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Autore: deuxexmycroft    19/02/2013    6 recensioni
Cinque anni dopo aver fatto rinchiudere l'omicida Sherlock Holmes dietro le sbarre, emerge un feroce emulatore. Un riluttante John Watson è costretto a lasciare il suo pensionamento alla ricerca della consulenza dell'unico uomo che possa aiutarlo, un uomo che ha sviluppato per lui un'inquietante ossessione .
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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LOSS 4

NdT: Questo capitolo era interminabile. Mi scuso nuovamente, comunque credo che non faccia molta differenza dover aspettare ora o più tardi, visto che l'autrice non è ancora andata oltre al capitolo 5, sebbene abbia annunciato che ce ne saranno in tutto 7. E fidatevi di me, quando vi troverete a dover aspettare, finito il capitolo 5, vi mangerete le mani. Ancora un po' e dovranno rinchiudere anche me.

Ed ora che vi ho terrorizzati, buona lettura!!


EDIT: L'autrice ha gentilmente acconsentito a rispondere alle vostre domande! Pubblicherò un altro annuncio anche nel prossimo capitolo, ma siccome ha l'aria di essere mostruoso non garantisco sulla sua puntualità neanche stavolta, pertanto se volete iniziare a mandare le vostre domande, fate pure! Potete inviarle a questo account. Le risposte verranno pubblicate nell'ultimo capitolo (7)






Sherlock era sdraiato sul sottile materasso della sua cella spoglia, gli occhi chiusi contro il blu abbagliante della luce sopra di lui. Poteva udire i gorgoglii e gli schiocchi delle lampadine fluorescenti come unghie su una lavagna, troppo flebili per la maggior parte delle orecchie, ma l’udito di Sherlock era eccellente e facilmente adattabile e in quel clima silenzioso aveva già imparato a cogliere lievi, insignificanti suoni.

John era venuto e se n’era andato quella mattina, ma questo era stato ore prima, e Sherlock aveva già rimuginato su quell’incontro un numero di volte sufficiente per ciò che credeva fosse prudente per quel giorno. La cosa più sensata da fare per un uomo con del tempo illimitato e niente da fare con esso era di non sprecare i propri ricordi. Altrimenti, questi lo avrebbero reso pazzo.

Udì dei passi, affaticati e oberati dal lavoro, un inserviente, dunque.

Sherlock calcolò le ore e realizzò che era ora di cena. L’odore del cibo da ospedale lo raggiunse allora, seguito dal leggero odore di sudore di Dimmock, che portava un nuovo dopobarba.

“’Sera,” disse Dimmock e Sherlock lo sentì posizionare il vassoio del cibo nella scatola scorrevole, e poi ci fu un fruscio di grandi fogli di carta. Un giornale.

“Pensavo che lo scopo di questo esercizio fosse quello di privarmi di stimoli mentali,” disse Sherlock freddamente.

Sentì lo strascichio nervoso di Dimmock. “Il dottor Smith vuole che tu lo abbia.”

Davvero.” Sherlock si stiracchiò e rotolò giù dal letto, colmando i pochi metri che lo speravano dalla scatola scorrevole. Dimmock si dileguò silenziosamente, non ansioso spendere più del tempo necessario di fronte alla cella di Sherlock, quando Sherlock raccolse una mela dal vassoio e prese in mano il giornale, aprendolo.

LA POLIZIA CONSULTA UN ASSASSINO campeggiava a gran voce sulla prima pagina dell’edizione della sera del quotidiano, e più in basso, in caratteri più piccoli: “Sherlock Holmes aiuta la polizia nelle indagini dell’emulatore cannibale”.

Eccitante. I segreti stavano iniziando a emergere. Sherlock si lasciò cadere sulla branda e prese un avido morso dalla mela, gettando uno sguardo alla pagina.

Illustravano la storia con una fotografia di John a quella che sembrava una conferenza stampa, la sua figura minuta parzialmente oscurata dalle guardie di sicurezza della polizia mentre tentava di ignorare i giornalisti che gli erano sciamati attorno. Il suo volto era di profilo, gli occhi abbassati e un’espressione forzatamente neutra. La didascalia lo definiva senza espressione, ma Sherlock pensò a ‘di pietra’. Riusciva a cogliere il panico nella tensione della sua mandibola, nelle sue labbra tirate. L’angolazione era perfetta per ammirare la lunghezza delle sue ciglia bionde, ridotte, in stampa, a una delicata macchia di inchiostro sopra al suo zigomo.

Sembrava che la conferenza stampa non fosse andata esattamente come avevano pianificato.

Invece che consigli al pubblico su come evitare il killer, come avrebbe voluto la polizia, l’articolo favoriva il dramma, focalizzandosi su John come colui che era l’unico sopravvissuto agli attacchi di Holmes e che quindi poteva raccontare nuovamente quelle storie vecchie di cinque, clamorosi anni. C’era un riassunto del caso Holmes e del crollo della polizia, accompagnato dalla consueta foto di Sherlock fuori dal tribunale nel suo abito nero dal taglio stretto, fiancheggiato dalle guardie del corpo. Usavano sempre quella. Contro il cielo pallido, la figura di Sherlock sembrava quasi una silhouette. Sherlock invidiava il suo vecchio se stesso in tutto quello spazio.

In tono cospiratore, il giornale documentava come John si fosse presentato, mentendo, come un ufficiale di polizia al dottor Culverton Smith (il quale sorrideva con aria di sufficienza nella sua fotografia prima che Sherlock la strappasse via) con lo scopo di garantirsi un accesso a Holmes.

Infine, c’erano i fatti. I corpi delle prime tre vittime erano stati scoperti nel Tamigi e una era stata identificata come la figlia da lungo scomparsa di un politico. Sherlock sfogliò i propri ricordi come pagine con una risata. I metodi del killer erano stati indovinati, lo scrittore si dilungava sui pericoli dell’era tecnologica, e, più importante, su come la telecamera e il microfono di un computer potessero essere facilmente manomessi dall’esterno.

Più in fondo nella pagina c’era una foto di Sherlock che non era mai stata stampata prima, di lui e John, tagliata da una fotografia dell’intero gruppo felice e vagamente ubriaco al pub. Era successo dopo un caso chiuso con successo. Sherlock appariva superbo e annoiato, consentendo riluttante ad essere fotografato, mentre John sorrideva liberamente all’obbiettivo con il braccio di un Greg non inquadrato appoggiato alle sue spalle. Le sue guance erano arrossate dall’alcol, anche se l’effetto era in qualche modo reso minore dal bianco e nero.

Era stata scattata appena prima dell’inizio di ciò che sarebbe diventato noto come il caso Holmes, ricordò Sherlock, facendo scorrere le dita lungo la carta di giornale. Quel John innocente di fianco a lui non aveva idea di ciò che stava per succedere. Se Sherlock fosse tornato indietro nel tempo e gli avesse detto tutto, John si sarebbe semplicemente lasciato andare a quella sua risatina sussurrante e gli avrebbe assestato un pugno sul braccio.

Sherlock soffriva pensando a un tempo in cui John lo avrebbe toccato di sua iniziativa. Gli mancava il calore di quella pelle proibita contro la sua.

Il giornale discuteva l’attuale teoria che il killer stesse copiando le date degli omicidi di Holmes, sia il giorno che il mese. Arrivava velocemente al punto dicendo che ciò stava a significare che il killer avrebbe potuto andare in cerca della sua prossima vittima il giorno successivo, un vecchio anniversario del giorno in cui Sherlock aveva rapito Terry Goodwin, il fagottista della London Philharmonic, e lo aveva affettato per servirlo a una cena.

Sherlock sorrise largamente e diede un morso alla mela. Questo lo riportò indietro.

Anche quand’era più giovane, Sherlock aveva sempre amato le sinfonie. Ammirava particolarmente il lavoro di Dmitri Shostakovich, un compositore sovietico il cui talento era sempre stato frenato dai capricci di Stalin. Quando aveva appreso che la London Philharmonic stava organizzando un concerto per suonare la Quinta Sinfonia alla Royal Festival Hall, aveva comprato in anticipo i biglietti per varie serate consecutive. La Quinta Sinfonia era la sua preferita, una pacata sfida di Shostakovich alle critiche, che costringeva a riconoscere la piena grandezza di un genio nel modo in cui la sua musica portava gli ascoltatori alle lacrime.

Sherlock aveva un orecchio perfetto, il che si era dimostrato sia una benedizione che una maledizione nell’arco della sua vita. Coglieva le piccole note che sfuggivano alle orecchie dei più ignoranti. Ricordava di essere seduto con John a bere il tè, lamentandosi della musica classica, e alla fine facendogli ascoltare una vecchia registrazione di qualche idiota che strimpellava Chopin che doveva essere stato un triste regalo di Natale. Aveva estratto il CD in buona fede solo per ridursi a ribollire di rabbia per la quantità di errori presenti. John, comunque, ascoltò fino alla fine, solo per sfoderare un debole sorriso quando la tortura fu conclusa e dire che era stato bello.

Perciò Sherlock sapeva che poteva trarre piacere soltanto da una performance perfetta, ma si fidava della London Philharmonic.

Era una fiducia che si sarebbe rivelata mal riposta.

Subito dopo essersi seduto per sprofondare nella musica, il suo orecchio sensibile aveva individuato errori inaccettabili. Le pecche erano piccole; leggere sbavature e note stonate. Erano come un granello di polvere in un occhio e impossibili per Sherlock da ignorare. Le ricondusse al fagottista, che avrebbe più tardi identificato come Ted Goodwin, e notò le scarpe costose dell’uomo, le mani morbide e le labbra che sembravano così poco utilizzate da non avere niente a che vedere con quelle di un fagottista. Se ne andò presto, discretamente, e vendette i biglietti della stagione rimanenti su eBay. Rimuginò rabbiosamente per giorni, pianificando la sua vendetta.

Si trovava nel bel mezzo dell’azione quando udì la voce di John alla porta.

“Sherlock?” John sembrava curioso. Probabilmente aveva visto la luce, forse dei movimenti, e John non era stupido. “Sei in casa?”

Sherlock guardò il proprio corpo macchiato di rosso, le mani scivolose per il sangue, e fece una smorfia di fronte a quell’ingiustizia.

“Stai bene?” La curiosità stava diventando preoccupazione.

I gemiti ai piedi di Sherlock crebbero d’intensità e, mentre il campanello risuonava nuovamente attraverso la casa, Sherlock realizzò che doveva agire in fretta.

Si fiondò in camera da letto, strappando le lenzuola dal letto con uno strattone violento e avvolgendovisi in modo che spuntasse solo la testa. Dopo un veloce controllo allo specchio per verificare che tutte le parti importanti fossero coperte, calciò via le scarpe macchiate di sangue e strascicò fino alla porta. Mentre camminava, il suo volto iniziava a rilassarsi. I suoi occhi lacrimavano come se gli pizzicassero e raccolse un po’ di saliva in fondo alla gola. La sua postura si incurvò, come se fosse esausto. Sembrava in punto di morte quando aprì la porta al sole di mezzogiorno.

“Sherlock!” esclamò John, il suo sguardo guizzò su Sherlock come se non riuscisse a credere a ciò che stava vedendo. Era una reazione comprensibile. Sherlock stava bene quando si erano visti quella mattina.

Sherlock tossì forte. Ancora parecchio più alto di John, incombeva su si lui dalla cima delle scale come uno spaventapasseri rotto. “Cosa fai qui, John?” chiese, lasciando che la sua voce uscisse roca. “Sto poco bene.”

“Mi dispiace tanto.” John piegò la testa, imbarazzato, poi iniziò a frugare nella tasca della sua giacca. “Hai, uh, lasciato il cellulare nella mia macchina, stamattina.”

Glielo porse in una piccola mano pulita. Le mani di Sherlock erano rosse e prudevano sotto al lenzuolo che si stringeva attorno al corpo. “Puoi appoggiarlo sul tavolo?” disse, accennando in direzione del porta vasi che stava subito dentro. John non fece domande, si allungò all’interno e posò cautamente il Blackberry di Sherlock. “Grazie.”

“Stai bene? Posso portati qualcosa?” Si spostava di qua e di là ai  piedi di Sherlock, sembrando terribilmente premuroso.

“Credo sia meglio che tu te ne vada,” disse Sherlock. “Non ho dubbi di essere contagioso.” E tossì di nuovo per sicurezza. “Starò bene. So che non agisco come tale, ma io sono un dottore.”

Il sorriso di risposta di John era tirato e incerto, ma ovviamente non voleva forzare Sherlock. “Va bene,” disse infine. “Rimettiti in fretta. Puoi mandarmi un messaggio se ti serve qualcosa.”

Sherlock sorrise debolmente e John se ne andò senza lamentarsi.

Sherlock sbatté la porta e si strappò di dosso le disgustose lenzuola che gli si erano attaccate alla pelle, lasciandole cadere in una pila bianca, rigida e rossa ai suoi piedi. Erano rovinate. Non c’era verso che avrebbe dormito di nuovo in delle lenzuola che erano state in contatto col sangue di quell’idiota.

Si rimise le scarpe e tornò nel suo ufficio.

La stanza era coperta, dal pavimento al soffitto, da un telo di plastica. Su una cerata bianca sul pavimento, nelle cui pieghe e avvallamenti del tessuto si stava già raccogliendo del sangue rosso, giaceva il corpo legato e sanguinante di Terry Goodwin, l’inutile fagottista della London Philharmonic. Aveva un corpo sano ma massiccio, con capelli diradanti e supplicanti occhi verdi che continuavano a spillare patetiche lacrime sulle sue guance rotonde. La sua bocca era distorta da un bavaglio e poteva produrre unicamente suoni soffocati e grugniti. Sarebbero stati gli ultimi suoni che avrebbe mai generato.

Sherlock si portò sopra di lui con deliberata crudeltà, premette forte il tacco della sua scarpa sulla guancia dell’uomo.

“Bene, eccoti di nuovo a crearmi disagi.” Premette più a fondo, abbastanza forte da lasciare un solco lì dove i margini del tacco affondavano nella carne. “Prima rovini la mia serata alla Royal Festival Hall con il tuo soffiare da dilettante durante una delle più squisite sinfonie mai composte, e ora schizzandomi con quel tuo sangue sporco che mi ha costretto a mentire a un amico. Non posso mentire a questo.”

Gli assestò un calcio e compì qualche passo dietro la testa di Terry, così che l’uomo dovette torcersi e tendersi per mantenere il suo sguardo sul luogo dove Sherlock stava indugiando sopra ai suoi strumenti sul tavolo da lavoro cautamente coperto.

“È più astuto di quanto lui stesso creda,” mormorò Sherlock. “Quella sorta di sospetti tendono ad accrescere nel cervello di una persona.”

Le sue dita sorvolarono un coltello per disossare dalla punta acuminata e la lama sottile e le avvolse gentilmente attorno all’impugnatura, sollevandolo lentamente così che il metallo mandasse bagliori nella luce sovrastante. Dietro di sé, udì un’esplosione di gemiti soffocati.

“Non importa.” La voce di Sherlock si abbassò leggermente mentre occhieggiava la lama affilata di recente, la sua mente ripiena della visione della pelle soffice come pesca di John, in piedi di fronte alla sua porta. “Ci penserò più tardi.”

Riposte al sicuro le memorie di John, Sherlock si voltò verso il suo obiettivo. Rigirò il coltello nella sua presa, abile come uno chef, e iniziò a girare attorno al corpo accartocciato di Terry.

“Erano anni che desideravo assistere a una performance dal vivo di Shostakovich, capisci? E mi sarei goduto la serata immensamente se non fosse stato per le continue intromissioni di un fagottista stonato. Non ti sei presentato alle prove con i tuoi compagni musicisti? Non riuscivo a capire. Poi mi sono chiesto, come diavolo ha potuto questo imbecille ottenere un posto in un’esecuzione tanto importante?” I suoi occhi si strinsero in disgusto. “Avrei dovuto capirlo. Eri il figlio di qualcuno, il fratello di qualcuno. Le classi superiori hanno l’orribile abitudine di favorire la famiglia più che il talento.”

Terry gemette le sue suppliche, le sue proteste, e Sherlock si crogiolò in quella paura mentre si inginocchiava vicino alla testa dell’uomo. Quando sollevò il coltello per appoggiarlo sotto all’occhio di Terry, l’uomo si ammutolì all’istante alla minaccia implicita.

“Bene,” disse Sherlock, lasciando che il piacere gli scivolasse sulla lingua. “Non serve parlare. Non ti toglierò il bavaglio. Questa non è una conversazione e non c’è nulla che tu possa dire che mi persuaderebbe dall’ucciderti. Pensa alla tua morte come inevitabile, se ti può aiutare.”

Chiaramente non aiutò, poiché l’uomo iniziò a tremare e a dimenarsi come se sperasse di divincolarsi e fuggire. Sherlock affondò il coltello nella carme delicata sotto al suo occhio per immobilizzarlo e il sangue sgorgò come lacrime.

Sherlock si chinò a sussurrare proprio all’orecchio di Terry Goodwin. “Darò una cena per i mecenati della London Philharmonic. Riconoscerai alcuni dei nomi, sono coloro che ti hanno introdotto ai loro favori, e facendo ciò hanno rovinato il lavoro di una mente geniale. Ti servirò a loro. Sbatterò la tua carne per farne uscire l’aria e poi la rosolerò in un filo d’olio.” Strinse la mano attorno al corpo dell’uomo come se si trovasse dal macellaio. “Sembri avere dei buoni tagli.”

Il suo volto si oscurò e con una spinta feroce affondò ancora di più il coltello. L’uomo gridò sotto il bavaglio, un grido autentico. Sapeva che stava per morire.

Più tardi, quella sera, si profuse in un generoso sorriso mentre gli ospiti alla sua cena si  complimentavano per il piatto che aveva servito.

 

***

 

Era una mattina presto quando la squadra del detective ispettore capo Gregson e la loro recluta si radunarono per discutere del caso dell’emulatore. C’era una sensazione di timore che permeava l’aria al pensiero di ciò che il giorno seguente avrebbe portato. Le ultime edizioni dei giornali giacevano qua e là nella stanza per essere esaminate e, come cinque anni prima, la figura affilata di Sherlock Holmes li scrutava dalle fotografie in bianco e nero.

Al momento Sally si trovava al centro dell’attenzione, con la sua lavagna piena di nomi e date che collegavano gli omicidi dell’emulatore all’originale, un cerchio rosso attorno al nome di Terry Goodwin.

“L’omicida ha iniziato all’inizio dell’anno,” dichiarò Sally, “e ha lavorato in un tempo più ristretto se paragonato a Holmes. Notate come i giorni e i mesi combaciano, ma gli anni sono irrilevanti? Ecco perché gli omicidi non sono accaduti in ordine perfettamente cronologico. Sta considerando gli omicidi che Holmes ha compiuto in tre anni.”

Il suo puntatore viaggiò lungo la lista di nomi e il suo volto prese colore quando raggiunse quello di John. La muta minaccia alla vita di John era qualcosa a cui tutti avevano pensato, ma a cui non avevano dato voce, e ciò fece ribollire Sally di rabbiosa frustrazione.

Si schiarì la voce e continuò. “Abbiamo identificato un’altra delle donne, quella uccisa più di recente tra i corpi ritrovati nel fiume. Il suo nome era Molly Hooper. Era una patologa dell’ospedale St Bart. Il proprietario di casa ne ha denunciato la scomparsa dopo che aveva saltato il pagamento dell’affitto e non era riuscito a contattarla. Aveva pianificato un pagamento automatico dal suo conto bancario che aveva iniziato ad attingere ai suoi risparmi molto tempo dopo la sua morte. I soldi sono finiti solo di recente.”

Toby lanciò un’occhiata astuta da dove stava appoggiato alla scrivania di un agente. “L’appartamento è intatto? Ci si siete già stati?”

“Dovrebbe essere stato lasciato così com’era, signore,” rispose Sally con disinvoltura. “Il detective Hopkins e io ci andremo appena finito qui. Ciò che sappiamo al momento è che è stata uccisa in casa sua e che la porta non è stata forzata.”

“Il che non mi convince,” brontolò Toby, incrociando le braccia. “Com’è entrato? Le donne non invitano semplicemente degli sconosciuti a entrare nelle loro case.”

“Forse non era uno sconosciuto,” propose John dal luogo dove sedeva con Greg e le teste si girarono a guardare nella sua direzione. “Se può accedere alle telecamere e ai microfoni dei portatili, probabilmente si procura i loro indirizzi IP per trovarle. Forse riesce a conoscerle qualche giorno prima… sapete.” Lasciò sfumare la voce e si strinse nelle spalle.

Gli occhi acuti di Toby si strinsero mentre pensava. Sally sapeva che lui e John non erano più in buoni rapporti dopo il disastro della conferenza stampa, ma Toby rispettava John e lo ascoltava come sempre.

“Alcune delle porte sono state forzate, però,” puntualizzò Toby infine. “Serrature scassinate.”

John scosse la testa. “Sappiamo già che è capace di modificare il suo metodo perché si adatti alla sua vittima. Non rischierà di fallire nel recapitare il suo messaggio.”

“Perché siamo così certi che il killer sia un uomo?” domandò Sally, colpendosi le dita con la bacchetta. Un segno di nervosismo. Si agitava sempre e di recente era stata troppo stressata per preoccuparsi di nasconderlo.

“L’abbiamo dato per scontato fin dall’inizio, no?” rifletté Greg. Era stato il caso suo e di Sally, all’inizio, prima che diventasse troppo serio per essere gestito da un detective ispettore.

“È molto più probabile che il killer sia un maschio, Donovan,” disse Toby in tono generoso. “La maggior parte dei serial killer lo è.”

“Sherlock si è riferito all’assassino come un uomo prima che gli potessi dire qualunque cosa,” aggiunse John. “L’ha detto come se fosse ovvio.”

Questo fece saltare tutte le precauzioni di Sally. “Oh, allora se lo dice Sherlock --”

“Donovan!” ringhiò Toby. “Basta. Apprezzo che tu stia cercando di vederla da un altro punto di vista, ma per semplicità continuiamo a riferirci a lui come a un lui.”

E a quel punto, anni di risentimento accumulato esplosero in Sally come acqua da una diga rotta.

“È che sono stanca di prendere le parole di quell’assassino per vangelo!” esclamò. “Ci ha mentito per mesi, anni, senza nessuno scrupolo. E anche se sapesse qualcosa su questo caso, credete davvero che ci dirà tutto? Non lo farà mai. È un fottuto psicopatico famelico e ci propina indizi sotto forma di indovinelli, abbastanza per costringerci a mandargli il povero John ancora e ancora per supplicarlo di dirci di più.”

“Non mi dispiace andarci,” disse John velocemente e Sally non lo derise, ma ciò che stava pensando era probabilmente palese sul suo volto.

“Sei un pessimo bugiardo, John. Ti sei ritirato per una ragione, ma ora ti abbiamo tutti costretto a tornare e farti rivivere qualcosa che non dovresti mai ricordare, così che non dobbiamo guardare in faccia la nostra ignoranza. Sherlock ti sta usando; ti tormenta per il suo divertimento personale. Noi ti siamo usando,” insistette e agitò la mano quando iniziarono a sentirsi brontolii scontenti, “no, davvero, lo stiamo facendo, e nessuno vuole ammetterlo, ma mi fa venire la nausea il fatto che ti abbiamo riportato in tutto questo quando invece dovremmo proteggerti. Guarda qui!”

Afferrò una copia del Telegraph, dove John la faccia preoccupantemente pallida di John campeggiava in prima pagina.

“La conferenza stampa è stata un’idea di John,” disse Toby forzatamente, la rabbia gli risaliva la spina dorsale, e Sally sapeva di stare camminando sul ghiaccio sottile.

“Signore,” disse educatamente, ma a denti stretti, “se posso parlare liberamente –”

“Non puoi,” rispose Toby, sprezzante. “Credo che abbiamo colto la sostanza. Presumo che la tua presentazione sia conclusa?”

Sally mantenne il silenzio per un momento, sforzandosi di incontrare quello sguardo d’acciaio, ma erano in pochi a saper fronteggiare lo sguardo di Toby Gregson. Nel suo pieno vigore, la sua personalità equivaleva a un bulldozer. “Sì, signore,” disse infine, sentendosi sgonfiata.

Toby batté insieme le sue larghe mani. “Bene! Ora che siamo tutti aggiornati, voglio che torniate di nuovo sulle prove!” Ci fu un lamento. Per lo meno venivano pagati per tutto il tempo che il caso richiedeva loro. “Donovan, Hopkins, andate all’appartamento della signorina Hooper e date un’occhiata come si deve. E Donovan,” abbassò il tono della voce a un gentile promemoria, “diminuiamo un po’ le teorie cospiratrici, va bene? Siamo solo un pugno di detective, in carica e non, che lavorano insieme per cercare di catturare un bastardo.”

Sally annuì brevemente. “Sì, signore.”

Sentì che John la stava guardando e non fu sorpresa quando lui le venne incontro mentre tutti gli altri scattavano alle loro postazioni di lavoro. Gironzolava in lontananza mentre lei prendeva cappotto e taccuino, dando l’impressione di volersi avvicinare e metterle una mano sulla spalla, ma poi si trattenne.

“Tutto bene?” chiese infine, aprendo e chiudendo le mani in imbarazzo lungo i suoi fianchi.

Sally strinse le labbra in una linea sottile e si girò a fronteggiarlo. “Non credo che dovresti fare tutto questo, John.”

John annuì. “Nemmeno io,” ammise. “Ma voglio, devo farlo. Impazzirei se me ne stessi seduto a casa a poter leggere di questo caso solo sui giornali.”

“È solo…” Sally sospirò, strofinandosi una mano sulla fronte. “Sei un civile, ora. Dovremmo proteggerti, invece ti stiamo mettendo proprio sulla traiettoria di fuoco.”

“Starò bene,” le assicurò John.

Sally scosse la testa. “Continui a ripeterlo a te stesso.”

“Sally!” chiamò il detective poliziotto Hopkins, i suoi occhi spalancati in urgenza. Giusto. L’appartamento di Molly Hooper. Con un sospiro diede le spalle a John e uscì per raggiungere l’agente.

 

***

 

Il sole era tramontato e Greg stava indossando il cappotto con movimenti stanchi. Era stata una lunga giornata. Dall’altro lato della stanza John stava facendo lo stesso. Il volto del piccolo uomo era segnato dalla stanchezza ed egli sistemò il colletto della giacca così che grattasse contro le morbide ciocche bionde ad ogni movimento. Mentre Greg usciva, John si voltò a guardarlo in attesa.

“Grazie per l’aiuto di oggi,” disse Greg, guardando in basso e strofinando il pollice contro il legno del tavolo lì vicino.

John inclinò la testa. “Non c’è problema.”

“Vai a casa, adesso?”

“Sì.”

L’esitazione di Greg dovette trasparire, perché la fronte di John si increspò al centro, con aria interrogativa.

“Cosa?” chiese.

“È solo… probabilmente ci saranno un paio di giornalisti ad aspettarti alla porta,” fece notare Greg. E forse un serial killer. “Stavo pensando, forse potresti stare da me, invece. Ho una stanza per gli ospiti.”

John annuì di nuovo e diede l’impressione di rifletterci. “A tua moglie darà fastidio?” domandò.

Greg scosse la testa. “È in visita da un’amica. Anche se non lo fosse, sono sicuro che sarebbe d’accordo.” Si strinse nelle spalle, sorrise. “E per quanto riguarda me, mi sentirei meglio sapendo che sei al sicuro. Mi sento un po’ responsabile per te, ad essere onesto, perché sono stato io a trascinarti in tutto questo –”

“Tu non mi hai trascinato,” disse John con fermezza. “Ci sono entrato camminando.”

Greg trattenne il respiro per un istante. “Mi piacerebbe che venissi a stare da me,” ripeté. “Per tranquillizzarmi, se non altro.”

Gli occhi di John guizzarono sul suo volto come se stesse cercando qualcosa, poi sorrise. “Va bene,” acconsentì. “Prendiamo da mangiare mentre andiamo, sto morendo di fame.”

 

***

 

Un generosa porzione di takeaway cinese fu sparpagliata sul tavolino da caffè nel salotto di Greg, e lui e John crollarono sul divano di fronte alla televisione, succhiando noodle e criticando le notizie. Condivisero alcune birre per rilassarsi e forse Greg ne bevve un po’ più di John, ma chi le stava contando?

“Mi piacerebbe che si concentrassero di più su come le persone potrebbero proteggersi piuttosto che scavare in cerca di uno scandalo,” mormorò John, strofinandosi le dita sulla radice del naso come per scacciare un mal di testa. Sullo schermo la sicurezza gli stava facendo da scudo mentre i giornalisti si accalcavano per ottenere risposte alle loro domande. Greg osservò l’espressione abbattuta del vero John con preoccupazione.

“Tutto bene?”

Ci fu silenzio mentre John fissava la televisione per un tempo leggermente troppo lungo, ma poi inspirò profondamente e guardò Greg. “Sto bene. Penso ancora che ne sia valsa la pena.”

Sembrava pallido alla luce della televisione.

Greg bevve un lungo sorso di birra mentre il ricordo indesiderato di un John mortalmente pallido che giaceva comatoso in un letto d’ospedale vagava in prima linea nella sua mente. Ricordava di stare seduto di fianco a quel letto con la rabbia e la frustrazione che gli ribollivano dentro, e ancora non riusciva a comprendere come avesse potuto accadere cinque anni prima. Tutto sembrava risalire a ieri. Odiava ancora se stesso per essere stato l’uomo che aveva fatto accedere Holmes alle scene del crimine.

“Credi che ci sia la possibilità che domani non si verifichi un omicidio?” rifletté Greg, cercando di non sembrare troppo speranzoso.

“Non ne sono sicuro,” disse John con calma. “Sarà più difficile per lui. La gente prenderà precauzioni.”

“Vorrei poter pensare che lo batteremo.” Greg finì la sua birra e la accartocciò sul tavolino da caffè con uno deciso gesto plateale. “Rovineremo il suo messaggio.”

John fissava la tv con sguardo vuoto, come se ci stesse guardando attraverso. “Mh.”

Sembrava dubbioso. Dubbioso e terribilmente stanco, e con un tempismo perfetto la sua testa ricadde indietro sullo schienale del divano ed egli emise un lungo sbadiglio. I suoi occhi erano scuri e velati.

“Penso che dovrei andare a letto.”

“Va bene,” disse Greg, senza muoversi. Aveva già mostrato a John la casa. “’notte.”

“’notte,” disse John con il più piccolo dei cenni e si mise in piedi e uscì dal salotto.

Era bello sentire di nuovo la casa abitata. Greg ascoltò i passi di John sopra al tappeto e le piastrelle, lavarsi i denti, il rumore delle luci spente. Fece zapping tra i canali delle news, alla fine spense la televisione con inutile rabbia dopo essere capitato su una teoria che proponeva che John potesse essere l’assassino andato da Sherlock in cerca di consiglio. Rimase seduto nell’oscurità, frustrato, cercò di non pensare tropo alle esclamazioni di Sally Donovan, o al modo in cui John era sembrato quasi per nulla preoccupato qualche giorno prima, quando Greg lo aveva gettato nuovamente tra le grinfie di Sherlock.

 

***

 

Come Greg aveva predetto, c’erano alcuni paparazzi che vagavano fuori dall’edificio di John. Superarono guidando il gruppo in agguato mentre si recavano alla stazione di polizia, e John li guardò con quello che sembrava shock.

“Non ci credo…” mormorò, sedendosi più all’indietro sul sedile nel caso che qualcuno riuscisse a intravederlo. Probabilmente impossibile, ma non voleva correre rischi.

“Te l’avevo detto,” disse Greg. “Sono famelici.”

I media si erano già stancati di mandare in onda sempre gli stessi stralci di video della conferenza stampa e le foto iniziavano ad essere ripetitive. Avrebbero pagato molto per qualcosa di nuovo.

John si rigirò a disagio sul sedile. “Che tipo di risposta credono di poter ottenere da me?”

Greg soffocò una risata. “Qualunque risposta. Qualunque reazione. È tutto ciò che vogliono e fai bene a non lasciarti provocare da loro.”

John pensò al dottor Culverton Smith e alle sua fotografie raccapriccianti, e si accigliò.

 

***

 

La rilevanza accresciuta del caso iniziò a manifestarsi quella mattina. Toby Gregson era indaffarato a lavorare nel suo ufficio, già abituato al numero di telefonate da parte del nervoso pubblico che dichiarava di avere il virus. Come si erano aspettati, avevano ricevuto false confessioni, il numero di agenti necessari ad interrogarli tutti stava lentamente intaccando la sua forza pubblica.

E adesso il detective poliziotto Hopkins era scivolato goffamente nel suo ufficio con un’informazione a proposito dell’ultima persona che aveva telefonato, un giovane uomo che insisteva a dire che il killer lo stava osservando.

“Quell’uomo ha realizzato che sono le donne ad essere nel mirino dell’assassino?” chiese Toby stancamente.

“Sembra preoccupato, signore.” Hopking corrugò la fronte. “E il suo computer si comporta come quelli delle vittime.”

Toby agitò la mano verso la porta. “Va bene. Vai e controlla. Ma torna in fretta, mi servono tutte le mani possibili per questo.”

“Sì, signore,” disse Hopkins, rimbalzando sulle punte dei piedi. Sgambettò fuori dalla porta e Toby non ci pensò più.

 

***

 

Con il nome di Sherlock nuovamente sui giornali e i giornalisti che chiamavano su ogni linea, il dottor Culverton Smith fece visita alla sua celebrità nell’umida e buia cella nell’angolo più profondo dell’ospedale.

Lì, nella sua cuccetta, Sherlock stava allungato sul suo stomaco studiando attentamente il giornale per quella che doveva essere la centesima volta. Non si preoccupò della presenza di Culverton, nemmeno dopo che lui ebbe tossito un paio di volte nella speranza di vedere quegli occhi roteare con disprezzo.

“Interessante, vero?” sentenziò Culverton infine, con un leggero ghigno.

“Hai spifferato alla stampa che John è venuto a farmi visita.” Sherlock chiuse il giornale e lo lasciò cadere sul pavimento, fissando Culverton con un’occhiata talmente potente che egli poté sentirla attraversargli la testa.

“Mi hai costretto tu, Sherlock,” disse delicatamente, iniziando a camminare. La testa di Sherlock ruotò lentamente per seguirlo. “Mi hai deliberatamente tenuto fuori dal giro. E Dio lo sa, niente di ciò che ti faccio va mai oltre quel tuo spesso cranio, così ho pensato che questo ti avrebbe fatto recepire meglio il messaggio.”

“Questo?” ripeté Sherlock, il naso arricciato come se Culverton gli avesse appena vomitato sulle scarpe.

“Ho sentito che ha i giornalisti accampati fuori da casa sua,” disse Culverton, interrompendo la sua camminata e girando sui tacchi per fronteggiare Sherlock direttamente. Gli occhi glaciali si erano stretti in fessure, ma non c’era nulla verso cui dirigere quella rabbia. “Dev’essere orribile per John, ora,” continuò Culverton in tono dispiaciuto. “Rivivere la peggior esperienza della sua vita sotto gli occhi di tutti. Dicono tutti che l’assassino lo andrà a cercare, alla fine. Come ti senti ad averlo condannato a questo destino?”

Sherlock lasciò che il discorso di Culverton restasse sospeso in aria per alcuni secondi, poi voltò la testa di lato. “Cosa vuoi, dottore?”

“Voglio che tu mi dica tutto,” rispose Culverton istantaneamente, poi cercò di non agitarsi di fronte all’immediato sorriso di Sherlock. “Voglio scrivere questo libro e fare abbastanza soldi da ritirarmi per sempre da questo schifoso, fottuto ospedale dove devo avere a che fare tutto il giorno con dei coglioni come te. È il momento perfetto per iniziare a fare affari con un libro. Il tuo nome è di nuovo su tutti i giornali.”

“Che prevedibile,” disse Sherlock, rivolgendo un’occhiata divertita al soffitto. “E cosa ci guadagno a rivelare la storia della mia vita per un tuo profitto?”

Culverton si strinse nelle spalle. “In cambio, non renderò la vita del tuo John ancora più miserabile.”

L’occhiata di Sherlock guizzò nuovamente su di lui. “Non m’importa se è miserabile.”

“Sul serio, Holmes,” disse Culverton con sguardo torvo. Beh, non sarebbe stata la prima volta in cui Sherlock aveva finto un’amicizia per i suoi scopi. Forse John era meno importante di quanto tutti credevano. Frustrato, sollevò le mani. “Bene, cosa vuoi allora? Ti darò tutto ciò che è in mio potere, te lo garantisco.”

“Ci penserò,” disse Sherlock sbrigativo. Poi il suo sguardo andò lontano, calcolatore. “Finché ci troviamo in uno stato d’animo di trattativa, comunque, potrei avere un’informazione che ti aiuterebbe a riportare il tuo nome sotto i riflettori.” Sollevò un sopracciglio. “Potrebbe aiutare con queste faccende del libro.”

Con disinvoltura, Culverton appoggiò le mani sui fianchi. “Oh?”

Il sorriso di Sherlock fece balenare i suoi denti bianchi. “L’identità dell’assassino emulatore.”

Il cuore di Culverton gli balzò in petto ed egli faticò per mantenere un’espressione impassibile. Questa sorta di scambi erano ciò che più si avvicinava a una partita di poker tra lui e Sherlock. “Sai chi è?” chiese, leccandosi le labbra aride.

“L’ho saputo fin dall’inizio,” rispose Sherlock, inclinando la testa.

“Bene, perché non l’hai detto al tuo piccolo amico?”

Sherlock si guardò le mani e si grattò il retro delle sue lunghe dita. “John non ha niente da offrirmi, oltre alla sua presenza. Se gli dicessi tutto, smetterebbe di vedermi. Se gli nascondo l’informazione, continuerà a venire da me.”

Culverton era sorpreso, a malincuore. “Astuto.”

Sherlock agitò una mano, sprezzante. “È semplice psicologia, ma funziona con tutti.” Sottopose Culverton ad un’occhiata di traverso. “Persino con te.”

Culverton incrociò le braccia e ignorò quell’ultimo insulto. Nonostante Sherlock stesse agendo con nonchalance, stava parlando con inusuale candore. Era questo l’effetto della punizione? Avrebbe potuto funzionare. “Cosa vuoi, quindi, in cambio di quest’identità?”

“So che non uscirò di prigione, dottore,” sospirò Sherlock e ricadde  sulla schiena come un gatto, le braccia a ciondoloni come se fossero senza ossa. “Comunque, mi piacerebbe trascorrere il resto della vita con un po’ di comodità in più. Voglio vedere di nuovo il sole. Fammi avere una cella con vista. Fammi vedere gli alberi e gli uccelli, fammi ascoltare il suono di ciò che accade nel mondo, là fuori.”

Una nuova cella? Era facilmente fattibile. “La finestra sarà sbarrata,” lo avvertì, cercando di nascondere l’impazienza. Non voleva dare a Sherlock l’illusione di avere il controllo.

“Non m’importa,” disse Sherlock malinconicamente. Sembrava già che stesse guardando fuori da una finestra immaginaria.

Culverton si concesse un ghigno. “Allora ho la stanza che fa per te. Massima sicurezza, ovviamente, ma comunque molto piacevole. Dimmi il nome e sarai trasferito là.”

Sherlock trasse un profondo respiro ed esalò lentamente. “Le sue iniziali sono E.R. Ti dirò il resto quando mi avrai dato ciò che voglio.”

Nella sua testa, Culverton iniziava a pianificare, eccitato, la sua apparizione di fronte ai media, sui canali televisivi di notizie attraverso tutto il paese con un ‘Esperto Psichiatra’ di fianco al suo nome, venendo inneggiato come un eroe per aver rivelato l’identità del killer emulatore. “Non posso trasferirti per adesso,” si scusò, “poiché devo far ricostruire interamente la parte anteriore della cella. È fatta di sbarre, al momento.”

“Ti dirò il resto quando sarò nella mia nuova cella,” ripeté Sherlock freddamente.

Quanto difficile sarebbe stato? Culverton si accigliò. Sarebbe stato meglio trasferirlo subito e ottenere le informazioni prima che il killer colpisse di nuovo. Sicuramente avrebbero potuto attuare nuove procedure di sicurezza, come misura temporanea, ovviamente. L’avevano già tenuto dietro le sbarre, prima, e avevano imparato dai propri errori. Forse avrebbero potuto misurare la lunghezza delle braccia di Holmes e segnare una linea sul pavimento che non doveva essere varcata quando non era immobilizzato. Avrebbe potuto funzionare.

D’altro canto, Sherlock sarebbe stato di buon umore, per una volta, quando si fosse trovato là. Era un piccolo rischio.

Doveva agire in fretta. Quello era un buon momento per portare Sherlock dal lato dei buoni, se voleva fare affari con il libro.

“È una bellissima giornata oggi, Holmes,” disse con un ghigno. “Dovresti iniziare a prepararti a vederla.”

 

***

 

Sherlock lasciò sparire ogni espressione dal suo volto mentre veniva legato e la museruola gli veniva applicata dagli inservienti prudenti sotto lo sguardo vigile di Culverton. Il suo viso era la sua maschera, qualcosa dietro cui nascondersi mentre il suo cervello si sovraccaricava.

Nonostante il palese timore degli inservienti, un gruppo di persone dalla pittoresca storia di attacchi da parte di Holmes, egli fece lo sforzo di comportarsi bene e non si lamentò di nulla di ciò che gli fecero. Mentre lo trasportavano lungo il corridoio e su per le scale, i loro corpi si tendevano lottando contro il suo peso morto. Sherlock non poteva muover la testa, ma attorno a loro la luce degli ambienti iniziava a cambiare e ad aumentare nel momento in cui raggiunsero la cima delle scale.

Ora si trovavano al piano terra e salivano ancora, se Sherlock aveva contato bene gli scalini. Primo piano. Non vedeva ancora alcuna finestra, ma la luce diffusa nel corridoio non poteva essere altro che la luce del sole. Secondo piano ed egli intuì che le braccia degli inservienti erano grate di poter posare la barella. Quando lo spinsero attraverso le porte nel corridoio vasto, gli occhi guizzanti di Sherlock colsero il linoleum color crema e le pareti di un bianco splendente, così diversi dall’ambiente nei sotterranei. Respirò l’odore di antisettico e carne pulita, udì i passi veloci delle infermiere e i medici che si spostavano in fretta dal loro tragitto.

Sherlock mise da parte tutte le informazioni, per ora; avevano raggiunto le finestre. Mentre veniva spinto attraverso i corridoi spaziosi, allungò la testa verso sinistra per cogliere un’apparizione di sole giallo e cielo blu chiaro.

Raggiunsero la sua nuova cella, soddisfacemente più spaziosa, luminosa e ben illuminata dalla luce pomeridiana. Dopo che fu sistemato lì, tutto ciò che poté fare fu sedersi alla sua scrivania in legno e fissare con stupore fuori dalla finestra.

“Il nome?” chiese Culverton.

Fu come se stesse domandando da un luogo molto lontano, o come se Sherlock si trovasse immerso sott’acqua.

“Signor Ed Grin,” disse lentamente. “È tedesco e un ex aracnofobico.”

Non degnò di ulteriore attenzione il giubilo di Culverton.

Gli alberi ondeggiavano fuori dalla sua finestra e poteva immaginare di sentire la brezza sulla pelle. Chi avrebbe mai pensato che l’ospedale potesse avere dei terreni così belli?

E il sole! Sembrava una cosa uscita da un sogno. I suoi occhi lacrimavano, sensibili dopo così tanti anni trascorsi nella luce fluorescente e nell’oscurità, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dal quel bruciante sole pomeridiano che illuminava il cielo di un colore tanto magnifico.

 

***

 

John, Greg e Toby stavano scorrendo gli appunti dell’ultima intervista quando il telefono di Toby squillò con un fischio acuto. Era uno degli agenti in uniforme e Toby alzò una mano per zittire gli altri mentre rispondeva.

“Detective ispettore capo Gregson,” disse, mettendo il telefono in vivavoce.

La voce che ne provenne era decisa, ma tremava leggermente. “Signore, parla l’agente Fred Foster. Sono appena arrivato sul luogo dove il detective poliziotto Hopkins era andato a incontrare quell’uomo per prelevarlo e…”

L’uomo esitò, chiaramente spaventato, e Toby attese pazientemente.

“Hopkins è stato assassinato, signore.” La voce dell’agente Foster ora era rotta e dall’altra parte i detective in ascolto sentirono i loro cuori sprofondare. “C’è sangue dappertutto. Non mi sono addentrato troppo, non volevo compromettere la scena.”

Il mento di Toby si abbassò. “Bravo.”

“Sono qui fuori, adesso. Mi occorrono dei rinforzi, non posso occuparmene da solo.”

“Mando subito una squadra,” rispose Toby all’istante. “Resisti, agente Foster.”

Riagganciò, il ricevitore gli scivolò di mano e cadde sul tavolo mentre la testa gli ricadeva tra le mani. Un fallimento.

“Era l’assassino,” disse John, guardando nel vuoto. Sembrava sgonfiato. “L’uomo che ha chiamato a proposito del virus, prima. L’abbiamo beccato.”

Toby si massaggiò il viso, furioso con se stesso. La tensione gli si era insinuata nelle spalle. “Ho mandato io Hopkins laggiù. Da solo.”

Greg scambiò rapidamente un’occhiata con John e poi parlò con voce più bassa. “Non potevi saperlo, Toby.”

“Lo so, lo so…” Toby si appoggiò allo schienale e sospirò, crollando come se non avesse più ossa. “Voi due farete meglio a recarvi sul posto. Lestrade, chiama una squadra dalla scientifica.”

 

***

 

Quando John e Greg si trovarono fuori dall’edificio segnato dall’indirizzo, poterono vedere la macchina vuota dell’agente parcheggiata sulla strada. Lo stesso agente Foster stava in piedi vicino alla porta e corse in avanti, appena loro si avvicinarono, con un’espressione tormentata sul suo volto pallido che provocò una fitta di panico lungo la spina dorsale di John. Ricordava la voce tremante che usciva dall’altoparlante.

Greg rispose alla domanda non posta dall’agente. “La scientifica sta arrivando. Mostraci la scena.”

Foster esitò, irrigidito. “Da questa parte,” si offrì, guidandoli dall’aria frizzante dell’esterno fino allo squallido interno dell’appartamento che odorava come se i proprietari avessero aperto solo di rado le finestre.

Fu un breve tragitto lungo il corridoio con pochi effetti personali, poi Foster si fermò di fronte a una porta parzialmente aperta e rivolse una strana occhiata a John. “Tu sei John Watson?”

John sollevò un sopracciglio. “Sì,” disse seccamente.

“Tu… Probabilmente non dovresti entrare.”

John corrugò la fronte e piegò la testa di lato. “Perché no?”

Al suo fianco poteva quasi avvertire Greg muoversi nervosamente, ma mantenne lo sguardo fisso su Foster, il quale deglutì a disagio in direzione della vigorosa occhiata di John. “È solo che…”

E John capì. Greg stava per compiere un passo all’interno e ordinargli di stare alla larga nel tentativo di proteggerlo da qualunque cosa vi trovasse, ma John era stanco di venire coccolato. Appena Greg aprì bocca, passò loro di fianco aprendo la porta con una spallata e irrompendo nel salotto.

L’odore di sangue e carne cruda lo colpì come un pungo nei polmoni.

Il giovane detective poliziotto Hopkins giaceva prono nel mezzo di un tappeto macchiato di sangue, la camicia strappata dal corpo a esporgli la schiena, dove pezzi di carne erano stati incisi e rubati da entrambi i lati. John riusciva a vedere le interiora dell’uomo e la sua mano passò istintivamente sulla sua cicatrice che bruciava ricordando il dolore. Vista la quantità di sangue che era fuoriuscita, Hopkins doveva essere stato ancora vivo quando era stato squarciato.

“Gesù,” sibilò Greg, la sua voce sorprendentemente vicina all’orecchio di John. Lo aveva seguito all’interno e stava osservando il muro con gli occhi spalancati. John seguì il suo sguardo e il suo stomaco si chiuse.

Come una decorazione sull’orribile carta da parati con motivi cachemire, lettere maiuscole scritte con il sangue ancora fresco compitavano la minaccia che Foster non avrebbe voluto che lui  vedesse: TU SEI IL PROSSIMO JOHNNY BOY

La Y si estendeva fino al pavimento dove il sangue era scorso sul muro.

John era come incollato al pavimento. Avvertì un brivido freddo, come se tutto il suo sangue avesse abbandonato le sue estremità per proteggersi e la sua bocca si era seccata. L’implicita minaccia era diventata reale e ora John non sapeva più cosa fare.

Doveva prendere il killer. Non c’era nessun altro a difenderlo se non se stesso.

“John.” Di nuovo la voce di Greg che interrompeva i suoi pensieri, ma in tutta onestà John faticava abbastanza a mettere insieme un singolo pensiero dall’ondata di panico e terrore che gli offuscava la testa. Si sentiva indifeso e lo odiava, e l’atteggiamento da madre protettiva di Greg lo faceva solo sentire peggio. “John, guardami.”

John non lo fece. “Devo…” iniziò, gesticolando vagamente verso la stanza, “…guardare la scena.”

“John,” disse la voce di Greg, questa volta più severa. Delle mani afferrarono le spalle di John e lo voltarono a guardare Greg in faccia; cercò di lottare ma rimase sorpreso scioccato dalla sincera preoccupazione di Greg. “Torna a casa mia,” quasi gli ordinò, gli occhi fissi in quelli di John. “Devi riposare.”

La bocca di John si mosse inutilmente per qualche secondo prima di ritrovare la voce. “Non posso abbandonare la scena a causa…” Indicò il muro, incapace di finire, e Greg scosse la testa e parlò di nuovo.

“Puoi assolutamente farlo. Guarda, ci penso io.” Quando John si allontanò, Greg lo lasciò andare. “Lo prenderemo. Diavolo, guarda questo posto, troveremo sicuramente delle prove. Te lo prometto John, posso farcela.”

Il mondo di John iniziò a ruotare vorticosamente.

“Ci vediamo quando sarò tornato a casa.” Greg lo stava già spingendo fuori. “Di nuovo cinese?”

“Sì,” annuì John. “Tienimi aggiornato.”

Il nervoso agente Foster lo accompagnò alla porta anteriore come se stesse accompagnando una bomba ad orologeria.

“Hopkins era tuo amico, vero?” chiese John. Riconosceva quei due volti, più giovani. “Mi ricordo che siete arrivati nello stesso periodo.”

Foster reagì a scoppio ritardato e fissò John come se lo vedesse da una nuova angolazione, poi annuì velocemente. “Già,” disse. “A me non importava, ma lui aveva sempre voluto essere un detective. Ricordo quando è stato promosso…” Si interruppe come se gli dolesse la gola.

“Mi dispiace.”

Il nuovo sguardo di Foster era fervente. “Sei un brav’uomo, John Watson. Un bravo poliziotto. Quando sei tornato, Hopkins continuava a ripetermi che ne eri ancora capace, tesseva le tue lodi.”

John era un po’ stupito. “Non me n’ero accorto.”

Foster raddrizzò la schiena. “Ce la caveremo bene qui, Watson. E lo prenderemo. Non hai di che preoccuparti.” I suoi occhi fissarono qualcosa oltre le spalle di John e poi un taxi girò l’angolo. Foster corse verso di lui, il braccio allungato. “Ecco fatto,” disse, sorridendo tra il fiatone, e si avviò nuovamente all’interno dopo aver fatto un cenno di saluto.

Il tassista lo guardò incuriosito e John salì sul taxi con un sorriso mesto, aspettandosi di dover evitare delle domande.

“Dove, signore?”

Aveva l’indirizzo di Greg sulla punta della lingua, ma John non riuscì a dirlo.

Non sarebbe rimasto a guardare.

“Mi porti a Waterloo.”

 

***

 

Invece di temere il suo viaggio verso il Berkshire, John si scoprì a pregustarlo. Aveva acquistato il suo biglietto e si era avviato verso il treno, saltando su appena prima che le porte si chiudessero dietro di lui. Più tardi, quando fu l’ultimo rimasto nella carrozza, stava facendo delle criptiche parole crociate su una copia del Metro, quando il suo telefono vibrò nella sua tasca.

“Pronto?”

“Hey John,” rispose Greg con la voce leggermente ovattata. Da quel che sembrava, Greg si trovava ancora sulla scena del crimine. John udiva i mormorii dei detective e dei membri della scientifica che girovagavano lì intorno. “Hai visto le ultime notizie?”

John rimase in silenzio e rifletté se dire o no a Geg che non si trovava, in realtà, seduto dentro casa. “Non ancora,” disse cautamente. Il treno passò rumorosamente su un dosso, ma Greg sembrò non notarlo.

“Conosci il direttore dell’ospedale psichiatrico in cui si trova Holmes?”

John lasciò ricadere il giornale in grembo e sedette dritto. “Il dottor Culverton Smith?”

“Già. A quanto pare Holmes ha voltato pagina e ha deciso di confessare tutto a quel tipo.”

John sbuffò incredulo.

“No, davvero,” disse Greg. “È al telegiornale proprio adesso. Holmes ha fatto il nome del killer come signor Ed Ring e ha fornito alcune informazioni per identificarlo. È tedesco, un ex aracnofobico, qualunque cosa significhi.”

“Un ex aracnofobico?” ripeté John, confuso.

“Ad essere onesto,” rispose Greg, “sembra proprio una di quelle strane cose specifiche che Holmes usava per dedurre quando lavorava con noi.”

John aveva imparato in fretta che era importante non sottovalutare le parole di Sherlock. Aveva la tendenza a nascondere un significato in ciò che diceva e a costringerti a trovarlo, come la sua osservazione sulle dita delle ragazze. E John aveva il presentimento di conoscere già la chiave di quel puzzle. “No, non è così,” mormorò. “Credo significhi che il killer era uno dei pazienti di Sherlock.”

“Davvero?” Greg sembrava sorpreso.

“Sì, quand’era uno psichiatra si era fatto un buon curriculum con il trattamento delle fobie. Era noto per questo. Controllerei la lista dei pazienti di Sherlock alla ricerca di qualcuno che è stato curato per l’aracnofobia, se ci sono i documenti.” John fece una smorfia. “Deve aver avuto un’idea di chi fosse il killer fin dall’inizio.” Cosa che già sapeva, sul serio. Ma ottenere informazioni da Sherlock era come togliersi un dente alla volta.

“Potrebbe essere complicato,” bisbigliò Greg. Molte delle cartelle di Sherlock erano misteriosamente sparite da quando era andato sotto processo. “Vedrò cosa posso fare. Grazie John.”

“Ci sentiamo più tardi.”

John rimise a posto il suo cellulare nella tasca e si strofinò le dita sul ponte del naso come per scacciare un’emicrania. Sherlock odiava Culverton. John aveva assistito abbastanza agli scherni di Sherlock sul dottore, che lui considerava non qualificato a psicoanalizzare un moscerino, per non capirlo. Persino Culverton lo aveva ammesso quando John lo aveva incontrato la prima volta. E adesso Culverton rivendicava una speciale penetrazione nella mente di Sherlock e otteneva un posto tra le notizie? Qualcosa non quadrava.

Sherlock non avrebbe mai reso noti i suoi pensieri senza una ragione. Doveva aver saputo che Culverton avrebbe voluto pubblicizzare immediatamente tutto ciò che Sherlock gli aveva confessato. Forse aveva realizzato che Culverton poteva essere buono come un altro per portare il messaggio che voleva far trapelare. Era uno stratagemma per comunicare al killer ‘So chi sei’? Stava comunicando con John?

John si sporse di nuovo in avanti e sfogliò il Metro fino a trovare una pagina meno affollata. Scrisse gli indizi di Sherlock in inchiostro nero.

SIGNOR ED RING

TEDESCO

EX ARACNOFOBICO

John non riusciva a trovare nessun altro significato per ‘ex aracnofobico’, così lo cancellò con un segno. Era quasi sicuramente un modo per identificarlo come uno dei pazienti di Sherlock.

Poi c’era ‘tedesco’. L’assassino era tedesco? Un tedesco che viveva a Londra? John si accigliò. Non ne era sicuro, anche se esisteva ovviamente lo stereotipo del tedesco mangiatore di carne, così lo scrisse di fianco.

Il ‘Signor Ed Ring’ gli suonava strano. Era un titolo non necessario, forse era lì per consolidare l’idea che l’assassino fosse un maschio, in modo che suonasse ridondante? Sherlock poteva essersi riferito a lui semplicemente come un uomo. Il significato del titolo in sé era importante.

Forse il nome era un anagramma, anche se John non era in grado di vederci nulla, e lui era abbastanza bravo con le parole. Lo scrisse nuovamente con il ‘signor’ in grassetto ma non aveva ancora alcun senso.

Poi pensò a lui. ‘Tedesco’. L’equivalente tedesco di signore era Herr. Herr Ed Ring.

Red Herring.

Falsa pista.

Sherlock si era di nuovo preso gioco di Culverton e John non riuscì a trattenere il piccolo sorriso che gli si allargava in volto. Fu velocemente sostituito dalla rabbia per quanto sarebbe costato a tutti il tempo che la polizia aveva sprecato cercando un signor Ring inesistente, ma John era comunque impressionato. E forse non aveva mentito a proposito del passato del paziente. Fin dall’inizio, Sherlock aveva dato l’impressione di sapere molto di più di ciò che lasciava effettivamente trapelare.

All’ospedale, Dimmock si trovava alla reception. Sollevò lo sguardo allarmato a fatica celato quando John si avvicinò.

“Devo vedere Holmes.” John non aveva mai minacciato nessuno, ma tutti quelli anni come detective l’avevano dotato dell’abilità di guardare le persone come fosse in grado di minacciarle, quando avesse voluto, e portò a compimento quell’occhiata.

“Non è proprio possibile…” rispose Dimmock, che non aveva voglia di incontrare lo sguardo di John per più di qualche secondo alla volta. John non si mosse.

“Dov’è il dottor Culverton Smith?”

Dimmock guardò il suo schermo. “Credo che si alla BBC? Non ne sono sicuro. Ma non è qui.”

Con deliberata cautela, John premette le mani sulla scrivania e si protese in avanti. “Ascolta,” disse, piegando la testa. “Ho davvero bisogno di vedere Holmes. Ti rendi conto che oggi è stato ucciso un poliziotto?”

“Sì,” ripeté Dimmock, abbassando il mento. “L’ho sentito al telegiornale.” Il suo sguardo divenne furtivo. “Senti, vorrei poter essere d’aiuto, ma non posso. È appena stato trasferito in una nuova cella e abbiamo ancora qualche dubbio sulla sua sicurezza.”

John sussultò a quelle parole. “Starò attento,” insistette. “Ho solo bisogno di parlargli.”

 

***

 

La cella di Sherlock si trovava in una stanza tutta per lui con una porta a vento, dove un corto corridoio portava alla sua stanza sbarrata. C’era una brillante striscia gialla che attraversava il pavimento, di cui Dimmock si era preoccupato di spiegargli la funzione. Rappresentava la piena distanza che Sherlock riusciva a colmare attraverso le sbarre. Una zona di pericolo.

Non attraversarla, neanche per un secondo. È incredibilmente veloce.

Beh, John lo sapeva già.

Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo, rilassando i nervi, e spinse le ante della porta a vento.

Le differenze tra questa stanza e la prigione sotterranea di Sherlock furono immediatamente ovvie. Questa stanza era ampia e ariosa, e l’aria profumava di fresco e pulito. Erano bei quartieri dalla massima sicurezza, senza dubbio il prezzo di Sherlock per aver fornito il nome falso al dottor Smith. Le scarpe di John ticchettavano rumorosamente sulla dura pavimentazione mentre si avvicinava, ma Sherlock non si mosse.

La sua alta, sottile figura sedeva a una piccola scrivania abbastanza lontana dalle sbarre, affacciata verso l’esterno. John poteva vedere il retro dei suoi ricci scuri, il suo pallido riflesso sulla finestra. Appariva calmo.

“Ancora tu?” Gli occhi si aprirono, focalizzandosi sul riflesso di John piuttosto che sulla sua persona. La sua voce era gentile.

“Ancora io,” disse John. Lungo i suoi fianchi le sue mani erano strette a pugno.

Sherlock lo notò e le sue labbra si allargarono in un sorriso leggermente compiaciuto che fece gelare la spina dorsale di John. “Diranno che siamo innamorati,” disse lentamente, strascicando le parole, e girò attorno alla sedia per portarsi di fronte a John, la sua pelle anormalmente pallida nella luce arancione del sole morente. “Separati da sbarre d’acciaio e una sventurata tragedia, possiamo solo sognare di stare insieme. Sogni di me, John?”

John aveva incubi che lo svegliavano nel mezzo della notte con gli occhi bagnati, tastandosi disperatamente come se le sue budella minacciassero di fuoriuscirgli tra le mani.

“No,” disse invece, mantenendo il tono della voce piatto.

Sherlock sogghignò. “Bugiardo.”

“Perché, tu sogni di me?” chiese John con una nota di sarcasmo e le palpebre di Sherlock si abbassarono.

“Oh, con stupefacente regolarità. Sono riuscito a padroneggiare sogni lucidi, durante la mia permanenza qui.” Prima che John rispondesse, l’espressione di Sherlock divenne preoccupata. “Stai bene?” domandò. “Sei un po’ pallido. Dimmock avrebbe dovuto lasciarti una sedia.”

“Starò in piedi,” disse John con semplicità. “Non mi fermerò a lungo, comunque.”

Sherlock mugugnò sorpreso, ma andò avanti. “Mi scuso per le azioni del dottor Culverton Smith. So che sei stato importunato dalla stampa.”

John si strinse nelle spalle. “Non è poi così male.”

Il leggero movimento delle sue spalle sembrò risvegliare qualcosa in Sherlock, il quale socchiuse immediatamente gli occhi, utilizzando la sua vista a raggi x. “Sei andato a stare con l’ispettore Lestrade.” Annusò l’aria. “Sua moglie l’ha lasciato.”

“È da un’amica,” lo corresse John.

“No.” Sherlock sembrava divertito. “Lo ha lasciato e il buon vecchio Lestrade è troppo imbarazzato per dirtelo.” Picchiettò le dita sul tavolo e scosse lentamente la testa da una parte all’altra. “È troppo imbarazzato per dirti un sacco di cose, immagino.”

“C’è stato un altro omicidio, oggi,” disse John di rimando. “Un agente.”

Fu come se la temperatura della stanza fosse precipitata di qualche grado quando lo sguardo di Sherlock incatenò nuovamente il suo, questa volta era frustrato. Il mondo all’esterno arrivava a lui solo tramite il permesso dei suoi badanti e chiaramente non era stato aggiornato sui fatti recenti come avrebbe voluto.

“L’assassino è arrabbiato a causa della conferenza stampa che gli ha negato le vittime,” continuò John. “Credo che abbia paura di non trovare più nessuno per completare il suo messaggio, ma ci riuscirà.”

Sherlock rimase in silenzio per un po’. “Ha cambiato il suo schema,” disse infine, gli angoli della sua bocca si allungavano verso il basso. Disapprovazione? John non lo sapeva.

“Doveva farlo.”

“Bene,” mormorò Sherlock e il suo sguardo tornò fuori dalla finestra. “Non ne sarà troppo felice.”

“Non lo è,” rispose John, sollevando il mento e stringendo i pugni, e sapeva che c’era solo un modo per garantirsi l’interesse di Sherlock per ciò che sarebbe successo dopo. “È furioso. Ha scritto che sarebbe venuto a cercare me, poiché sono colui che ha gli ha incasinato le cose, dopo tutto.”

Gli occhi di Sherlock si spalancarono e si alzò in piedi, avvicinandosi rapidamente alle sbarre. John sentì il suo stomaco chiudersi dalla paura. “Perché non sei sotto custodia cautelare?” domandò Sherlock, le sue dita bianche avvolgevano le sbarre di metallo verniciate di nero e le afferravano strette.

“Dovrei esserlo,” disse John e il fatto che la casa di Greg contasse come protezione non era proprio una bugia. “Ma sono qui e voglio sapere cos’altro puoi dirmi. E niente bugie.” Piegò la testa. “Non come quella che hai raccontato al dottor Smith.”

“Oh?” Sherlock lasciò che quel suono gli rotolasse lentamente sulla lingua. Il suo sguardo era più tagliente, come se fosse in attesa di qualcosa.

John si chiese se quello fosse una specie test. “Il nome che gli hai dato,” spiegò. “È l’anagramma di red herring.”

A quel punto Sherlock sembrò risplendere di piacere. “Ben fatto, John.”

“Lo hai manovrato,” lo accusò John. “Solo perché si mettesse in ridicolo. Ti rendi conto di quante risorse hai sprecato, risorse che avrebbero potuto essere impiegate per catturare l’emulatore?”

Sherlock sospirò drammaticamente e si spinse lontano dalle sbarre, poi iniziò a passeggiare lentamente nella sua cella, misurando i passi. “Uno deve pur avere qualcosa per passare il tempo quaggiù, John. Sarebbe orribilmente noioso, altrimenti.”

“Sai che ti rispedirà nei sotterranei, appena capirà cos’hai fatto.”

“Non mi importa. Ho già visto quello che dovevo vedere.” E il suo sguardo tornò nuovamente fuori dalla finestra.

“Guarda!” John avrebbe voluto gridare. “Sono venuto qui per chiedere il tuo aiuto.

“Beh, ovviamente.” Sherlock lo guardò torvo. “Non ti fai certo vedere per il piacere della mia compagnia.”

Come se non fosse già abbastanza. John sperò che fosse sarcastico. “Tu sai chi è il killer,” disse, avvicinandosi, e ciò catturò l’attenzione di Sherlock.

“Non te lo dirò.”  Sherlock si fermò bruscamente, proprio di fronte a John e si raddrizzò raggiungendo la sua massima statura. Scrutava John, pronto a scattare come una molla come se tra loro non ci fossero sbarre, e John dovette combattere il bisogno di fare un passo indietro e cedere il campo. “Mi piace qui e, come hai detto tu, il dottor Smith mi rispedirà nei sotterranei appena avrà scoperto che gli ho mentito per il mio personale divertimento.”

“Parlerò col dottor Smith.” John era sul punto di implorare. Mantenne il suo tono di voce mite e cercò di nascondere la propria vulnerabilità, ma con ogni probabilità fallì. “Gli lascerò prendersi il merito del nome.”

Tutto a un tratto, Sherlock sembrò fare più attenzione a John, come uno squalo che avesse fiutato del sangue. Lasciò quella richiesta ad aleggiare nella stanza per un po’ e si prese il suo tempo per far scendere il suo sguardo sull’intera figura tesa di John, poi all’improvviso la sua espressione divenne fredda e calcolatrice. “E cosa ci guadagno?” chiese.

“Non lo so, Sherlock.” John fletté le dita inutilmente lungo i suoi fianchi, la tensione, sul suo corpo, era insopportabilmente costante come se l’uomo di fronte a lui fosse talmente immobile e grave da essere intagliato nel marmo. “…la mia continua esistenza?”

Sherlock apparve quasi deluso. “Di nuovo, sopravvaluti il tuo valore ai miei occhi. A cosa mi serve la tua esistenza se non vieni mai a farmi visita?”

John non riuscì a evitare di essere confuso. “Cosa intendi?”

“Se lo prendi,” disse Sherlock, “non ci sarà più ragione per te di tornare qui. Vivremo entrambi il resto della nostra vita separati e io non riceverò nulla in cambio del mio disturbo.”

Si udì chiaramente John deglutire. “Non ho niente da offrirti.”

“Sì,” disse Sherlock puntualmente, paziente. “Ce l’hai.”

John sapeva cosa intendeva. Aveva per lo più evitato gli articoli di psicologia amatoriale, apparsi di frequente, a proposito dell’apparente interesse di Sherlock per lui, ridendone persino. Era stato solo di recente che aveva realizzato che alcune di quelle argomentazioni erano valide.

Ma Sherlock era dietro alle sbarre. Non poteva ferire John fisicamente. Le sue informazioni potevano condurre all’arresto un uomo che aveva ingannato sei persone e che stava pianificando di fare lo stesso a John.

“Verrò a trovarti,” offrì John. Il suo futuro era il suo unico strumento di contrattazione. “Lo prometto.”

I pallidi occhi di Sherlock lo penetrarono come degli ami. “Quanto spesso?”

“Una volta all’anno,” fu la proposta di John, immediatamente rifiutata dalla risata di Sherlock. “Okay, una volta ogni sei mesi.”

“Una volta al mese,” mercanteggiò Sherlock e John si scoraggiò.

“Viaggiare fin qui non è economico, lo sai.”

“Ho ancora del denaro.” Sherlock agirò la mano verso le finestre come indicando il mondo esterno in cui non c’era più spazio per lui. “Pagherò io.”

John sapeva che Sherlock poteva pagare; non era propriamente povero. Ma non era quello il punto. “Una volta ogni tre mesi,” offrì, “e non spenderai un penny. È un compromesso?”

Tentò, per il momento, di ignorare quanto quell’offerta gli sarebbe costata.

Sherlock non sorrise, ma John sapeva che era soddisfatto. Con la luce arancione morente dietro di lui, assomigliava a qualcuno che avesse appena assaggiato qualcosa di meraviglioso e che ora desiderava rilassarsi e assaporarlo. Se la trattativa sul suo tempo libero era stato un test, John non sapeva se l’avesse superato o meno. In ogni caso, Sherlock ne usciva vincitore. “Bene,” disse Sherlock e rimase lì in silenzio come un falco troppo cresciuto, a fissarlo.

John sbatté in fretta le palpebre. “Dunque,” disse dopo una considerevole pausa, “chi è?”

Sherlock strizzò gli occhi nella sua direzione, poi si piegò graziosamente da un lato e ritornò a passeggiare. “Dimmi, John,” iniziò, le sue mani unite saldamente dietro la schiena. “Come hai capito che ero io l’assassino, dopo tutti quegli anni?”

John seguì i suoi movimenti, realizzando con una fitta di depressione che Sherlock non avrebbe rivelato il nome tanto facilmente. Lanciò un’occhiata al pavimento sotto i suoi piedi, ripensando al passato. “Sono state molte piccole cose. Ma ho sempre avuto solo dei sospetti e anche allora non mi fidavo di me stesso,” ammise. “È stato letteralmente nel momento in cui mi hai attaccato che ho capito di avere ragione.”

“Hai un istinto eccellente,” dichiarò Sherlock. “È un peccato che tu non ne faccia affidamento più spesso. Cos’hai pensato, quando ti ho accoltellato?”

John iniziava a sentirsi male. Quel ricordo non era un luogo in cui era facile tornare e la sua cicatrice gli doleva mentre ricordava un dolore accecante sbocciargli nello stomaco, Sherlock incombere sopra di lui con un’espressione quasi di scuse e il sangue di John sulle sue mani. “Shock, principalmente,” confessò. “Ma c’era una parte di me, nel profondo, che se lo aspettava. Avevo già telefonato a Greg quando sei andato a prendermi il cappotto.” John deglutì, le parole gli rotolavano maldestramente fuori dalla bocca. “Ha detto di aver sentito tutto ciò che stava succedendo al telefono, mentre guidava. A quanto pare, non ho neanche gridato.”

“Non l’hai fatto,” Sherlock aveva smesso di camminare e stava in piedi preoccupantemente vicino alle sbarre. “Ho pensato che fossi notevole.”

“Non avevo abbastanza aria nei polmoni, o l’avrai fatto,” gli disse John. Non si era trattato di coraggio, o stoicismo.

Sherlock guardò John come se vedesse qualcos’altro. Un vecchio ricordo sovrapposto al corpo di John. “Ricordo che il suono della tua pelle e i tuoi muscoli che si strappavano era più rumoroso di te. Eri così silenzioso.”

“Hai mai avuto un’esperienza pre-morte?” domandò John in un sussurro, mettendo la punta del piedi sulla linea gialla. Lo sguardo di Sherlock corse su di lui, affascinato.

“No,” disse, con una nota di dispiacere, “ma ci ho lavorato assieme ad alcuni pazienti.”

“Dicono che la tua vita ti passa di fronte agli occhi…” John si fermò e trasse un respiro tremante. “A me non è successo. Ero… ero scioccato. Mi trovavo nel presente, proprio lì, non a ritroso nel tempo. Era solo…”

“Noi,” terminò Sherlock, la sua voce un sussurro.

“E poi, quando mi hai messo sul pavimento, tutto è diventato nero.” Si strofinò gli occhi mentre le memorie riaffioravano, lui sdraiato sul fianco sul tappeto di Sherlock con il sangue che gli fuoriusciva dalle viscere e che macchiava tutto di rosso. Ricordò la sensazione di diventare troppo debole per muoversi, poi troppo debole per tenere gli occhi aperti. “Mi sono svegliato in ospedale credendo di stare morendo. L’infermiera è arrivata ad assicurarmi che ce l’avevo fatta, che ero vivo, che tu eri rinchiuso per sempre. Avevo ingannato la morte. Potevo vivere pienamente la mia vita.”

“Ma non era così che ti sentivi,” mormorò Sherlock, “vero?

John scosse la testa e chiuse gli occhi. Non ne aveva mai parlato prima. Fu solo quando chiuse le mani pugno che realizzò che si trovavano sul suo stomaco, come a proteggerlo. “Mi sentivo come se fossi morto sul tuo tappeto quella notte, ma il mio corpo si stesse ancora muovendo in qualche modo. Ero così stanco. Non potevo vivere. Potevo solo… esistere.”

Avrebbe dovuto stare più lontano dalla linea gialla. Perso nei ricordi, aveva dimenticato le precauzioni.

La mano di Sherlock si protese quasi troppo in fretta per essere vista, afferrò John dal bavero della sua giacca e lo tirò verso le sbarre. John gridò per lo spavento e si contorse, preso completamente alla sprovvista. Afferrò le sbarre e si spinse indietro, ma la presa di Sherlock non aveva perso la sua forza durante quegli anni. Con una torsione delle braccia, tirò John più vicino con spaventosa violenza e John poté sentire il suo respiro caldo sulla pelle.

“Cosa ne dici, adesso?” ringhiò Sherlock. Lo strattonò più forte e il petto di John premette dolorosamente contro le sbarre. “Proprio adesso. Ti senti ancora come se stessi soltanto esistendo? Solo vagando in una vita che non ti si addice più?”

Il cuore di John palpitava rumorosamente nel suo petto ed egli  non riusciva a pensare, il suo cervello era un vuoto ciclo di corri, corri corri!

I suoi occhi si trovavano al livello dei denti di Sherlock.

Io ti faccio sentire vivo,” dichiarò Sherlock e una delle sua mani ricadde come una tenaglia sul collo di John.

John era alla ricerca di un appiglio, in shock, graffiando la carne che lo incatenava alle sbarre, ma Sherlock non reagì nemmeno quando le unghie di John incisero delle linee lungo la sua pelle, fissandolo come se stesse assistendo a qualcosa di affascinante. Con John premuto vicino e impotente, si avvicinò, le narici che si dilatavano mentre traeva un profondo respiro in prossimità della guancia di John.

“Ti senti morto senza il pericolo, John,” disse in quella profonda, funesta voce, e quando John tremò le sue labbra si inarcarono per il divertimento. “Vivi la tua vita trincerato in esso, combattendolo coraggiosamente, ma sempre, sempre alla fine soccombi a quell’impeto, quella scarica di adrenalina. Il pericolo è parte di te, ti definisce, è ciò che ha determinato ogni decisione della tua vita. Ti ha portato proprio da me, John, e sai cosa?”

Le sue labbra accarezzarono l’orecchio di John.

“Io sono la cosa più pericolosa che tu abbia mai conosciuto.”

Con John bloccato per il collo, la sua mano libera scivolò attraverso le sbarre per tirare possessivamente verso il basso la stoffa della camicia, le sue lunghe dita distese. John sibilò e diede un inutile strattone all’indietro mentre la mano scivolava sulla sua cicatrice, le dita che toccavano con riverenza la striscia di tessuto spesso che attraversava l’addome di John, quando improvvisamente un allarme risuono nell’aria. John riconobbe lo squillo con sollievo distante. Forse qualcuno aveva finalmente guardato le telecamere di sicurezza.

Anche Sherlock lo udì, i suoi occhi guizzarono momentaneamente verso l’alto per accertarsene, ma ciò lo fece solo stringere con più forza. “Mi hai detto che non avevi bisogno di nessuno che si prendesse cura di te,” mormorò, “ma entrambi sappiamo che non è così. Uno psicopatico ha cercato di ucciderti oggi. Sei spaventato. Lo capisco.” Alzò un braccio per accarezzare i capelli di John, e John trasalì sentendo i polpastrelli grattargli lo scalpo. Sherlock inspirò, quasi teneramente. “Ma non ti devi preoccupare. Non gli permetterei mai di farti del male. Tu sei mio, John, lo capisci? E niente, nessuno, ferisce ciò che è mio.”

I suoi occhi erano così carichi di promesse che John dovette distogliere lo sguardo.

“Che succede qui?” ululò la voce distante di Culverton. “Toglietegli Holmes di dosso!”

Le porte si spalancarono tra il rumore di passi e, per un momento, John pensò che la stretta di Sherlock avrebbe potuto spezzarlo.

“Ti terrò d’occhio,” sibilò Sherlock e poi urlò quando vennero separati dagli inservienti coperti dalla testa ai piedi di attrezzature protettive. La mano di Sherlock lo afferrò possessiva e le sue unghie lasciarono dei graffi profondi lungo il retro del collo di John mentre veniva sottratto alla sua presa.

“Portate il poliziotto fuori di qui!” ruggì Culverton. “E tu stai indietro Holmes, o verrai sedato—”

Le voci urlanti si affievolirono mentre la sicurezza trascinava un John tremante fuori dalla zona di Sherlock, le porte sbatterono dietro di lui. Lo gettarono letteralmente fuori dall’ospedale. Una volta che fu all’esterno, tremando per lo shock e l’adrenalina nella fredda aria pomeridiana, incespicò lontano dalla vista e collassò vicino al muro di mattoni rossi dell’ospedale. Quasi immediatamente, le sue gambe cedettero. Scivolò lungo il cemento ruvido e lasciò ricadere la testa.

Non riusciva a smettere di tremare. La pelle lacerata sul suo collo pungeva a causa del vento.

Premette la sua, più piccola mano sopra la fastidiosa cicatrice che gli segnava lo stomaco e ricacciò ferocemente indietro le lacrime. Sherlock non gli aveva detto niente.

  
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