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Autore: mysterious    22/02/2013    3 recensioni
Si può morire due volte? Sì, quando un dolore dimenticato torna alla memoria come un fiume in piena.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Patrick Jane, Teresa Lisbon
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You can die twice. Si può morire due volte.
 
Con gli occhi di Lisbon.
 
Da quando Jane ha perso la memoria, stento a riconoscerlo. E’ come se al suo posto fosse comparso il gemello cattivo: stesso aspetto, stesso fascino, stesso sorriso accattivante, ma un atteggiamento completamente diverso, un’altra anima, il lato peggiore di lui.
Ora capisco perché aveva voluto rompere con il suo passato di sensitivo, rinnegare con tenacia quel mondo di bugie, di inganni, di illusioni, che pure gli aveva assicurato fama, denaro e notorietà.
No such thing as psychics”, diceva lapidario a chiunque gli attribuisse dei poteri paranormali. E a chi comunque ammetteva di aver ricevuto da lui nuova forza e speranze, rispondeva: «Non ve le ho date, ve le ho vendute.» Quanto doveva disprezzarsi quando ripensava a com’era e a come si era comportato con chi gli aveva dato fiducia. Quante vedove doveva aver consolato, in cambio di favolose cifre di denaro, fingendo di mettersi in contatto coi loro mariti defunti! quante madri e quanti figli doveva aver ingannato, con le sue menzogne!
Nove anni fa, poi, la terribile prova a cui il destino aveva voluto sottoporlo lo aveva radicalmente cambiato. O meglio, lo aveva come “risvegliato” da quel limbo in cui era sempre vissuto, catapultandolo, nel modo più brusco possibile, nel crudo mondo reale, tirando fuori il vero Jane, il lato migliore di lui.
Collaborare con la nostra squadra lo aveva ritemprato, gli aveva dato uno scopo per andare avanti, per continuare a vivere. Perseguire i criminali, smascherarli ad ogni costo era per lui una forma di espiazione della colpa che si attribuiva per la strage della sua famiglia.  
Poi, due giorni fa, al lago, un rapinatore e assassino ha tentato di annegarlo. Quando l’ho visto galleggiare immobile, a poca distanza dalla riva, in quelle acque melmose, mi sono sentita morire. Non ricordo a che cosa ho pensato, in quel momento: forse a niente o a tutto. Forse, per la prima volta, ho davvero capito quanto lui sia importante per me, e non solo perché "chiude i casi".
L’ho trascinato fuori dall’acqua, chiamandolo più volte per nome, pregando, invano, che mi rispondesse. Ho gridato perché venissero ad aiutarmi: per fortuna, eravamo sulla scena di un crimine e i paramedici, già sul posto, lo hanno strappato alla morte.
Ora è vivo, e sta bene. Ma a quale prezzo?
Non è più lui: “amnesia dissociativa”, l’ha definita il medico, una vera e propria fuga dal suo io, dal trauma che ha vissuto quando la famiglia gli è stata strappata con efferata violenza. Un trauma che avrebbe voluto poter dimenticare ed, ora, il  suo inconscio stava probabilmente cogliendo l’occasione per farlo.
Da quando è tornato in sé, ricorda soltanto il suo lontano passato nel mondo dello spettacolo e del paranormale. E’ come se, da allora, nulla fosse successo: niente famiglia, niente Red John, niente CBI, niente consulenze. Solo quello scaltro, intelligente, freddo, ineguagliabile imbroglione di un tempo.
L’altro ieri sera, in ospedale, quando mi ha detto di non voler più lavorare per la polizia, la paura di perderlo per sempre mi ha spinto a minacciarlo:
«Posso costringerti a restare», gli ho detto. «Sei testimone in un’indagine per omicidio».
L’ho guardato con durezza, forse con un po’ di disprezzo per quello che era… che è di nuovo. Da qualche parte, là dietro – dietro quell’aria da saccente, dietro il suo sarcasmo – doveva pur nascondersi ancora il mio Jane, quello gentile, premuroso, disponibile, sempre pronto per ciascuno di noi, per me. Non potevo e non volevo lasciarlo andare via così, ma la sua domanda mi ha letteralmente spiazzato:
«Perché mi faresti questo?»
Il suo sorriso, quello che aveva sulle labbra fino all’attimo prima, si è spento improvvisamente.
«Pensi che non capisca ciò che sta succedendo qui?» ha continuato. «Tutti voi… voi vi state muovendo in punta di piedi… danzate intorno a qualche tragedia dimenticata...»
Ho abbassato lo sguardo. Aveva ragione: l’amnesia non aveva intaccato il suo dono, saper leggere la mente delle persone, i loro atteggiamenti, le loro espressioni. I medici ci hanno consigliato di non ricordargli la sorte della sua famiglia: «E’ meglio che la memoria torni gradualmente, da sola, per evitare altri traumi» hanno detto.
E così nessuno gli ha più nominato Angela, Charlotte, Red John… ma i silenzi, a volte, urlano più di mille parole e lui deve aver intuito qualcosa.
«Io sono felice, ora», ha aggiunto ieri sera con un’espressione che non potrò mai dimenticare. «Lasciatemi… solo essere felice.»
La tristezza che aveva negli occhi… la sua preghiera… erano sincere. Di certo, sa di aver molto sofferto, lo sente, anche se di quella sofferenza non conserva la sensazione viva e bruciante, né immagina i motivi. 
Non vuole ricordare e io… che diritto ho di rinnovare il suo dolore?
Ora sono qui, in ufficio, che lo sto aspettando, per consegnargli l’”assegno del caso chiuso”.  Come al solito, le sue deduzioni hanno colpito nel segno e ieri il colpevole è stato assicurato alla giustizia.
Questo sarà il suo ultimo assegno, se vorrà davvero lasciare il CBI. Sono arrivata presto, stamani. Ho trascorso una notte da incubo e sto tuttora continuando a tormentarmi, se sia giusto lasciarlo andare oppure no.
Non ne ho parlato con nessuno, non so che cosa ne pensi la mia squadra. So solo che tutti, a questo punto, per com’è ora, lo trovano antipatico e sgradevole, e ciò mi fa star male, perché io so che questo non è lui, è solo una costruzione fittizia del suo subconscio, uno scudo protettivo per difendersi da qualcosa che non sa.
Eccolo, arriva… e non è solo.
Lo accompagna una giovane… donna. Un eufemismo: in realtà, mi vengono in mente ben altri vocaboli, sicuramente meno eleganti, ma più efficaci, per descriverla. E’ letteralmente fasciata in un abito rosso succinto e, camminando sui tacchi vertiginosi delle scarpe che indossa, ancheggia a tal punto che non mi stupirei se un femore le si disarticolasse da un momento all’altro!
Jane prende l’assegno dalle mie mani. Lo legge. Ride della cifra, che considera irrisoria, e rinnova la sua intenzione di lasciare la squadra. Gli dico che, se un giorno vorrà tornare, noi saremo lì ad accoglierlo, ma risponde che certe porte è meglio lasciarle chiuse.
Si volta per andarsene con la sua ultima… “conquista”, ma noto che lei porta al polso un bracciale di diamanti, del quale sta ringraziando Jane con un bacio.
Ieri, il criminale arrestato, ha raccontato la strana storia di un nostro consulente che si sarebbe fatto consegnare con l’inganno metà della somma da lui rubata. Non gli abbiamo voluto credere, ma le prove, ora, sono qui, davanti ai miei occhi.
E’ davvero troppo! Non mi interessa più che cosa sia giusto e che cosa non lo sia. So solo che non posso lasciare che Jane faccia questa fine. Non posso permettere che si faccia del male, che calpesti la sua stessa dignità. Aveva una moglie che lo amava e una figlia che stravedeva per lui, ed ora infanga la loro memoria baciando spudoratamente una… sgualdrina che neppure conosce. Aveva un lavoro onesto ed ora è un volgare ladro. E poi aveva noi, aveva me. Mi aveva promesso che per me ci sarebbe stato sempre, e io voglio credere in quella promessa.
Lo fermo.
«Tu stai fuggendo!», gli dico.
«Di che stai parlando?»
«Stai cominciando a sentire qualcosa dentro di te…e non sai come comportarti», lo incalzo.
«Dici cose senza senso», sostiene lui, ma i suoi occhi parlano già una lingua diversa.
«Provalo», gli dico con aria di sfida. «Fai un giro con me. Se poi vorrai andartene, non ti fermerò».
Jane mi guarda, le labbra appena socchiuse come a voler ribattere qualcosa che però non gli esce. Forse vorrebbe girarsi ed uscire, ma non lo fa. Un tarlo si insinua nella sua mente. Potrebbe scappare, ma il desiderio di "sapere" è più forte …
 
Mezz’ora più tardi, la mia aiuto parcheggia di fronte alla villa di Jane, a Malibu. Siamo solo io e lui.
«Splendida casa. Di chi è?», mi chiede scendendo dalla macchina e guardandosi intorno come se vedesse quel posto per la prima volta.
«E’ tua», gli rispondo, e gli chiedo di consegnarmi il suo mazzo di chiavi.
Apro ed entriamo. E’ buio. L’unico chiarore proviene dalla luna, che questa sera brilla alta e piena.
Lo precedo sulla scala che conduce al piano superiore.
Lui mi segue. Non vede, nell'atrio vuoto e freddo, il triciclo di sua figlia, l’unico oggetto che aveva scelto di conservare, eliminando tutto il resto.
Saliamo in silenzio. Lui continua a guardarsi in giro, ma le pareti, spoglie, da sole non bastano a ridare corpo ai ricordi sopiti.
Io, invece, inizio a stare male. Più mi avvicino al dunque, più mi sento una vigliacca. Sto facendo la cosa giusta? Lo faccio davvero per lui? O forse più per me? E’ che non voglio perderlo… non così. Se un giorno dovesse lasciare la squadra, lasciare me, voglio che sia una decisione sua, del vero Jane, non di questa "brutta copia"… 
Brutta copia che, tuttavia, è una persona felice e ha l’occasione di rifarsi una vita dopo tanta angoscia e tanto dolore.
Mi ergo a Dio. Non è forse questo che sto facendo con lui? Provo a decidere del suo destino, sperando di non sbagliare, di non sbagliarmi, di riavere indietro ciò che ho perso…
Mi dico che sarebbe ciò che vorrebbe anche lui, che preferirebbe tornare com’era, con tutto il suo carico di ricordi agghiaccianti, piuttosto che sapersi così.
All’imbocco del corridoio, mi fermo. Al suo sguardo interrogativo rispondo voltandomi verso la porta in fondo, quella che deciderà tutto.
Lui capisce, guarda quella porta chiusa e tentenna, ma poi avanza verso di essa, il passo deciso, lo sguardo serio di chi ha paura di scoprire qualcosa che, nello stesso tempo, desidera conoscere.
Guarda il battente, proprio all’altezza del suo viso, dove alcuni anni prima Red John gli aveva lasciato un monito alla sua presunzione e un messaggio che non lasciava dubbi su ciò che avrebbe trovato aprendo quella porta.
Sta per afferrare il pomolo, ma è combattuto. Si volta a guardarmi e io sto per dirgli di lasciar perdere, o forse no. Il mio istinto vorrebbe fermarlo, ma il  mio egoismo lo lascia fare.
L’espressione che ho sul viso è di disgusto: disgusto per quello che accadde in quella stanza, disgusto per il dolore che lui proverà quando ne ricorderà i dettagli, disgusto per quello che sto facendo.
La mano di Jane scivola infine sul pomolo e lo ruota. Spalanca la porta, per non rimandare oltre ciò che deve, che vuole vedere. I raggi della luna, filtrati attraverso i vetri della finestra, fanno sembrare ancora più bianco quel materasso, stranamente steso a terra. Ma non è questo il particolare su cui indugia l’attenzione di Jane.
Lo smiley di sangue, sulla parete di fronte a lui, fa ancora orrenda mostra di sé, a distanza di tanti anni. Jane non aveva voluto cancellarlo, per mantenere vivo dentro di sé tutto l’orrore che esso rappresentava e per rammentare a se stesso che non avrebbe dovuto fermarsi se non dopo aver ucciso chi lo aveva tracciato sul muro.
Da dove mi trovo, non vedo nulla, se non Jane, di schiena, sul passo della porta, il pomolo ancora più stretto nella mano sinistra. Lo vedo esitare, abbassare la testa… mi sembra che il suo respiro si sia fatto più affannoso. Ha un leggero sbandamento: cerca lo stipite con la mano libera, si sostiene per non cadere: la piena dei ricordi lo ha travolto in un istante e lo fa vacillare.
Non posso neppure lontanamente immaginare come possa sentirsi in questo momento. Io, al suo posto, probabilmente impazzirei.
«Mi dispiace». Riesco a dirgli soltanto. Lo guardo piangere in silenzio. Sono lacrime che non si possono asciugare. Io, almeno, non posso. Mi sento, almeno in parte, responsabile di quell’immenso dolore.
Solo ora mi rendo conto che ho costretto un uomo a morire due volte.
 
 
 
 
   
 
 
  
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