli, gli occhi al cielo: era azzurro, come l’ultima volta.
A Louis piaceva, il cielo ma non perché gli ricordava i suoi occhi. Perché gli prometteva l’infinito, quello di cui tutti hanno paura ma ne sono terribilmente, inevitabilmente affascinati. Non aveva idea di cosa fosse. Non un otto a cui qualcuno aveva fatto lo sgambetto, non le promesse fatte a sedici anni al ragazzo di turno. L’infinito era nelle piccole cose. Nel tè fumante sul ripiano di cucina, nel libro mezzo rovesciato sul divano, nel sole che tramontava, nei pop corn bruciati dal microonde, nel CD graffiato della playlist dell’anno prima. Nella sua voce rauca la mattina, nei suoi messaggini stupidi, nei suoi morsi sulla guancia, nei suoi «Ehi Boo!».
O forse quella era perfezione? Non aveva mai distinto bene le due cose.
Forse perché andavano un po’ a braccetto, come il formaggio e le pere, pane e Nutella.
Forse perché Harry era entrambi: perfettamente infinito e infinitamente perfetto.


«Figliolo, non puoi stare qui.»
La sua attenzione fu catturata da un poliziotto panciuto, i pollici in tasca, le dita rilassate contro le cosce.
«Oh, io credo di sì invece.»
«Non vorrai una multa, vero?»
«Vede, io sto aspettando qualcuno. Non so quanto ci metterà ad arrivare. Magari fra dieci minuti svolta l’angolo, forse passerà fra un mese, un anno. Questo è il posto dove ci siamo conosciuti sa? E io lo aspetto qui. Non importa quanto ci metterà ad arrivare. Sa che, se vuole rivedermi, io sono qui.»
«A me basta che tu non faccia danni, ok?»
«Non li farò, stia tranquillo.» Sorrise.
L’altro se ne andò fischiettando, il cappello ben calcato in testa.


Una signora gli lanciò degli spiccioli, una ragazzina una banconota.
«Ma che diavolo? Non li voglio, non ne ho bisogno!»
Cercò di ridarli indietro ma loro erano già sparite, inghiottite dalla fretta delle strade.
«Che palle.» Mugugnò risedendosi a gambe incrociate, come quando era bambino e faceva i capricci.
Louis non era povero, non era un barbone. Aveva solo il cuore a pezzi, e quello non lo poteva riparare nessuno.


«Harry, piantala.»
Quello per tutta risposta morse ancora più forte il suo labbro inferiore.
Un ultimo bacio lieve a fior di labbra e riaprì gli occhi, il verde dei suoi occhi pronto a mangiare il mondo.
«Sei un assassino.» Borbottò massaggiandosi il collo, un segno rosso ben visibile sulla pelle chiara.
Sorrise, le fossette apparsero come sempre.
«Sai di buono, Boo.»
«Cannibale.»
«Ti amo.»
«Anche io.»



«Signora ha visto questo ragazzo?»
«No, mi spiace.»
La notte stava calando, un brivido gli scosse le braccia. Si affrettò a tirare fuori il sacco a pelo e a infilarcisi dentro.
Perché lo avrebbe aspettato giorno e notte, con la pioggia, la neve. Lui non si sarebbe mosso, semplicemente aspettava.


«Harry, dai, vieni qui.»
Si stese sul divano accanto a lui, immobile.
«Con ‘qui’ intendevo ‘abbracciamoci’.»
Lui sorrise fra le lacrime e nascose il viso nel petto di Louis, le lacrime che bagnavano  la maglia a righe.
«Non piangere Haz, ci sono io adesso.»



Louis amava Harry. Lo amava dal primo ricciolo fino alle dita dei piedi, per le fossette, quando piangeva in preda ad una delle sue crisi esistenziali, se sorrideva, quando guardava un film. E lui c’era sempre, in ogni momento. Cadeva, lo rialzava. Perdevano l’equilibrio, salvava entrambi.
«Sei la mia roccia, Louis.»
Perché si rifiutava di affondare.
«Tu la mia ancora, Haz.»


Ogni giorno che passava sempre più gente si fermava a parlare, a chiedere. Lui, pazientemente, spiegava a tutti. Alla vecchietta con il pane fresco in borsa, ai bambini, alle ragazze che 
«Oddio, che romantico!», anche ai piccioni, se gli andava.
Mentre si mangiava un panino al tonno si ritrovò davanti una donna in tailleur, con tanto di cameraman a seguito.
«Louis Tomlinson?»
«Si?»
«Ha un minuto?»
«Tutto il tempo che vuole.»


«Quindi, Louis, c’è qualcosa che vuoi dire a tutti noi prima che io chiuda il collegamento?»
Samantha, si chiamava così, tese il microfono verso di lui, così intimidito.
«Non c’è niente da dire, quello che sto facendo parla da sé. Io sono qui da tre mesi e sette giorni, aspetto lui. Forse passerò alla storia come il ragazzo che non si spostò o il ragazzo che aspettava. Insomma, uno di quei nomi alla Harry Potter.»
 Risata generale.
«Non so se vedrà mai questo servizio, se farò il giro del mondo restando seduto su un marciapiede. Non mi interessa essere in diretta televisiva. Voglio solo che lui sappia che io sono qui, dove ci siamo conosciuti, ad aspettare che svolti l’angolo.»
«Qui è Samantha Covers, linea allo studio. »


Sistemò meglio lo zaino accanto a sé, combattendo il venticello che gli arrossava il naso.
I passanti spintonavano, correvano, «Ragazzo, combina qualcosa, alzati e trovati un lavoro!»
Si limitava a stringere unpo’ di più quei fogli ingialliti, degli accidenti borbottati,  i nuvoloni grigi del cielo che pesavano sulle spalle, un macigno.
Lui, miracolo vivente, andava avanti, il giubbotto di jeans consumato sui gomiti, il guanto grigio a mezze dita sfilacciato, il buco nero alle spalle che risucchiava tutto, magari anche lui.


Correva, in ritardo come al solito.
Era rimasto troppo a casa di Stan e, a cinque minuti dal coprifuoco, si ritrovava dall’altra parte della città a correre come un dannato verso la fermata della metro più vicina.
Girò l’angolo, affrettandosi ancora di più, finendo addosso a qualcuno che lo fece cadere rovinosamente a terra.
«Oops!»
«Ciao!»



Non si sarebbe mosso, sapeva aspettare.
 

 

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