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Autore: Elena Waters    23/02/2013    5 recensioni
Da quando la sua vecchia compagnia di amici si è sciolta, Marianna si sente sospesa in un mondo isolato e lascia che una vecchia delusione la tormenti, in silenzio. All'improvviso il mondo esterno le dà un'occasione per smettere di nascondersi e tornare finalmente a vivere: sarà in grado di coglierla?
Ero stata così felice, così incredibilmente felice che se anche adesso mi trovavo di nuovo con i piedi per terra, con le speranze distrutte, non riuscivo a smettere di guardarmi indietro, di guardare quel cielo così limpido e distante, le nuvole sottili che si sfaldavano, la luce del giorno che iniziava a declinare oltre i fiori sospesi nel vento, che solo poco tempo prima sbocciavano sui loro rami e che, adesso, seguivano la brezza nei luoghi di oblio in cui essa cercava di condurli.
Avrei voluto fermare il tempo e impedire che quell’istante fosse distrutto, avrei voluto alzarmi e trovare il coraggio di prendere una decisione, ma mi sentivo paralizzata: ero davvero vile come diceva Claudia? Lo ero davvero?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stuck in a world of isolation

NdA: il titolo è un verso di Lost For Words dei Pink Floyd, quindi ho preferito mantenerlo in lingua originale. Mi rendo conto che questa storia, agli occhi di una persona che non mi conosce, potrebbe sembrare "strana" o confusionaria: ho cercato di spiegarmi nel modo migliore possibile, ma è probabile che ci sia qualcosa di poco chiaro. Anche se nel testo ho deciso di non citarlo, il libro che leggono i due protagonisti è L'idiota di Dostoevskij, nell'edizione che ha come copertina Uomo ferito: autoritratto di Gustave Courbet. Alcuni dei fatti riportati in questa storia sono reali, altri no: i fatti reali, comunque, sono molto rielaborati e i nomi che ho usato ovviamente fittizi. Questa storia era stata inizialmente pensata come una one-shot, ma ho preferito dividerla in due capitoli per comodità.
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Una volta aver provato l'ebbrezza del volo, quando sarai di nuovo coi piedi per terra, continuerai a guardare il cielo.
(Leonardo Da Vinci)
 

                                                                      
Non dovevano essere passate le tre di pomeriggio da molto tempo, quando mi decisi finalmente ad uscire; la luce si era leggermente spostata, aveva iniziato ad illuminare una zona diversa della piazza gremita di gente in abiti estivi, che osservava distrattamente i petali dei fiori di ciliegio che si lasciavano trasportare nell’aria tiepida vorticando senza posa, come a delineare i contorni di un sogno sfocato, svanito in quel cielo senza confini.
Attraversai velocemente la piazza, senza guardare troppo attentamente la gente che mi camminava vicino; ero talmente assorta nei miei pensieri che per errore urtai una donna con in mano un sacchetto di carta, dai cui bordi spuntavano dove il ciuffo di una carota, dove la superficie grinzosa di una foglia di insalata. Lanciandole una veloce occhiata di scuse, mi sorpresi a pensare che a me l’insalata non piaceva affatto. Immaginai, comunque, che a quella signora non interessasse, e mi costrinsi a prestare più attenzione a dove mettevo i piedi invece di ragionare su certe futilità, futilità a cui invece avrei dovuto essere grata, perché mi aiutavano a non impazzire del tutto, schiacciata da un unico, insopportabile pensiero.
Entrai nell’atrio umido del palazzo che ospitava la biblioteca provinciale e mi diressi verso le scale; l’edificio era talmente silenzioso che potevo udire il suono dei miei passi sulla scala di marmo e il mio respiro leggermente affannato, come se le spesse mura dell’edificio avessero deciso di rimandarmeli indietro ogni volta; quando arrivai in cima, per un attimo mi sembrò di sentir riecheggiare perfino i battiti martellanti del mio cuore, con la consapevolezza che quelli non erano del tutto dovuti alla salita. Mi fermai qualche istante a riprendere fiato, poi presi il libro che avevo preso in prestito due settimane prima e me lo rigirai nervosamente tra le dita, controllando per un’ultima volta che fosse in buone condizioni.
Fu davvero una brutta sensazione restituirlo: ero rimasta così estasiata dalla capacità dell’autore di descrivere i sentimenti dei protagonisti, da quei dialoghi così colti e interessanti … perfino la copertina di quel libro - il dettaglio di un dipinto di cui non ricordavo il nome - era riuscita a incantarmi, e io spesso non prestavo neanche attenzione alle copertine dei libri; in genere, quando mi chiedevano in quale edizione avessi letto un certo classico e non lo ricordavo, mi era difficile perfino descriverne la copertina, perché a volte capitava che, ansiosa come ero di leggere, non la guardassi neanche. Inoltre, prendendo in prestito dalla biblioteca almeno tre quarti dei libri che leggevo - forse erano anni che non compravo niente in libreria, non avrei mai potuto nemmeno controllare.
Tuttavia, sapevo che avrei ricordato ogni dettaglio della copertina di quel libro per il resto della mia vita, o almeno fino a quando mi sarei ostinata ad associarla al volto del ragazzo che mi aveva consigliato di leggerlo. Non era la prima volta che lo incontravo, di questo mi ero sentita certa fin dal primo istante; venne fuori che frequentavamo la stessa scuola: lui era due anni avanti a me e in un’altra sezione, per questo forse non ricordavo con esattezza dove l’avessi già visto. Aveva preso la parola in qualche assemblea d’istituto a cui avevo presenziato? Non lo ricordavo.
Studiavo spesso in biblioteca e anche quel pomeriggio - un lunedì che ci avevano dato per il ponte del 1° maggio, mi trovavo lì per ripassare dei capitoli di filosofia su cui sarei stata interrogata a breve. Accanto a me tenevo un paio di libri che pensavo di prendere in prestito: sembravano leggeri ed ero sicura che sarei riuscita a finirli in tempo, nonostante non mi convincessero granché.
Se non ricordo male, i fiori di ciliegio erano sbocciati quello stesso giorno; i ragazzini giocavano all’aria aperta e tutti condividevano con loro la bellezza di un pomeriggio assolato di fine aprile, mentre io mi ritrovavo in una biblioteca polverosa a ripassare una materia che detestavo, perché mi mancava il coraggio di alzarmi e andarmene. Quel pomeriggio Marta era restata a casa e Lisa mi aveva chiesto se volevo accompagnarla a una conferenza noiosissima, ma io avevo rifiutato perché, dall’altra parte della città, c’era un concerto di giovani cover-band a cui ero davvero curiosa di assistere, nonostante la scena musicale della nostra zona non fosse eccelsa; volevo andarci per l’attesa snervante dei sound-check, per le voci imperfette dei giovani vocalist, per le stecche clamorose che a volte prendevano certi chitarristi; volevo andarci per qualsiasi cosa di umano e vivo avrei potuto vedere, ascoltare, per qualsiasi cosa fosse stata in grado di darmi i brividi.
Non avevo la forza di alzarmi, di abbandonare quella stanza fredda e tetra e di farlo, però. Per me quella biblioteca era un posto dove nascondermi dal resto del mondo, dalle persone che mi avrebbero desiderata diversa da ciò che ero. All’esterno potevo anche fingere, ma lì, circondata dalla luce che filtrava e si rifletteva sul pulviscolo, dai libri vecchi e ingialliti, passati per centinaia di mani, sembrava che ogni cosa mi dicesse che non c’era alcun bisogno di mentire.
Dopo un’oretta passata a ripassare senza capire assolutamente nulla, tanto ero distratta, decisi di lasciar perdere e di concentrarmi su quello che davvero mi assillava: il recente litigio tra Marta e Lisa.
Lisa lo sospettava da settimane, ma due giorni prima, durante la gita scolastica, aveva avuto la conferma che Marta si frequentava da un po’ con il suo ragazzo: così le avevano detto alcuni nostri compagni che sostenevano di averli visti insieme e lei, a quel punto, non aveva avuto altra scelta che crederci. Se devo essere sincera, io non mi ero mai interessata granché alla questione: avevo sempre considerato Luigi, il ragazzo di Lisa, una persona scorretta e irritante; mi ero opposta alla loro relazione fin dall’inizio, senza tuttavia insistere, perché tanto non sarei stata ascoltata, e ora avevo soltanto avuto la conferma di tutto quello che pensavo di lui. Al contrario, non avrei mai creduto Marta capace di una cosa simile. In ogni caso, la loro amicizia, già tesa per altri motivi, si era completamente rovinata, e adesso Lisa si aspettava che io, io che per entrambe ero sempre stata una seconda scelta, che avevo sempre meritato ben poca attenzione da parte loro, prendessi esplicitamente posizione. Non so perché, quando mi resi conto di questo, capii che ne avevo abbastanza: di loro, di questa assurda idea che meritassi di essere considerata soltanto quando avevano bisogno del mio aiuto, perfino di quel perfetto imbecille di Luigi, e voltai le spalle a entrambe; non chiusi i rapporti, questo no, ma spiegai chiaramente ad Lisa che poteva scordarsi che smettessi di rivolgere la parola a Marta per quello che era successo: da quel momento sarei stata perfettamente neutrale, che si contendessero qualcos’altro!
Qualcosa mi aveva spinta avanti, in quei mesi che le avevo seguite quasi ciecamente in ogni loro decisione, da quando la nostra compagnia originaria si era per vari motivi disgregata, ma adesso sentivo che quel qualcosa stava andando in pezzi, un po’ a causa della loro indifferenza nei miei confronti, un po’ per tutte le esigenze che in quei mesi avevo ignorato, rimandando il momento in cui finalmente avrei avuto il coraggio di pensare soltanto a me stessa. Mi sentivo come se le assi di un pavimento marcio minacciassero di spezzarsi sotto il mio peso, come se all’improvviso il vento avesse iniziato a soffiare più intensamente, come se il suo rumore si fosse fatto più profondo, minaccioso, a un passo dall’inghiottire qualsiasi altra cosa. Mi sentivo come se quella piccola luce, alimentata a fatica in quei mesi, minacciasse di spegnersi sotto la pioggia incessante.
Fu lo scricchiolio di una suola di gomma sul pavimento consumato a riportarmi alla realtà.
Incuriosita, osservai un ragazzo che rovistava nello scaffale dedicato ai classici: non avrei saputo dire esattamente quando fosse entrato, ma continuavo a fissarlo perché non mi sembrava di averlo mai visto lì, nonostante la sua figura mi apparisse familiare per qualche motivo che in quel momento mi sfuggiva.
Lo notai per il modo in cui si muoveva; a volte a scatti, altre con una lentezza indescrivibile: quasi come se, nel mezzo dell’azione, avesse voluto fermarsi un secondo a riflettere, non senza una certa goffaggine. Afferrò un volume da uno scaffale poco più in alto della sua testa, sollevandosi per un istante sulle punte dei piedi, dopodiché si voltò quasi di scatto nella mia direzione. Abbassai velocemente lo sguardo sui miei appunti disordinati, cercando di capire dove l’avessi già visto. Non era un frequentatore abituale della biblioteca; se così fosse stato, l’avrei ricordato certamente: conoscevo per nome quasi tutti quelli che venivano lì a studiare, e non mi sembrava che lui appartenesse alla categoria. Guardai lo schermo del mio cellulare, che segnava le cinque passate. La stanza si era ormai svuotata: non rimanevano che un anziano professore della facoltà di giurisprudenza che consultava un gigantesco tomo, due tavoli avanti a me, e il ragazzo, che nonostante questo prese posto nel mio stesso tavolo, scusandosi con una breve occhiata.
«C’è più luce qui, non ci vedo molto bene», mi spiegò.
Alzai le spalle e gli feci un po’ di spazio, approfittandone per osservarlo meglio. In effetti, portava degli occhiali spessissimi: forse fu per questo che mi risparmiai una battutina acida sul fatto che anche quel professore seduto qualche metro avanti a noi non dovesse avere chissà che buona vista.
Per un po’ restammo in silenzio, entrambi intenti nei nostri compiti: io ripassai invano un altro capitolo di filosofia particolarmente ostico, lui sfogliò con interesse il libro che si era preso, fino a quando, all’ennesimo attributo della materia di cui non riuscii ad afferrare l’utilità, chiusi il libro sbuffando e feci per dedicarmi ad altro. Il ragazzo rise, distogliendo l’attenzione da ciò che stava facendo; lo fissai per un istante, irritata, poi qualcosa nella sua espressione divertita strappò una risata anche a me.
«Cosa stai studiando di così destabilizzante, se posso chiederlo?»
Riaprii il libro, come se in quei pochi secondi di interruzione l’avessi dimenticato.
«Aristotele, attributi della materia, motori immobili … stupidaggini simili», risposi distrattamente.
«Non ti piace la filosofia?», chiese, incuriosito.
«La odio come poche cose, ma non penso che sia il caso di discuterne».
Sorrisi, leggermente imbarazzata, per cercare di addolcire un po’ quella risposta così secca. Ero di pessimo umore, certo, ma questo non significava che un povero sconosciuto dovesse pagarne le conseguenze.
Credo che lui non ci fece neanche caso, comunque: era una di quelle persone che, nonostante l’apparenza fragile, non sarei riuscita a scalfire in nessun modo, o almeno fu questa l’impressione che ebbi di lui. In quel preciso istante, non mi chiesi nemmeno come mi fosse venuta in mente una cosa simile.
«Perché hai scelto il liceo classico, allora!», rise.
«Come fai a sapere che scuola faccio?»
Alzò le spalle. «Credo di averti vista nel cortile, qualche volta, mentre parlavi con due ragazze che conosco, Marta Bellini e Lisa …»
«… Vico», conclusi.
«Sì, esatto». Sembrò riflettere per un secondo. «Brutta situazione, eh?»
Scossi la testa e dissi che non mi andava di parlarne: perché avrei dovuto, poi!
«Non era mia intenzione offenderti, scusami. Non mi sono neanche presentato, pensa un po’!»
Mi tese lentamente la mano. «Valerio».
«Marianna». La sua stretta energica mi mise un po’ in imbarazzo. «Non mi sono offesa, non fa niente».
Sembrò rilassarsi. «Beh, tanto meglio così, mi stavo preoccupando!»
Sorrise: un sorriso educato, in qualche modo perfino rassicurante. Comunque, preferii cambiare discorso.
«Che classe fai?»
«La 3°D. Tu, invece? Sei in classe con Marta e Lisa?»
Annuii.
«Che cosa stai leggendo?», chiesi, all’improvviso, lasciandolo un po’ spiazzato.
Sorrise di nuovo, questa volta con un leggero imbarazzo. Sollevò il volume dal tavolo in modo che potessi leggerne il titolo: un titolo secco, ermetico, che lasciava decisamente troppo spazio all’immaginazione. In compenso, non riuscii a staccare gli occhi dalla copertina: il romanzo era in edizione economica, quindi soltanto la metà inferiore del frontespizio era occupata dall’immagine di un uomo con gli occhi chiusi, la testa reclinata all’indietro; un’espressione che tradiva un sentimento a metà tra la beatitudine e il più atroce dei tormenti. Ne restai turbata, in qualche modo - un’inquietudine senza radici si fece strada dentro di me, ma feci di tutto per non darlo a vedere. Non ci riuscii, comunque: Valerio mi chiese se mi sentissi bene. Dopo un istante di esitazione annuii e lui sembrò tranquillizzarsi.
«È molto interessante, ti consiglio di leggerlo. Devo solo controllare qualche citazione, una decina di minuti e te lo lascio».
«Non vuoi prenderlo in prestito?» Ero confusa.
«L’ho già letto almeno quattro volte e a casa ne ho una copia, solo che adesso l’ho prestata a un amico».
Quando ebbe finito, lasciò il libro a me. Riportai i due libri su cui ero indecisa nei loro scaffali e lo seguii verso l’uscita; il cielo si era lievemente incupito, rispetto a un paio di ore prima, ma la luce continuava a riflettersi sulle foglie chiare dei platani e i lastroni di pietra che ricoprivano la piazza davano l’idea di essere ancora tiepidi. L’orologio della torre segnava le 18 e qualcosa, ma tutti in città sapevamo che andava indietro di almeno una ventina di minuti.
«Dove vai, adesso? Vuoi che ti accompagni?», mi chiese, anche se non capii se dietro al suo tono gentile si nascondesse soltanto la volontà di compiere un gesto di cortesia o anche l’interesse di continuare la conversazione che avevamo iniziato.
«Vorrei passare in piazza a sentire il concerto, ma non è necessario che mi accompagni. Anche perché non credo di restare molto».
Valerio, in realtà, aveva intenzione di passare a casa, prima di uscire di nuovo per vedersi con degli amici, tuttavia mi seguì fino alla piazza principale e restò con me fino alla fine del concerto. Quando arrivammo, almeno tre o quattro gruppi dovevano aver già suonato; in quel momento, sul palco, c’erano dei ragazzi che ricordavo di aver già ascoltato durante la Giornata dell’Arte dell’anno precedente ed erano piuttosto bravi. Come quasi tutti i gruppi quella sera, suonarono cover di brani famosi degli anni ’80 e degli anni ’90, anche se alcuni in seguito si cimentarono in pezzi anche meno recenti: l’ultimo gruppo prima della chiusura fece una discreta cover di Another Brick in the Wall dei Pink Floyd, lasciando gli astanti entusiasti e con quell’esaltazione e quel senso di vuoto che solo la fine di un concerto dal vivo, per quanto arrangiato, può lasciare.
Mi sentivo ancora stordita per il volume eccessivo, con le note dell’ultimo pezzo che mi rimbombavano nelle ossa, felice come quel giorno non avrei creduto di poter essere.
Qualche nuvola si era addensata, verso nord, ma il cielo era ancora limpido, l’aria tiepida e asciutta; la notte scendeva lentamente, invadendo le strade già illuminate dalla luce elettrica dei lampioni.
Io e Valerio non avevamo smesso un minuto di parlare, dalla fine del concerto: dal mio odio per la filosofia e dalla trama del libro che mi aveva convinta a prendere in prestito, l’argomento della conversazione si era spostato in un primo istante alle conoscenze che avevamo in comune a scuola, poi ai nostri gusti per quanto riguardava la musica e il cinema - gli confessai perfino che non riuscivo ad ascoltare Coming Back to Life* dei Pink Floyd senza mettermi a piangere! - e poi a qualsiasi cosa ci passasse per la testa: la nostra pizzeria preferita, il nostro numero di scarpe, le mode atroci che si erano diffuse in quel periodo, come quella degli emo; l’appassionata discussione per decidere se la cioccolata calda fosse più buona con le scaglie di cocco o con la vaniglia, il miele e le mandorle tritate, se la professoressa un po’ in carne del corso C della nostra scuola stesse peggio con i pantaloni aderenti o con le gonne a fantasie floreali lunghe fino alle caviglie … qualsiasi idiozia, qualsiasi!
Incontrammo gli amici di Valerio - quasi tutti ragazzi del corso D che non conoscevo - e decidemmo di cenare in una piccola paninoteca che si affacciava su un vicolo del corso principale. Nonostante ci fosse molta gente in giro, il locale non era affollato: due dei cinque tavolini erano liberi e riuscimmo a sederci tutti senza alcun problema. Si trattava di una compagnia vivace, stimolante, in grado di trovare in continuazione nuovi modi per divertirsi: dai giochi un po’ stupidi da fare in gruppo a conversazioni su temi leggeri ma allo stesso momento intriganti; nulla a che vedere con i finti intellettuali che mi ero costretta a frequentare nei mesi precedenti soltanto per non perdere Marta e Lisa: in quelle lunghe e deprimenti serate si arrivava spesso a discutere per ore di argomenti assurdi, senza arrivare a conclusioni soddisfacenti e senza che nulla di piacevole intramezzasse quelle terribili dissertazioni.
Io e Valerio ci fermammo con loro per un’oretta: quando lui mi disse che aveva bisogno di prendere un po’ d’aria, sebbene ne fossi dispiaciuta, non esitai ad alzarmi dalla sedia e a seguirlo - i suoi amici erano delle persone molto simpatiche, ma non me la sentivo di restare sola con loro.
Dopo un po’, nella nostra conversazione iniziarono a crearsi momenti di silenzio sempre più lunghi, ma né io né lui sembravamo preoccuparcene, perché in quei piccoli spazi vuoti non sembrava esserci posto per l’imbarazzo. Al contrario, quando uno dei due riprendeva a parlare, avevo come l’impressione che quella piccola oasi muta si fosse estinta troppo presto.
Per un po’ dimenticai Lisa, Marta, tutte quelle menate con Luigi e la sua evidente avversione per le relazioni monogame; forse addirittura la mia vecchia compagnia e il ragazzo che per tanto tempo avevo continuato ad amare segretamente: ormai era arrivato il momento.
Perché in quell’istante ne fossi così certa, adesso non saprei più spiegarlo. Era qualcosa di talmente irrazionale, di splendido e allo stesso tempo agghiacciante: la sensazione di staccarmi dal suolo, dalle assi che finalmente cedevano, di librarmi nel vento minaccioso, guardandomi dietro nella pioggia fitta e scura e capire, finalmente, che non mi importava più nulla - quella piccola luce che avevo alimentato con tanta fatica poteva anche spegnersi, perché adesso intravedevo i primi raggi del sole. Un cambiamento così repentino, se fossi stata soltanto abbastanza lucida da scorgere le insidie che si nascondevano dietro la sua bellezza sconcertante, mi avrebbe semplicemente terrorizzata. In momenti simili, però, è difficile provare qualcosa di davvero negativo: di fronte a una luce così abbagliante, il dolore svanisce come nebbia del mattino, l’angoscia si dissolve in una nuvola di vapore; provare del risentimento verso qualsiasi cosa passata sembra inconcepibile.
Dopo un po’, ci fermammo su una panchina vicino all’ingresso del parco. Valerio mi offrì una sigaretta, ma rifiutai; lo guardai mentre faceva correre il dito sulla rotellina di metallo dell’accendino, riuscendo a produrre non più di qualche scintilla; imprecò sottovoce, ma alla fine riuscì nel suo intento.
«Questo accendino è un po’ andato», mi disse, sorridendo in una nuvola di fumo, «Devo procurarmene un altro, prima di trovarmi a secco in un momento di felicità».
Probabilmente notò la mia occhiata interrogativa, perché aggiunse: «sai, cerco di non fumare mai quando mi sento triste o annoiato. Sarebbe come sminuire il gesto, non credi?»
Alzai le spalle. «Non ne ho idea, non ho mai fumato».
«Non c’entra tanto il fumare, può trattarsi di qualsiasi cosa: un gesto che ti renda felice, ma che allo stesso tempo … senti come se meritasse rispetto, capisci? Come se in alcuni momenti non dovessi servirtene». Scosse la testa. «Beh, come posso dirtelo? Il fatto è che lascia inappagati. Come quasi ogni altra cosa piacevole: quando vedi un tuo desiderio realizzarsi e capisci che per te non è abbastanza, quando trovi una canzone che ti piace tantissimo e l’ascolti fino a odiarla … queste cose non sono in grado di appagare perché incomplete, imperfette. Sono così perché anche noi non siamo completi, e più ci sentiamo infelici o annoiati, più sentiamo il bisogno di averle, anche se incapaci di aiutarci. È soltanto quando non siamo nel bisogno che possiamo godere appieno della bellezza di un gesto, o almeno io la penso così. Anche un gesto stupido come fumare una sigaretta».
«Non ci avevo mai pensato. Tu … ecco, potrebbe sembrarti fuori luogo come domanda: credi che questo potrebbe essere valido anche per cose più importanti?»
«Non ti capisco». Mi schiarii la voce.
«Ecco, intendevo … credi che anche l’amore funzioni così?»
Non appena finii di pronunciare quelle parole certamente arrossii: non ero riuscita nemmeno a vagliare quanto in quel frangente potesse sembrare sensata una domanda simile che già l’avevo posta. Valerio mi sorrise tristemente.
«L’amore funziona diversamente da qualsiasi altra cosa, ma credo che, in linea di massima, questo principio potrebbe anche essere applicabile. In fondo, quando amiamo per noia o per solitudine non amiamo davvero, cerchiamo nell’altro qualcosa che ci manca e che pensiamo di non poter trovare in noi stessi - ma non si tratta di amore, in quel caso, solo di una ricerca egoistica e vana».
«Forse era quello che volevo sentirmi dire», sussurrai, sperando in qualche modo che non mi sentisse.
Valerio mi appoggiò un braccio sulle spalle, usando una cautela che non avevo mai visto in nessuno: un gesto amichevole, rassicurante.
«Qualche delusione recente?», mi chiese, in tono discreto.
«No», risposi, «non recente, ma non fa tanta differenza».
«Capisco. Mi dispiace aver toccato un tasto dolente».
«Ho cominciato io, figurati. E poi, almeno secondo il tuo modo di pensare, non mi trovo dalla parte del torto, è già qualcosa».
Mi guardò con un’espressione interrogativa. «Quindi lo amavi davvero? Significa che hai sofferto per tanto tempo per una persona di cui in realtà non avevi bisogno?»
Sembrava non capire, né io credevo che davvero potesse, ma mi sforzai di spiegarmi, dato che non pensavo che mi avrebbe giudicata.
«Forse hai ragione a dire che l’amore funziona diversamente, sai? Forse davvero segue regole proprie, perché se veramente non avevo bisogno di lui - e non ho dubbi su questo, allora perché, in tutto questo tempo, mi sono sentita come se continuare ad amarlo fosse per me l’unica strada?»
Arrossii violentemente e questo, sebbene la luce dei lampioni fosse debole, a Valerio non sfuggì.
«Non saprei proprio dirti, in realtà; non mi è mai capitato nulla di simile. Comunque, mi sembri imbarazzata: forse stiamo affrontando un argomento troppo personale. Possiamo cambiare discorso, se vuoi, non mi faccio di questi problemi».
Scossi la testa. «In un momento simile, invece, mi sembra di capire che non sia proprio più il caso di parlare».
Non riuscii a capire se fosse contrariato o felice di assecondarmi. Mi strinse più forte a sé e mi accorsi che stava sorridendo, quando gli appoggiai la testa su una spalla.
«Mi spiace di non essere riuscito a darti una risposta».

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* Canzone tratta da The Division Bell, Pink Floyd, 1994

   
 
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