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Autore: KaienPhantomhive    20/02/2013    3 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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2.

Nat

 

 

Stesso giorno. Ore 09:00.

Casa del Presidente Novikov; Mosca, Neo-Russia. Terra.

 

Bi-bip. Bi-bip.

 

La sveglia dello smartsquare sul comodino segnava l’ora nell’ologramma proiettato a mezz’aria, mentre l’allarme si ripeteva fisso una, due, poi tre volte. Quattro, cinque…

Quel suono stridulo disturbava la quiete silenziosa della bella cameretta dalle pareti rivestite di carta da parati ricamata, rischiarata dalla fredda luce mattutina che dalle tende. I raggi di sole tagliavano in due la penombra, illuminando sui muri qualche volto di cantante intento in assoli da sgolamenti resi muti da un poster e qualche fiore e motto pacifista ricalcato a stencil.

Sei, sette…

Il fagotto informe rannicchiato sotto la trapunta decise che quel rumore continuo doveva tacere: un sottile braccio dalla pelle chiara si allungò dalla montagna di lenzuola e ricadde sul display dell’oggetto laminato a forma quadrata. Con un brontolio sommesso, qualcosa iniziò a muoversi sotto la catasta scomposta di coperte, incurvandosi sul materasso. Una testa fece capolino e, in una smorfia tutto fuorché connessa al mondo, una fronte si aggrottò nel tentativo di leggere i numeri proiettati a mezz’aria con la vista ancora annebbiata dal sonno. Quando finalmente i contorni eterei dell’orario si fecero nitidi, due grandi occhi azzurri si spalancarono improvvisamente ed un gridolino acuto esclamò: “Это очень поздно![1] Con un improvviso salto sul posto il fagotto informe si risollevò a sedere, mandando all’aria la trapunta rossa e rivelando il corpo di una ragazza in una sottile vestaglia di seta rosa.

Afferrò lo smartsquare, premette il pulsante sul lato destro e il piccolo quadrato di alluminio si divise in due, allungandosi. Sul display allungato si formò una piccola animazione di stelle filanti e la voce cordiale e asettica dell’assistente vocale – Juri, lo aveva rinominato – fu la prima che sentì quel giorno: “Buon giorno, Natasha. Oggi è il tuo compleanno. Vuoi che riproduca una playlist speciale?”

“Fai tu e avvia routine ‘buon giorno’!” – e saltò giù dal letto in tutta fretta. Il personal device si connesse alla rete domotica della casa, annunciando che avrebbe iniziato mettendo un po’ di Uplifiting Morning Jazz e proseguendo con il sollevare le serrande della sua stanza e accendere le luci del bagno. Mentre Nat era intenta nelle sue abluzioni mattutine, Juri proseguì con un’anteprima degli audio- e video-messaggi che aveva ricevuto durante la notte. “Auguri” di qua “Buon compleanno” di là venivano pronunciati da amici di vecchia data, compagne del corso di danza, zii e cugini di vario grado. Natasha era intenta a sciacquarsi il viso con l’acqua preriscaldata da Juri quando notò l’icona di un pacco regalo sul display dello smartsquare, segno che la colletta di compleanno le era già stata inviata la mattina stessa. Afferrò pennelli e ombretti che la sua toletta intelligente aveva già selezionato tra quelli utilizzati per le occasioni speciali e si diede un filo di trucco sulla pelle chiara e rosata sulle gote. Si afferrò una ciocca di capelli tinti di magenta e notò che la nuova tinta stava iniziando rivelare la ricrescita, ma sarebbe passata da un parrucchiere in futuro e comunque non si sarebbe notata in un selfie. Si scattò una foto allo specchio arricciando le labbra in una smorfia ammiccante e la caricò sul suo profilo Instant!, curiosa di sapere quanti avrebbero ‘voluto essere lì in quel momento’, ma non prima di aver applicato la caption ‘B-day girl’. Guardò il risultato dello scatto solo dopo averla caricata e sorrise a quanto bene erano venuti in foto i suoi grandi occhi azzurri.

 

Il ventunesimo 12 Giugno di Nataša Novikov iniziò così.

 

*   *   *

 

Ancora in canottiera e shorts, Nat scese rapidamente le scale fino al pian terreno, dove un profumo di soffritto, addolcito da quello del tè sui fornelli, la accolse come un abbraccio non appena mise piede nel soggiorno-cucina pavimentato di parquet, ante laccate di rosso e pregiati mobili in castagno.

 

“Buongiorno, famiglia! – cinguettò allegra, raggiungendo il tavolo della cucina. Un bendidio di cibi mezzi mangiucchiati, ma ancora invitanti, la attendeva: tra uova alla glazunya, pancake imburrati e syrniki spolverati di zucchero a velo e fragoline.

“Buongiorno, tesoro. Tanti auguri.” – le sorrise sua madre, voltandosi dai fornelli a induzione. Arina Novikov, nata Yeshevsky, First Lady quarantasettenne della Russia ed ex-ministro dell’Istruzione, una delle principali fautrici del Nuovo Sistema di Istruzione Uniformato dell’Eurasia.

“Ciao, papà!” – Nataša gettò le braccia al collo dell’uomo seduto al tavolo, intento fumare un sigaro mentre scorreva le e-mail sullo smartsquare con un dito. Gli diede un bacio sulla guancia.

Lui si voltò di tre quarti, ricambiando il gesto: “Ciao, piccola. Tanti auguri.”

 

Il Presidente russo Edvard Novikov, cinquantatrè anni e metà del suo secondo mandato presidenziale. Sua figlia primogenita, Nataša, lo adorava. Fin da piccola non ricordava nessuna figura di sua conoscenza che fosse stata più presente di lui. A volte austero nella sua sobrietà, ma molto più affettuoso di quanto ci si sarebbe potuto attendere un uomo dei lineamenti del viso tanto rigidi e scavati. Se proprio avesse dovuto trovare una pecca nel suo carattere sarebbe stata proprio la sua sconcertante semplicità: eccezion fatta per le occasioni pubbliche, suo padre non indossava mai abiti che potessero dare nell’occhio: un maglione di lana, i capelli brizzolati ben pettinati, un paio di anonimi pantaloni di cotone e quel suo personalissimo sigaro. Con sua moglie avevano addirittura rifiutato di trasferirsi al Gran Palazzo del Cremlino dopo la vittoria delle presidenziali. Ma a lui bastava tanto poco per sentirsi a suo agio e ogni altro lusso che si era concesso – anche di non poco conto – era in quella casa. Tutto ciò che più apprezzava e per cui aveva sudato era nel posto in cui doveva vivere la sua famiglia.

 

Nataša si sedette al suo posto dalla parte opposta il faccino rotondo di un ragazzino sui tredici anni dai capelli lisci le regalò un’impertinente smorfia mista a sorriso: “Sì, sì: tanti auguri, Nat! Così ora potrai essere una zitellona di ventun anni!”

Lei spalancò la bocca, quasi scandalizzata: “Cosa?! Piccolo…!”

“Ma che discorsi sono?” – li divise la madre, frapponendo tra i due una scodella di torta alle mele appena tirata fuori dal forno – “Mangiatevi questa torta, per favore, e non litigate di prima mattina.”

“La Sharlotka!” – a Nat sfuggì un verso di golosità mentre le sue papille gustative si preparavano a ricordare il sapore della sua torta preferita – Grazie!”

“Dovresti mettere una foto su Instant! .” – le suggerì suo padre – “La tavola merita.”

Per quanto alla sua età non provasse più alcuna particolare soddisfazione nel condividere la sua intimità domestica con mezzo mondo, la gioventù di Edvard Novikov era pur sempre avvenuta durante gli anni dell’esplosione dei social network e alcune abitudini era diventante automatismi mentali. Per i suoi figli, d’altra parte, erano veri e propri istinti innati.

“Hai confermato il ristorante per stasera?” – chiese sua madre, sfilandosi la presina da forno.

“Sì, tranquilla.” – fece Nat, iniziando a tagliare una fetta di torta– “Ci vediamo con gli altri alle venti.”

“Perfetto.”

“Beh,” – il signor Novikov trascinò il dito sullo smartsquare, inviando lo streaming di notizie dal dispositivo al grande televisore ultrapiatto in fondo al tavolo della cucina – “diamo un’occhiata anche al resto del mondo.”

Il mezzobusto di un giornalista seduto a una scrivania, sotto la quale scorrevano notizie in pillole, comparve sullo schermo: “E veniamo ora alla politica internazionale. Si acuiscono le tensioni interne al governo d’Eurasia, diviso gli Stati membri che propongono una repressione armata del nuovo gruppo Nazionasocialista e quelli che invece propendono per la via della mediazione. Il Triumvirato d’Austramerica si è dichiarato oggi favorevole a un intervento militare, qualora la pace mondiale fosse seriamente minacciata da quello che il portavoce canadese Fournier ha definito ‘il più grande Crimine contro l’Umanità del Nuovo Millennio’. Dalla Cina arriva l’invito a considerare gli effetti economici che una guerra porterebbe alle fluttuazioni delle monete interne rispetto all’euroyuan, mentre il Vaticano si appella alla coscienza di tutti per gestire la nuova situazione.”

 

“Da non credere.” – mormorò Arina, ancora in piedi a braccia conserte, scuotendo lentamente la testa.

“È già passato più di un mese.” – occhi di Nat si erano velati di paura, l’espressione di voluta ignoranza con cui si era svegliata l’aveva abbandonata – “Com’è possibile che nessuno faccia niente?

Suo padre non rispondeva, mentre affondava il viso magro nella mano destra.

“Se tutto il mondo si unisse contro di loro…vinceremo, no?” – insistette Nat – “È impossibile che ci sia qualcuno che vuole la pace con loro, è troppo grave!”

 

Per Natasha, quei giorni erano pura follia. Come miliardi di altre persone nate dopo i primi terrificanti anni del XIX Secolo, lei non aveva mai esperito l’orrore della guerra. Forse l’Umanità aveva dimenticato cosa significasse intraprendere una guerra basata sul puro e viscerale odio verso il prossimo. E ora, dopo più di cento anni, la minaccia del Reich era tornata a spandere la sua ombra sulla Terra e nessuno che riuscisse a giustificarsi come fosse possibile. Le Nazioni Unite faticavano a trovare una soluzione definitiva, mentre il mondo cadeva ogni giorno di più in balìa della confusione e del timore, tutto mascherato da un velo di ipocrita immobilismo.

 

“Non è così semplice.” – fu l’unico commento che Novikov riuscì a biasciare, con gli occhi fissi sul notiziario.

“…mentre si moltiplicano le azioni di protesta, come quello di ieri sera davanti il Parlamento di Bruxelles.” – continuava il giornalista, sopra la cui voce si avvicendavano spezzoni di cortei di manifestanti dai cartelli pacifisti in mano – “I cittadini chiedono spiegazioni e l’Eurasia resta in attesa del verdetto finale della Russia, l’unica a non essersi ancora apertamente espressa sulla possibilità di conflitto armato.”

 

“Ci faranno del male?” – chiese quasi sottovoce il piccolo Luka, con occhi sgranati.

Edvard continuava a non rispondere. Tutto intorno, gli sembrava che le voci si trasformassero in un unico brusìo.

“Parlano di papà?” – chiese ancora il bambino.

Nessuna risposta.

“Papà?” – incalzò Nat.

“Edvard!” – chiese ancora più forte sua moglie.

A quella voce, il Presidente Novikov fu come scosso da un fremito, ridestandosi dai pensieri. Si voltò vero la sua famiglia ed ebbe bisogno di un paio di secondi per riconnettersi. Ora, i volti che aveva davanti non erano quelli di un giorno di festa. Un innaturale silenzio era calato in quella che fino a poco prima era stata la scoppiettante cucina di casa Novikov. Il telegiornale era finito. La pubblicità di uno scadente detersivo già lo sostituiva, ma il silenzio persisteva.

“No…non…” – faticò a riprendere il discorso, ma alla fine vi riuscì – “…certo che no. Andrà tutto bene.”

Annuì un paio di volte con la testa, cercando di auto-convincersene: “Troveremo una soluzione.”

“È piuttosto tardi, cara.” – proruppe improvvisamente Arina, rompendo la tensione e impostando la sua mente sulla modalità ‘mamma positiva’ – “Dovresti prepararti in fretta, oggi devi anche passare dal dottor Asimov a Baksheevo, ricordi?”

“Forse non dovrei andare.” – rifletté la ragazza, ancora turbata dai discorsi precedenti. – “Non me la sento molto.”

“Stai scherzando?” – anche suo padre si era ‘resettato’ ed era rientrato nel suo ruolo domestico – “Perché no? Sai quanto ci è voluto per accordarti una visita al laboratorio, è una cosa che non ti ricapiterà più prima della Laurea. Forza, va’ a prepararti.”

“E non puoi mica farti trovare così da Miša, quando arriva.” – sottolineò sua madre, indicando con la punta di un coltello la mise della figlia.

“Oh sì, hai ragione!”1 – la ragazza scattò in piedi, piena nuova energia – “Devo ancora fare i miei esercizi!”

E rapidamente uscì dalla cucina, risalendo le scale verso la sua camera. Suo padre fissò prima lei e poi il suo piatto ancora pieno di torta. Non aveva nemmeno fatto colazione, alla fine.

 

*   *   *

 

La home gym di Casa Novikov era un quasi monolocale, con grandi portefinestre affacciate sulla boscaglia che circondava la casa di periferia. Nataša si rialzò dal tappetino sul pavimento, finito il riscaldamento, e si voltò verso la lunga trave orizzontale. I suoi occhi scivolarono lungo la trave d’allenamento, studiandone le misure. Respirò affondo, contraendo e rilassando i muscoli dell’addome asciutto fasciato dalla canottiera aderente. Con un unico, fluido, gesto sollevò la gamba destra verticalmente, irrigidendola; la sorresse con una mano all’altezza del ginocchio.

 

Aveva sempre desiderato essere una ballerina. I suoi genitori apprezzavano molto l’idea che la giovane e bella Nataša potesse dedicarsi a un’attività così nobile, ma nel tempo non avevano mancato occasione di ripetere che un cervello bello come il suo sarebbe stato impiegato meglio dietro la scrivania di multinazionale o tra le aule di un Parlamento, e così era riuscita ad accettare l’idea di iscriversi alla facoltà di Economia della Plekhanov. Ma a lei non importava rappresentare né una causa, né un Paese e né tantomeno un Consiglio di Amministrazione. Non le importava neanche essere un ingranaggio di qualcosa di più grande e migliore…semplicemente voleva essere un’interprete di sentimenti. Voleva danzare sui grandi palchi mondiali dell’Opera, sentire il suo corpo staccarsi dal terreno e mascherare con meravigliosa leggiadria la fatica e l’irripetibilità di quell’istante. Essere Nataša Novikov – figlia del Presidente della Federazione Russa e Stato più influente dell’Eurasia – era un ruolo che le andava stretto.

No, lei era nata per essere Odette: la Principessa-Cigno dalle piume immacolate.

 

Prese un bel respiro e lasciò andare la mente: tre rapidi passi in avanti, un piccolo salto sul posto portato con il piede sinistro e il destro si staccò dal pavimento. Sollevò le braccia, incurvò il torso, afferrò il bordo della trave e con una spinta le sue gambe si sollevarono quasi da sole. Rimase un solo secondo in quella posizione, poi allungò una mano in avanti, facendo un passo in verticale. Ignorò il sangue che iniziava a darle in testa e completò la sequenza in un sol respiro: una, due, poi tre ruote sull’esiguo appoggio offertole dall’attrezzo e per finire infine un salto elegante. Riatterrò in piedi, proprio sul bordo. Ce l’aveva fatta.

Le tempie pulsavano per le innaturali posizioni assunte. Rimase così, con le braccia distese come in volo e le gambe unite, a riprendere fiato. Chiuse gli occhi, ascoltando i suoi respiri. Poi…

Boo!

Con un gridolino di sorpresa mista a sgomento, Nataša perse l’equilibrio e poi capitombolò al suolo sulla schiena.

“Ahiahiahiahi!” – si lamentò massaggiandosi la testa; schiuse gli occhi lentamente e un viso cominciò a essere messo a fuoco: un ragazzo dalla mascella forte e dai grandi occhi verde scuro, in piedi proprio dietro la sua nuca. La frangetta biondo cenere pendeva verso il basso per via della posizione, facendolo sembrare una specie di riccio dalla faccia rossa per la vergogna, appeso sottosopra.

Non appena Nat ebbe riordinato le idee, inveì su tutte le furie:

“Tu, razza di perfetto…!”

Ma le impedì di continuare, afferrandole con forza un braccio e tirandola su di peso. Era un ragazzone di un metro e novanta, dai capelli lisci ma scomposti e dal sorriso sornione e terribilmente idiota: “Buongiorno anche a lei, Ledi Nataša Elizaveta Novikov!”

Miša Vasyljev; di solo un anno più grande di lei. Migliore amico di Nat fin dall’infanzia e cadetto dell’ultimo anno dell’Accademia Militare di Mosca.

“Buongiorno un cavolo! Devo direi ai miei che non ti facessero entrare in casa se non lo dico io.” – protestò lei, tentando di riordinarsi i capelli – “E lo sai che non voglio che mi chiami col mio nome completo. Mi fa…strano!”

“Ma da oggi richiesta una certa formalità, sai?” – continuò lui, assumendo un’aria altezzosa – “Se fossi in America saresti entrata nell’età legale per bere, Nat.”

Lei inarcò un sopracciglio e lo squadrò in volto: “Se bisognasse aspettare ventun anni per bere tu saresti al carcere minorile.”

Lui sbuffò e pestò i piedi come un bambino: “Oh, e dai, Nat! Non posso mai scherzare!”

Lei scoppiò a ridere di gusto, portando una mano alla bocca.

Quella bocca, sì: piccola, sottile, rosea. Delicata come un fiore.

Quanto adorava sentirla ridere in quel modo.

“Ma sì, certo che puoi!” – e lo abbracciò, sorridente – “Grazie per essere passato di persona.”

Un gesto banale, quotidiano. Nataša quasi non dava più importanza a quell’abbraccio, ma Miša continuava a provare lo stesso calore da anni. Tentando miseramente di darsi un contegno, rispose il più burberamente possibile: “Ovvio che sono venuto! Dopo venti compleanni che passo a salutarti, se mancassi il ventunesimo di una rompipalle come te mi toccherebbe sorbirti per tutto il mese.”

“Come minimo!” – ridacchiò lei, iniziando già ad andarsene tutta eccitata – “Dai, abbiamo una giornata piena di impegni!”

 

*   *   *

 

“Allora noi andiamo, eh!” – Nat si infilò l’impermeabile beige di mezza stagione e si avvolse al collo una leggera sciarpa quadrettata, iniziando ad aprire il chiavistello del portone d’ingresso.

“D’accordo ma fate attenzione, intesi?” – li raggiunse la voce di sua madre, dall’altra parte della casa.

“Non si preoccupi, Signora Novikov, ci penso io!” – ripose ad alta voce il ragazzo, che come ricompensa ottenne una leggera gomitata dell’amica.

Edvard Novikov si avvicinò all’ingresso: “Mi raccomando, fatemi sapere quando siete lì.”

Anche se si trattò di una fugace impressione, Nat fu certa di notare un’increspatura nel volto di suo padre: una ruga d’apprensione che sorgeva sulla fronte ogniqualvolta un pensiero oscuro lo attraversava, tentando di rimanere represso.

“Certo.” – rispose lei, con un piede già oltre l’uscio.

Suo padre allungò un’occhiata d’intesa al ragazzo al suo fianco: “E tu vedi di non strapazzarmela troppo, intesi?”

Miša allargò le braccia, sospirando con teatralità. “Magari potessi!”

“Miša!” – seconda gomitata da parte dell’aspirante ballerina in meno di venti secondi.

 

[1] Dal Russo; lett.: È tardissimo!”

   
 
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