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Autore: Kiki87    24/02/2013    4 recensioni
Due mondi completamente diversi ma destinati ad incontrarsi.
E se fosse proprio quella diversità, la chiave di tutto?
“Ora basta partecipare a quell’asta su eBay: ho detto una bugia a Marley per permetterti di comprare quel cappello, lo sai?”.
“Signor Clarington, il Consiglio Scolastico si è riunito e abbiamo ascoltato le testimonianze di tutti i membri dei Warblers”.
“Volete che vi mostri le siringhe?”.
“Ci siamo già visti?”.
Sorrise Hunter, lo sguardo rivolto di fronte a sé: roteò appena il viso, scrutandola con la coda dell’occhio mentre sostava alle sue spalle.
“Te lo dirò la prossima volta che ci rivedremo”
Tra abiti eleganti e donne dal fascino sinuoso e più sfacciato, sembrava sorgere timida come le fragole di bosco eppure naturale.
Genere: Drammatico, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Brittany Pierce, Hunter Clarington
Note: AU | Avvertimenti: Spoiler!
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Premetto che ero piuttosto indecisa se pubblicare o meno questo racconto: ammetto che l’accostamento di personaggi sia piuttosto… insolito (non che possa ancora arrogarmi il diritto di superare le castronerie che Murphy ci sta riservando ultimamente) ma anzitutto il racconto è stato scritto per uno sfizio personale.
Uno dei miei crucci è sempre quello di vedere inseriti personaggi nuovi, senza mai vengano approfonditi e così restano molte domande sul perché agiscano in un certo modo a meno che non si supponga che abbiano una doppia personalità (o forse tripla?).

E’ stato così anche per il personaggio di Hunter ma se cercate qualcuno da incolpare – oltre alla sottoscritta e l’ispirazione folle della scorsa Domenica mattina – prendetevela anche con Nolan Funk e le sue speculazioni su una possibile storyline per il suo alter ego.
Ma non dilunghiamoci troppo: se soffrite quando le coppie canon e il loro evolversi non viene rispettato, allora vi invito a non farvi del male; se siete anche solo incuriositi o vorreste un approfondimento sul personaggio, spero possa esservi cosa gradita,
In ogni caso, sarò lieta, come sempre, di condividere miei pensieri con voi quindi non esitate in caso di commenti (anche critiche, sia mai!) o qualsiasi feedback vorrete lasciarmi.
Se siete ancora qui (audaci!), vi auguro buona lettura!
Premetto che per il personaggio di Hunter, non avendo un’introspezione precisa, mi sono sbizzarrita ma spero il personaggio di Brittany non vi risulti (troppo) OOC.
Nota: SPOILER su un evento della 4x14.

 
 
 
 
 
 
« Il brutto della dipendenza è che non finisce mai bene. Perché ad un certo punto qualunque cosa sia quella che ti fa stare bene... smette di farti bene... e comincia a farti male.
Eppure dicono che non ti togli il vizio finché non tocchi il fondo. Ma come fai a sapere quando l'hai toccato?
Non importa quanto una cosa ci faccia male... certe volte rinunciare a quella cosa... fa ancora più male. »
Dr.ssa Meredith Grey dalla serie tv “Grey’s Anatomy”.
 
 
“La fragola, che cresce sotto l’ortica, rappresenta l’eccezione più bella alla regola, poiché innocenza e fragranza sono i suoi nomi”.
William Shakespeare.
 
Addicted
(to you)
 
La porta si era chiusa dietro la piccola star delle Nuove Direzioni e Brittany aveva spento il computer fisso e la web cam (sì, c’era voluta molta pazienza da parte di Sam a farle intendere quale fosse la giusta operazione, specialmente dopo il suo involontario spogliarello di fronte alla stessa telecamera), si era sciolta i capelli e si era stiracchiata.
Decidendo se posticipare lo shampoo e la doccia  dopo la cena, si era riscossa al sentire nuovamente una lieve pressione sulla tastiera del computer portatile della madre, abbandonato sul proprio letto. Si era voltata ed aveva osservato il micio disteso sulla trapunta, le zampe che, fino a pochi secondi prima, continuavano a sfiorare i tasti con una propria volontà.
Inclinò il viso di un lato e si appoggiò al materasso, guardandolo di traverso.
“Ora basta partecipare a quell’asta su eBay: ho detto una bugia a Marley per permetterti di comprare quel cappello, lo sai?”.
Seppur dovesse sembrare un rimprovero, il tono aveva la stessa dolcezza e delicatezza che contraddistingueva ogni sua conversazione con il suo adorato animaletto da compagnia nonché co-presentatore di Fondue For Two, quando non troppo impegnato in qualche vendita illecita.
Il micio le rivolse appena lo sguardo, il suono delle fusa che si espandeva e un lieve miagolio ma Brittany si riscosse quando la finestra della chat si illuminò, aprendo una schermata che corrispondeva ad un indirizzo sconosciuto.
Sbatté le palpebre nel leggere il messaggio:
 
Da H.C.
dfknmdfklnmaklfnkaldfnk
 
Aggrottò le sopracciglia mentre Lord Tubbington premeva rapidamente le zampe a sua volta.
 
 
Da Unicorn Girl:
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“Ohh!” aveva pigolato la ragazza, una mano sul cuore.
“Tu e la tua fidanzatina vi scrivete in un linguaggio segreto, ma prometto di non guardare”. Si era tappata gli occhi ma, vinta dalla curiosità, si era sporta ulteriormente a leggere il nickname del mittente.
“Ma voglio sapere chi è” si era giustificata con una risatina.
“H.C.” aggrottò le sopracciglia. “Che nome strano”.
Arricciò il naso per poi scrutare la finestra con l’avatar scelto dalla stessa persona: nessuna fotografia di una micetta innamorata. Vi era una “D”[1] sinuosa scritta in rosso e drappeggiata da quello che somigliava ad uno scudo su uno sfondo bluastro.
Era sicura di averlo già visto da qualche parte.
Si illuminò mentre accarezzava il micio.
“Esci con il gatto di uno dei One Direction[2]? Va bene, vado a farmi la doccia e vi lascio parlare da soli perché mi fido di te” gli aveva accarezzato le orecchie e si era finalmente alzata.
Lord Tubbington emise un vago miagolio prima di riprendere a digitare freneticamente.
 
 
~
 
Chiuse la porta dietro di sé con un moto stizzito: il cellulare non aveva smesso di suonare un solo istante. Imprecò, maledisse suo padre che aveva avuto l’accortezza di azzerare il suo conto in banca senza il quale non avrebbe neppure potuto cambiare numero ed evitare le telefonate di qualche impiastro umano di giornalista mediocre, capace di gettarsi sulla sua storia pur di ricavarne qualche soldo utile a mantenere la sua famiglia di miserabili falliti.
Il cellulare vibrò nuovamente nella tasca del blazer e fu con uno scatto rabbioso che gettò l’iPhone a terra e lo calpestò.
Un brivido di adrenalina che sembrò disperdersi altrettanto rapidamente: aveva il respiro affannato mentre sostava con la schiena premuta contro la superficie dell’uscio. Una mano tra i capelli a rimuovere le gocce di sudore dalla fronte mentre riprendeva una naturale respirazione.
Slacciò il blazer, sentendosi soffocare e tolse anche la sciarpa: solo allora lasciò vagare lo sguardo sulla sua camera: la più lussuosa dell’Accademia e ovviamente singola.
Il micio bianco lo guardò apprensivo, semi nascosto sotto un suo maglione, il capo che sbucava timidamente dalla manica dello stesso – aveva preso la strana abitudine di dormirci appallottolato da quando era divenuto sempre meno sollecito a coccolarlo – ed emise un flebile miagolio di richiamo che Hunter ignorò.
Attraversò la stanza per avvicinarsi al balcone e prendere una boccata d’aria ma con la coda dell’occhio registrò uno strano movimento. Fissò il computer portatile acceso e una schermata di chat che si era illuminata al suo passaggio.

Da Unicorn Girl:

Ciao, sono la padrona di Lord Tubbington. Scusati con la tua gattina ma devo chiudere la chat perché il computer serve alla mia mamma.
Xoxo Brittany.
 
 
Lesse il messaggio qualche volta, sbattendo le palpebre per stabilire che quella visione non era un effetto ritardato del consumo di steroidi. Scorse la finestra della conversazione composta di parole indecifrabili, quasi qualcuno avesse letteralmente premuto a casaccio: aggrottò le sopracciglia ma prima che potesse eventualmente decidere di traumatizzare l’ochetta tredicenne che doveva celarsi dall’altra parte dello schermo, si era voltato verso la piccola sagoma sotto il proprio pullover.
Un gatto pedofilo era l’ultima cosa di cui avesse bisogno ma, avendo intuito il suo stato d’animo, il micio era scivolato dal letto con un placido miagolio.
Scosse il capo, abbassò lo schermo del computer e spalancò l’uscio della portafinestra: si appoggiò alla balaustra e socchiuse gli occhi.
Aria, disperava di aria.
 
 
~
 
Camminava con incedere fluido nei corridoi: i passi lunghi, quasi gli stessi ripetuti ad oltranza nella vecchia Accademia di Colorado Springs quando la marcia iniziava alle prime ore del mattino. Quasi un senso di futile soddisfazione nel mondo in cui tutti i giovani in divisa si scostassero per lasciarlo passare, uno spartiacque tra le due file che Hunter superò con il cipiglio corrugato, le braccia che non aveva lasciato penzolare svogliatamente ma rigide lungo i fianchi, i pugni stretti e la fronte corrugata.
Non si guardò alle spalle, ignorò il brusio che si accendeva e si spegneva automaticamente al suo passaggio, gli sguardi fissi sulla sua figura e mal celanti la rabbia, il disgusto, il biasimo o la timorosa soggezione che vacillava precaria su un equilibrio ormai compromesso.
Soltanto quando varcò l'uscio della propria camera, si fermò.
Socchiuse gli occhi e cercò nuovamente di placare il battito alterato e il respiro convulso, fino a quando le immagini di quel breve colloquio non apparvero di nuovo di fronte ai suoi occhi.
Un verso simile ad un ringhio sgorgò dalla gola: afferrò la sedia di fronte alla scrivania e la scagliò con violenza sul pavimento, colpendola con la gamba fino a spezzarla.
Tolse il blazer, l'ultima volta si disse, e lo gettò sul pavimento, lo calpestò prima di spalancare la portafinestra e fermarsi di fronte al balconcino.
Slacciò la cravatta.
Quella calma esterna era così irreale e quasi stomachevole rispetto a quella sorta di bestia che sentiva trattenuta a stento dentro di sé, quel fuoco che non avrebbe neppure più cercato di domare.
Non che ce ne fosse motivo.
La voce del Dirigente era ancora perfettamente udibile.
 
“Signor Clarington, il Consiglio Scolastico si è riunito e abbiamo ascoltato le testimonianze di tutti i membri dei Warblers”.
Aveva sorriso, un sorriso sgradevole, quasi beffardo e divertito.
“Volete che vi mostri le siringhe?” domandò, le sopracciglia inarcate e una vaga soddisfazione di fronte agli sguardi gelidi e increduli degli altri insegnanti.
Il Dirigente aveva sollevato il braccio a metterli a tacere: aveva sospirato prima di guardare il giovane e togliersi gli occhiali.
“Forse non si rende conto della gravità di quanto accaduto: non soltanto la reputazione del nostro Glee Club ma quella dell'intero istituto è stata compromessa per la sua bravata. Anni ed anni di rispetto e di decoro come una delle istituzioni scolastiche per la promozione di sani valori e di principi: tutto distrutto.
Il minimo che possiamo fare è garantire che la Dalton stessa prenda i provvedimenti necessari per salvaguardare il benessere e la sicurezza di chi la frequenta”.
Il ghigno ancora più esteso ne fece scintillare le iridi: un'espressione che anziché ammorbidirne i lineamenti, sembrava renderli persino più marcati, quasi spaventosi.
“Nessuno è stato costretto” sottolineò e il Dirigente annuì.
“... pena l'esclusione dalla competizione più importante”. Precisò quasi ironico. La voce, in realtà, per quanto pacata ne tradiva l'indignazione e la gravità delle parole che sembravano sgorgare dalle sue labbra con grande dolore.
“Se proprio vogliamo osservare i cavilli” si era stretto nelle spalle e il brusio e le occhiate gelide e sconcertate degli insegnanti si fecero ancora più pungenti ma non vi badò.
Non era mai stata la loro approvazione quella ricercata, mai il loro sprono.
“I Warblers sono stati cacciati dalla competizione e lei, Hunter Clarington, per la decisione unanime del consiglio, è da questo momento espulso”.
Parole che sembrarono rimbalzare nelle pareti di quella stanza: soltanto uno spasmo all'altezza della mascella e il pulsare del pomo d'Adamo ne tradirono la reazione.
Aveva stretto i pugni ma non aveva distolto lo sguardo.
“La preghiamo di lasciare l'istituto domani stesso”.
Si era alzato bruscamente in piedi, lasciando cadere la sedia alle sue spalle, incrociò le braccia al petto ed inclinò il viso di un lato.
“E' tutto?”.
Un vago accenno dell'uomo e Hunter si volse, diretto senza esitazione verso l'uscita.
“Le auguro buona fortuna Signor Clarington, spero che fuori di qui trovi qualunque cosa stia disperatamente cercando” era stato l'ultimo commento dell'uomo. Si era voltato ad osservarlo, le sopracciglia inarcate quasi a volerne intravedere un bluff o un'accezione ironica ma constatò, un guizzo di ironico divertimento, quanto fosse sincero.
Aveva riso, senza ironia, la fronte adagiata contro la porta: non vide gli sguardi increduli e sconcertati che l'assemblea si era scambiata ed uscì dalla stanza.
 
 
Si servì l'ennesimo bicchiere, lo sguardo più fosco e la piacevole sensazione che la sua mente stesse galleggiando: quella strana euforia che lo faceva quasi sorridere nel silenzio e nella penombra della stanza. Rigirò il bicchiere tra le dita, finì di berne il contenuto, si strofinò le labbra con il palmo della mano e rientrò nella camera: osservò il micio mangiucchiare nervosamente dalla ciotola, lo sguardo che lo percorreva quasi tremante prima di tornare a nascondersi.
Aveva sorriso divertito e compiaciuto, attraversando la stanza.
“Ho ferito i tuoi sentimenti felini?” aveva chiesto prima di lasciarsi sedere sul proprio letto e strofinarsi le dita sulla fronte.
Fu un trillo del computer a riscuoterlo: schiuse appena gli occhi per rimirare il lampeggiare di una schermata di chat che non si era neppure dato la pena di disconnettere.
Aguzzò la vista, chissà che il padre non lo stesse convocando via Skype proprio in quel momento: oh, sarebbe stato divertente vederlo scomporsi con la sua bella divisa piena di lustrini.
“Cazzate” disse tra sé e sé, un vago risolino prima di sollevarsi ed avvicinarsi allo schermo del pc, l'unica fonte di luce nella stanza. Appoggiò rumorosamente il bicchiere e storse appena le labbra alla vista del nick-name quasi familiare.
“Se persino tu scopi più di me, devo aver decisamente toccato il fondo” convenne fissando il baluginare dello sguardo di Mr Pussy da sotto il suo letto: inarcò appena le sopracciglia quando si rese conto che era una frase intera quella composta. Persino dotata di senso per quanto mancasse di ogni contatto con il mondo reale.
 
Da Unicorn Girl:
Ciao, sono ancora io, la padrona di Lord Tubbington. Non vuole mangiare e sono preoccupata: potresti lasciare il computer acceso, così può parlare con la sua fidanzatina?
 
Aveva riso fissando le parole prima di volgersi nuovamente al gatto.
“Non sapevo fossi gay. O forse sei femmina? Fa differenza?” si era riscosso quando un secondo messaggio era lampeggiato.
 
Sarò al McKinley fino a stasera: dopo le prove del Glee, c'è la partita di football. Grazie ancora anche da parte di Lord Tubbington, Brittany.
 
La sua mente sembrò reagire dopo qualche secondo di ritardo: si era sollevato bruscamente dalla sedia e, con lo stesso incedere rapido, aveva attraversato la stanza.
Scrutò tra i volumi, ignorando la vista offuscata e l'emicrania fino a quando non trovò il raccoglitore che cercava.
Vi aveva raccolto tutte le informazioni carpite sui rivali del Liceo e scorse rapidamente tutti i nomi fino a quando la sua vista non si bloccò allo scorgere, sotto la fotografia di una ragazza in divisa da cheerleader, il nome contrassegnato.
Brittany S. Pierce.
Vi erano delle annotazioni scritte a penna: mediocre cantante, ballerina di punta delle Nuove Direzioni, spesso associata a Mike Chang nelle coreografie più elaborate.
Nota bene: non si è diplomata insieme a Rachel Berry, Kurt Hummel, Finn Hudson, Noah Puckerman, Santana Lopez, Mercedes Jones e Mike Chang.
Accese l'interruttore per scrutarne i lineamenti: sembrava la classica biondina senza cervello – il che avrebbe spiegato anche l'utilizzo di quel nomignolo di dubbia intelligenza e quel parlare come una bambina ritardata, tanto fiduciosa delle capacità di due gatti di avere volontariamente una conversazione al computer, quando molto probabilmente stavano solo dando sollievo alle pulci o ad un prurito sessuale – e lo sguardo fissò la parete di fronte a sé mentre cercava di ricordare l'esibizione dei rivali.
La rivide in prima fila: i movimenti perfettamente coordinati a quelli del partner. I capelli biondi che ondeggiavano sulle spalle ad ogni movimento, la scioltezza dei passi ed una sicurezza che rendeva evidente quanto la danza fosse il suo elemento.
La stessa biondina che aveva visto, poco prima, mano nella mano con la brutta imitazione di Leonardo di Caprio con la bocca enorme, quello che insieme al traditore Blaine aveva tolto loro il trofeo.
Fu come un lampo di consapevolezza nell'oscurità.
Strappò la fotografia dall'album e quel ghigno scintillò nell'oscurità.
Adesso sapeva esattamente cosa fare: che Evans si fregiasse dell'idea di averlo fatto espellere; lui aveva tra le mani qualcosa di molto più succulento.
Tornò rapidamente alla sua postazione, cambiò il nick-name con un altro paio di iniziali e prese a digitare rapidamente qualche parola.
 
Chiedo scusa per la risposta così in ritardo: ho prestato il computer ad un amico. Comunque piacere di conoscerti, padrona di Lord Tubbington (nome davvero originale!).
Sarò lieto di aiutare i nostri mici nella loro romanticissima relazione platonica.
Mi chiamo Jason, a proposito.
Ps: Ballerina e cheerleader? Credo di aver sentito parlare di te. Complimenti per il piazzamento in classifica!
 
 
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Entrò nella propria camera, decorata di quella delicata tonalità d'azzurro che dava sempre l'impressione di rimirare il cielo in una stanza: era un pensiero che la faceva sentire leggera. Era facile immaginarsi danzare su quelle nuvole: libera e leggiadra, senza quel timore inconscio di dire o fare la cosa sbagliata. Senza il timore di non essere mai adeguata alla situazione.
Se era piuttosto facile essere quasi sempre di buon umore e spensierata, allegra e solare, in grado di trovare il lato positivo di ogni cosa e di strappare un sorriso alle persone accanto; quella era una di quelle giornate nelle quali si trovava a riflettere su come spesso i sorrisi che la circondavano sembravano essere di circostanza o non intaccare la simpatia delle persone.
Si lasciò cadere sul proprio letto e si rannicchiò di un fianco, il viso premuto contro il cuscino e quel nodo in gola che ne faceva stringere le labbra.
Erano in momenti come quelli che la mancanza di Santana era più che mai palese: adorava Sam e il suo sorriso, il luccichio del suo sguardo, le sue imitazioni spassose e il modo in cui riusciva a farla sentire meravigliosamente pur restando se stessa. Era come un complice con il quale condividere un linguaggio speciale e soltanto loro.
Ma era Santana a farle credere vi fosse davvero qualcosa di speciale in lei: per quanto molto più matura, affascinante, sensuale ed intelligente, riusciva sempre a lenire ogni remora stringendola tra le braccia. Abbandonandosi alla sua presenza, alla certezza di una carezza o di un semplice sorriso, qualche frase in spagnolo che avrebbe saputo strapparne nuovamente una risata.
Scosse il capo: Santana aveva la sua nuova vita e non si sarebbe mai pentita di averla spronata a realizzare il suo sogno. Sapeva che una parte di sé non avrebbe mai smesso di amarla e che il sentimento non sarebbe fluito, probabilmente rimasto sopito o probabilmente destinato a confluire in note più dolci e delicate per la sua migliore amica.
Abbracciò il cuscino, decisa a dormirci sopra, prima che un familiare suono le facesse schiudere gli occhi azzurri.
Le sopracciglia inarcate alla vista della casella di posta che lampeggiava sulla schermata del computer. Si sollevò con il torso per poter leggerne il mittente ed illuminarsi letteralmente alla vista dello stesso: si avvicinò alla scrivania, giocherellando con la coda di cavallo prima di leggere l'ennesimo messaggio di quella nuova corrispondenza.
 
 
Ciao Jason,
Gli allenamenti sono andati molto bene, anche se non mi piace quando la Sylvester comincia ad urlarmi contro. E poi continua a parlare del suo cannone ma non riesco a capire perché tutte guardano me quando pensa di usarlo per le Nazionali.
Oggi è una giornata da mal di gola: mi brucia tanto e non riesco a capire perché. Ho tanti pensieri che mi fanno scoppiare la testa e mi sento come se tutti vedessero qualcosa di sbagliato. Allora perché nessuno ne parla?
Tu me lo diresti se ci fosse qualcosa di sbagliato in me, vero?
Spero il tuo corso di musica sia andato bene, saluta la micina.
Credo Lord Tubbington sia davvero innamorato: quando dorme fa le fusa. Oppure fa le fusa mentre dorme, non lo so ma sicuramente è amore.
Xoxo Brittany.
 
 
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Lo sguardo era fisso sul proprio piatto senza neppure riuscire esattamente a vedere ciò che era stato preparato dalle cuoche. Vi era un silenzio quasi assordante: soltanto il cozzare delle posate contro i piatti di ceramica o gli spostamenti del braccio dell’uno o dell’altro commensale nel prendere il sale o raggiungere il bicchiere.
Un sordo silenzio che sembrava quasi farne fischiare le orecchie mentre contraeva dolorosamente la mano fino a conficcare le unghie nel palmo.
Non gli aveva rivolto parola: l’unica volta era stato quell’imperativo ordine di salire in auto quando da Westerville lo aveva condotto nella loro casa a Lima.
Aveva sollevato lo sguardo sull’uomo dall’altra estremità della tavola rettangolare.
Sedeva con la sua uniforme perfettamente lustra, tanto da chiedersi quasi se la indossasse anche per coricarsi o se ormai fosse divenuta parte così intrigante di se stesso da non riuscire ad immaginare di indossare un semplice completo sportivo o qualcosa di meno dannatamente formale.
Jonathan Clarington e suo figlio si somigliavano per corporatura: la stessa figura alta e il fisico temprato dall’addestramento militare, ma non lo sguardo. Erano occhi di un azzurro quasi glaciale quelli del padre: spesso impenetrabili, spesso capaci di lacerare il respiro per come riuscivano a scovare le emozioni, quasi fosse capace di comprendere ciò che era sempre trattenuto e celato.
Lo vide pulirsi meccanicamente le labbra col tovagliolo, spostò la sedia e si rimise in piedi: senza neppure rivolgergli lo sguardo, si avviò all’uscita.
Hunter ebbe un fremito: con uno scatto gettò il tovagliolo sul proprio piatto, si rimise a sua volta in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi.
“Di’ qualcosa!” lo esortò con voce rabbiosa, il respiro convulso nel percorrere in rapide falcate quella distanza mentre suo padre, molto lentamente, si voltava. Le sopracciglia inarcate, i muscoli serrati della mascella mentre Hunter lo fissava: il respiro ansante e la vena pulsante sul collo. L’ultima volta che aveva sentito un tale impeto, aveva rovesciato suppellettili del più rinomato bar di Lima.
Suo padre incrociò le braccia al petto, quasi stesse ulteriormente aspettando e Hunter strinse i pugni, avvicinandosi ulteriormente.
“SMETTILA D' IGNORARMI”.
Era stato un movimento fluido ed elegante quello con cui la mano dell’uomo si era stretta alla sua gola: l’impatto con la parete alle sue spalle era stato abbastanza irruento da intontirlo mentre fissava quegli occhi glaciali. Sorrideva suo padre, un modo rabbioso e simile a quello che increspava le sue stesse labbra.
“Guardati” lo scrutò con evidente disprezzo nel farne cozzare nuovamente il capo contro la parete dietro di sé e Hunter trattenne il fiato.
“Neppure la tua rabbia è autentica: è frutto di una reazione chimica perché sapevi di non essere capace di battere uno stupido coretto di una scuola statale, senza doverti drogare” gli occhi sgranati, Hunter osservava suo padre vomitargli addosso quella verità che non era sembrata tanto letale fino a quando non erano state le sue labbra a pronunciarla.
“E adesso” aveva proseguito in tono basso, rabbioso, divertito quasi. “… vuoi che io ti guardi in faccia da uomo a uomo quando sei solo un patetico ragazzino senza onore e senza gloria… e pretendi che io abbia qualcosa da dirti? Che io possa confrontarmi con te?”.
Cercò di continuare a sostenerne lo sguardo anche quando fu ulteriormente strattonato: la mano che cercava di afferrare quella dell’uomo perché l’abbassasse; cercò di continuare a guardarlo negli occhi, alla ricerca del fantasma di un sentimento diverso che si era illuso avrebbe mai provato nei suoi confronti.
“Non sei degno di considerarti mio figlio” aveva mollato la presa e il ragazzo si era dovuto sostenere alla parete, tossendo convulsamente per ritrovare aria che ne riempisse i polmoni, stramazzando in ginocchio.
Suo padre sorrise appena, il viso inclinato di un lato nell’osservarlo prima di incrociare le braccia al petto.
“Tornerai in Accademia il prossimo semestre” si era chinato e ne aveva strattonato i capelli sulla nuca, inducendolo a sollevare lo sguardo.
“Se c’è ancora qualcosa dell’uomo che credevo tu fossi, lo troveremo”.
Lo lasciò andare e si allontanò.
Non seppe quanto tempo rimase immobile al centro della stanza: nelle orecchie ancora l’eco delle parole del padre, il pulsare della nuca laddove lo aveva fatto cozzare alla parete alle sue spalle.
Si sollevò lentamente, i pugni stretti lungo i fianchi e la rigidità dei muscoli del viso.
Nuovamente incapace di respirare, nuovamente incapace di agire.
 
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Fusa e lunghe dormite sono senz’altro sintomo di qualcosa, hai ragione come sempre: sono sicuro che tu sia il migliore veterinario possibile per il tuo amato Lord Tubbington.
Permettimi una parola, Britt (è così che ti chiamano, vero?).
Non dovresti permettere agli altri di condizionare il tuo giudizio su te stessa: continua a camminare a testa alta e fare ciò che ritieni più opportuno. Segui il tuo cuore e non può che essere la scelta più giusta: mi fido di te; dovresti fare lo stesso.
 
Fissò lo schermo del tablet con aria annoiata prima di inviare il tutto dopo una frase di commiato: avrebbe avuto bisogno di un caffè extra - amaro per riuscire a smaltire la quantità illegale di glicemia che stava ingerendo da quando avevano cominciato quella sorta di corrispondenza. Non era stato difficile accattivarsene la simpatia: fin troppo semplice abbindolarla con qualche frase ben costruita e qualche carineria gratuita; meno piacevole doversi sorbire i patemi d’animo di quella che mentalmente sembrava sostare nell’infanzia o decifrare i cosiddetti “mal di gola”. Perché non poteva semplicemente dire, come le persone normali, di avere avuto una brutta giornata? O di non vedere sempre tutto maledettamente in rosa senza coinvolgere un circo di animali inesistenti.
Storse nuovamente le labbra, osservò il display che diede segno del messaggio correttamente inviato ed attese il ritorno del suo appuntamento della serata.
Doveva pur passare il tempo in qualche maniera e se non aveva più messo piede al Lima Bean, poteva ancora permettersi di invitare qualche ragazza nel prestigioso “Breadsticks” per una cena e, soprattutto, il dopo cena che fungesse come metodo per incanalare le energie.
Improvvisò un sorriso cordiale al ritorno della giovane (aveva alluso a dover incipriarsi il naso, quando non sembrava avere alcuna differenza), alzandosi cavallerescamente – cercando di non sollevare gli occhi al cielo o non serrare la mascella quando la sentì squittire in risposta - e spostandole la sedia. Le mani adagiate allo schienale della sedia, fu in quel momento che le porte del ristorante si aprirono a rivelare l'ingresso del biondino dalle labbra di pesce, la mano stretta a quella della giovane. Cercò di celare il sorriso che prepotente voleva farne curvare le labbra, prima di tornare al proprio posto e affrettarsi a nascondersi dietro il menù mentre il maître li accompagnava ad un tavolo di fronte alle vetrate.
Persino nel vestire e nella postura aveva qualcosa di incredibilmente puerile: a partire dalla sfumatura rosa del vestitino che ne fasciava il fisico slanciato, non particolarmente formoso seppur dovesse riconoscere gambe lunghe e slanciate mentre le accavallava, coprendosi con il tovagliolo. Giocherellava con il ciondolo al collo, il viso inclinato di un lato mentre osservava il giovane che stava profondendosi in qualche ebete imitazione che riuscì, tuttavia, a farla scuotere dalle risatine.
O fingeva per compiacerlo – coppia alquanto vomitevole seppur sembrassero incarnare perfettamente lo stereotipo da “biondo senza cervello” – oppure era reale divertimento quello che ne faceva curvare le labbra ritoccate di un lucidalabbra rosato, la mano ancora a sostenersi il viso prima di protendersi a sussurrare qualcosa.
“E così sei stato in un’Accademia militare” gli stava chiedendo la giovane di fronte a sé che inarcò le sopracciglia alla mancanza di un’immediata risposta. Si mosse confusamente sulla sedia ma prima che potesse voltarsi a comprendere quale angolo della stanza stesse osservando, si affrettò a cingerne la mano con un gesto fluido.
Quel sorriso più suadente e affascinante che la fece arrossire con fare compiaciuto e seppe di aver già vinto la partita.
Annuì in risposta ma l’impaccio di trovare qualcosa da dire, fu sventato dall’arrivo del cameriere e lasciò fosse prima la giovane a rispondere.
Lo sguardo di Hunter corse nuovamente all’angolo di fronte alla vetrata: si era scostata dal giovane Brittany, giocherellava con il ciondolo e sembrava persa nel suo mondo rosato e fiabesco.
Non smetteva di sorridere.
Una fatina distratta e sognatrice, ecco come appariva.
“E lei, Signore..?”
“Hunter?”.
 
 
Estrasse il denaro dal portafoglio dopo aver osservato soltanto distrattamente la cifra impressa sullo scontrino, una mano affondata nella tasca del soprabito a cercare le chiavi dell’auto mentre la giovane lo attendeva al tavolo, rimettendosi in fretta il soprabito.
Si riscosse al tocco delicato di una mano tra le scapole.
“Scusa?”.
Aveva sussurrato una voce femminile e Hunter si era voltato lentamente mentre riponeva il portafoglio nella tasca interna del soprabito ma lo sguardo tradì un fremito di sorpresa nello scorgere proprio la Pierce alle sue spalle.
Vista da vicino appariva ancora più sperduta ed esile, soprattutto con un abito che ne abbracciava le forme ad una maniera femminile per quanto non confondesse quell’atteggiamento più puerile e delicato. Lo stesso che gli parve di scorgere persino nel riflesso delle sue iridi: una limpida tonalità d’azzurro, un cielo terso di nuvole e puro ed incontaminato come appariva la sua indole, a tratti.
Lo sguardo azzurro baluginò e indugiò sul suo viso, gli parve che schiudesse appena le labbra nel rimirarlo con le sopracciglia inarcate prima di porgergli la sciarpa con motivo alla scozzese.
“Ti è caduta questa” sussurrò e anche la sua voce sembrava uno scampanellio e, mentre abbassava appena lo sguardo per prendere la sciarpa, le iridi verdi indugiarono sul suo volto.
“Grazie” sussurrò in risposta e la ragazza accennò un sorriso ma sembrarono entrambi fermarsi in quella reciproca osservazione, quasi attendendo fosse l’altro a compiere un movimento o un qualunque gesto.
Fu Hunter a scostarsi per superarla ma ne sentì nuovamente la voce: la tonalità meno squillante ma più incuriosita e confusa.
“Ci siamo già visti?”.
Sorrise Hunter, lo sguardo rivolto di fronte a sé:  roteò appena il viso, scrutandola con la coda dell’occhio mentre sostava alle sue spalle.
“Te lo dirò la prossima volta che ci rivedremo” sussurrò in risposta, un mormorio appena più suadente e divertito – se soltanto avesse saputo! – prima di avvicinarsi alla sua dama, porgendole il braccio e tenendole aperta la porta.
Indugiava ancora nello stesso punto, Brittany, le mani strette in grembo, il viso inclinato di un lato ed una muta domanda che ne faceva ancora schiudere le labbra.
Sentì il suo sguardo su di sé mentre si chiudeva la porta alle spalle.
Non avrebbe dovuto attendere troppo.
 
~
 
 
Non aveva capito cosa si celasse dietro lo sguardo pensieroso di Sam: in vero non era mai stata particolarmente abile nel comprenderne lo stato d’animo ed era sempre stato molto più semplice con Santana. In quel caso, non era neppure necessario quasi ch’ella parlasse: la sua postura più o meno rigida, la contrazione delle labbra e anche lo sguardo erano spesso eloquenti ed era anche più naturale reagire in modo da riuscire a placarne il fastidio o strapparne nuovamente un sorriso che ne illuminasse gli occhi.
Se lei e Sam sembravano tanto simili, per certi versi, probabilmente era una propri a mancanza quella che le impediva di comprendere tutto e di riuscire a reagire di conseguenza, che cosa dovesse esattamente fare o dire. Essere se stessa non era sempre la soluzione più opportuna: vi era sempre quella sensazione di non comprendere a fondo cosa stessa accadendo o di non essere semplicemente adeguata alla situazione.
Aveva l’aria stanca Sam mentre le prendeva la mano che strinse per istinto, avvicinandosi d’istinto, quasi aspettando un abbraccio o un gesto d’affetto. Continuava ad osservarla il giovane e aveva trattenuto il respiro prima di pronunciare quelle parole che non avrebbe potuto dimenticare. Parole che sembravano immortalare quel momento e renderlo più reale e doloroso, un nodo in gola che difficilmente si sarebbe sciolto quella volta.
“Devo lasciarti andare, Brittany” aveva sussurrato, lo sguardo velato di dolore e aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro di sé: ne aveva stretto maggiormente la mano e aveva boccheggiato prima di scuotere la testa.
“N-Non capisco, è perché ho dimenticato di richiamarti o perché-”.
Aveva scosso il capo Sam, l’ombra di un sorriso prima di sfiorarne teneramente la mano e osservarla in viso con maggiore attenzione: aveva allungato la mano a sfiorarne la guancia e scostarne i ciuffi di capelli biondi.
“Non mi vuoi più bene?” aveva chiesto, la voce più rauca ma il ragazzo aveva scosso il capo, una contrazione dolorosa della mascella.
“E’ proprio per questo che devo farlo: perché so che il tuo cuore non è mio”.
“Sam-”.
Aveva boccheggiato, le labbra schiuse e gli occhi lucidi nel tentativo di dire qualcosa: vi era qualcosa da dire a quel punto? Una parte di sé neppure sembrava sorpresa di quelle parole, forse una parte di sé aveva già capito ed era d’accordo con lui.
“Mi dispiace Britt” ne aveva baciato delicatamente la fronte e si era alzato: non si era voltato e si era allontanato. Soltanto sulla soglia dell’uscio si era voltato per quella che sembrava un’ultima volta.
“Lo so che lo capirai”. Le aveva sorriso, quel sorriso più dolce e sbarazzino e Brittany era rimasta ad osservarlo fino a quando non era uscito dall’aula di canto.
No, non capiva.
Perché chiunque dicesse di amarla, finiva poi con l’abbandonarla?
Cosa c’era di sbagliato in lei?
Perché nessuno lo avrebbe mai spiegato?
 
 
Affondò il viso nel cuscino, rannicchiata in posizione fetale, gli occhi chiusi e strinse con forza il cuscino.
 
Oggi è una di quelle giornate in cui non importa ciò che fai o dici, ciò che pensi. Accade tutto quello che temevi e non puoi fare nulla.
Sono tanta stanca.
 
 
~
 
Era passato molto tempo dall’ultima volta che era entrato nello studio del padre ma faceva effetto come, anche a distanza di tempo, riuscisse a procurare quella sensazione di profondo soffocamento. Quel desiderio di sfuggire da quelle stesse pareti, quel nodo in gola e quella contrazione del petto: si rivide bambino a rimirarne il profilo e cercarne un segno, una parola di conforto o la sua presenza.
Era sempre stato così incredibilmente rigido, sempre impossibile capirne i pensieri, sempre arduo cercare di compiacerlo o riceverne un gesto di apprezzamento.
Neppure l’Accademia era servita: averlo tra gli insegnanti ben lungi dall’essere uno stimolo un avvicinamento, aveva reso tutto persino più angosciante, soprattutto leggere l’insoddisfazione per quanto cercasse di compiacerlo, per quanto fosse sempre una tortura sentirsi sminuire di fronte al resto della camerata. Per quanto essere suo padre non sembrasse fonte di orgoglioso o sprono a stargli vicino ma, piuttosto, un peso perché tutto ciò che faceva non era mai all’altezza delle sue aspettative.
Era un dato di fatto e Hunter si era arreso all’evidenza.
Ma sostava una parte di lui, la stessa che si accendeva talvolta di rabbia e di dolore che sembrava reclamare qualcosa, che sembrava incapace di trovare pace.
Entrò nella stanza dopo averne abbassato la maniglia con un gesto fluido e sicuro: era chino sulla propria scrivania, di fronte alla quale vi era un altro uomo, anch’egli in divisa.
Sollevarono entrambi lo sguardo in sua direzione e il secondo uomo gli si avvicinò: scrutò a sua volta il nuovo arrivato ma, mentre lo sguardo del padre era impenetrabile come sempre, l’uomo gli rivolse un vago cenno del capo.
“Hunter” lo salutò, infatti, e il ragazzo fece un cenno del capo a quello che era stato uno degli insegnanti dell’Accademia. “… tuo padre mi ha comunicato la tua decisione di tornare tra noi”.
Un muscolo si contrasse sulla mascella del ragazzo che fissò il padre, le sopracciglia inarcate e la rigidità delle spalle mentre questi tornava a stilare qualcosa sul foglio di fronte a sé, totalmente disinteressato alla discussione.
“Saremo lieti di riaverti: non avresti mai dovuto lasciare l’Accademia per fare qualche salto su un palco tra adolescenti pieni di frivoli sogni e false speranze” era evidente l’intonazione canzonatoria e il padre serrò appena la mascella mentre Hunter sostava immobile, ignorando le parole dell’uomo.
“Devo parlarti” si rivolse al genitore ma questi lo ignorò: per lunghi istanti di silenzio il solo suono prodotto fu quello della penna che grattava sul foglio. L’ospite guardò dall’uno all’altro vagamente divertito.
Solo alla fine della stesura, Jonathan Clarington levò lo sguardo.
“Non ho nulla da dirti” fu la gelida risposta e il ragazzo trasalì come se fosse stato schiaffeggiato.
Un vago verso di divertimento dell’altro uomo.
“Papà”. Tentò nuovamente, muovendo un passo in sua direzione ma fu l’altro a intervenire, le braccia incrociate al petto.
“Tuo padre e superiore ti ha parlato: non hai motivo di restare qui. Ritirati, è un ordine”.
“ME NE FREGO DEI TUOI ORDINI” si sentì gridare, i pugni tremanti e la vista offuscata ma sostenne lo sguardo dell’uomo che sembrò persino più soddisfatto. Si rivolse al collega con un sospiro.
“Come ti dicevo, non avresti dovuto acconsentire ma sono sicuro che riprendere l’addestramento ne farà sbollire gli ardori da steroidi e -”.
Jonathan levò la mano ad interromperlo e si rimise in piedi.
“Andiamo, abbiamo finito: parleremo altrove”.
Aveva raccolto i documenti in una valigetta e, seguito dall’altro uomo, aveva attraversato la stanza: non aveva rivolto alcuno sguardo al figlio che sostò immobile. L’altro uomo ne diede una pacca sulla schiena, chinandosi al suo orecchio.
“Ci vedremo molto presto, riposa Hunter”. Un verso di divertimento e dovette trattenersi dal fare nuovamente esplodere la rabbia e colpirlo.
La porta si chiuse alle sue spalle e Hunter rilasciò il respiro: ascoltò i loro stivali percorrere i lunghi corridoi della villa prima di uscire e sbattere l’uscio.
Il rumore dell’auto che usciva dal vialetto e attraversò a grandi passi la stanza: un gesto rabbioso quello con cui rovesciò tutte le suppellettili dalla scrivania e calciò via la sedia prima di uscire dalla stanza.
 
Dovremmo smetterla di permettere agli altri di definire la nostra vita e di calpestarci. Dovremmo parlarne di persona.
 
Si era asciugato le labbra e aveva risposto il bicchiere sulla scrivania, ignorando il miagolio preoccupato di Mr Pussy e il timido tentativo di strusciarsi alla sua gamba. Un sorriso quasi maligno sul volto mentre accludeva un indirizzo.
Era arrivato il momento che Sam Evans – o chi per lui – pagasse per quello che aveva causato.
 
 
~
 

Sembrava davvero un posto strano ed insolito per un appuntamento: probabilmente Jason non conosceva così bene Lima se aveva scelto un edificio abbandonato e non una caffetteria del centro o una piazza o una strada più colorata e piena di vita.
Si era guardata attorno confusamente, ma aveva controllato più di una volta ed era certa che quella fosse la strada giusta: la stanza doveva esser stata un atrio o qualcosa di simile e vi erano ancora delle bacheche appese alle pareti, vecchi poster strappati.
Si guardò ancora attorno, cincischiando con il cellulare fino a quando una ventata d’aria fredda non era penetrata nella stanza quando la porta era stata spalancata: si era voltata, pronta a conoscere il volto di Jason per poi inarcare le sopracciglia e sgranare gli occhi nel riconoscere il giovane.
Questi sorrideva, la mano adagiata alla porta mentre si guardava attorno, dopo averle rivolto uno sguardo ed essersi illuminato.
“Io ti conosco” aveva sussurrato la giovane, il viso inclinato di un lato mentre questi – dopo aver controllato fosse tutto tranquillo – si chiudeva la porta alle spalle. Il sorriso continuava a baluginare nelle iridi ma non era il sorriso di ringraziamento che le aveva rivolto al ristorante, non sembrava neppure un sorriso particolarmente lieto e soddisfatto.
Sentì una strana sensazione di disagio nello scrutarlo mentre questi si toglieva il soprabito che appoggiò all’attaccapanni.
“Sei il ragazzo del ristorante” aveva proseguito e soltanto allora era tornato ad osservarla, il sorriso persino più divertito e soddisfatto ma annuì.
“Hunter Clarington” pronunciò e lo smarrimento ne attraversò lo sguardo azzurro mentre egli affondava le mani nelle tasche e cominciava ad avanzare in sua direzione. Non sembrava aver fretta, scrutava bene l’ambiente circostante e continuava a ronzarle attorno con lo stesso incedere flemmatico di un predatore.
“Credevo ti chiamassi Jason” aveva ribattuto lei confusa, seguendone i movimenti e l’altro aveva ridacchiato in risposta, continuando a scrutarne la figura, camminandole attorno.
“Ho mentito” replicò semplicemente.
“Non ti piace il tuo nome?” aveva chiesto ingenuamente e l’altro sembrò ridere persino più forte.
“A te non piacerà molto presto” di fronte al suo sguardo sempre più confuso, aveva sorriso.
“A nessuno dei tuoi amici piace il mio nome ma, come ti avevo promesso, ora ti dirò dove ci siamo già visti”.
Si era fermato di fronte alla giovane, le braccia incrociate al petto prima di porgerle una fotografia, strappata da un articolo, con tutto il coro dei Warblers.
Nel riconoscere il giovane aveva sgranato gli occhi prima di tornare ad osservarlo.
“Non capisco, io-”.
Le aveva appoggiato le dita sulle labbra, un sorriso canzonatorio nello scrutarla.
“Credo ci siano molte cose che tu e i tuoi amici non avete capito” aveva sibilato. “Una di queste è che non è mai conveniente mettersi contro di me: dovresti dirlo al tuo ragazzo, prima che riprenda a giocare al Detective Conan”.
Normalmente avrebbe sorriso del riferimento, affermando che Sam non amava particolarmente quel cartone ma preferiva i Simpson ma c’era qualcosa nel suo sguardo che la faceva atterrire. Sembrava esserci un fuoco, qualcosa di cattivo e di maligno e non riusciva a comprendere cosa potesse desiderare da lei, perché dovesse prendersela con lei.
Aveva boccheggiato e aveva cercato qualcosa da dire.
“Se sei arrabbiato, mi dispiace, a me è piaciuta la vostra esibizione e-”.
“Shhh” di nuovo alle sue spalle, Hunter le aveva cinto il fianco con un gesto rapido e secco che l’aveva fatta trasalire mentre ne carezzava distrattamente con le dita, una morsa quasi glaciale e prepotente prima di costringerla a voltarsi e osservarne gli occhi sgranati.
Era impallidita e le tremavano le labbra: cercò di apporre una timida resistenza ma Hunter la premette maggiormente a sé.
Se si fosse concentrato, nonostante le percezioni distolte dell’alcool, avrebbe potuto sentirne il calore della pelle al di sotto degli abiti, il seno piccolo ma sodo che premeva contro il petto, il suo battito alterato che era persino più eccitante mentre lentamente la povera piccola Alice sperduta sembrava realizzare il brutto guaio nel quale si era cacciata.
“Il tuo ragazzo si è divertito con me ma, adesso, sarò io a divertirmi con te” aveva sussurrato mentre entrambe le mani ne cingevano la vita a pressarla maggiormente contro di sé: la sentì dibattersi ma ne strinse i capelli, facendole reclinare il capo all’indietro.
“E’ inutile che provi a urlare: non c’è nessuno qui attorno” le disse maligno, il sorriso ancora più prepotente ma la ragazza lo guardò con occhi velati di angoscia e di preoccupazione, un lieve gemito di dolore alla pressione della sua mano mentre Hunter ne scrutava la gola esile e delicata.
“Lo so che Jason dentro di te, da qualche parte” aveva sussurrato con voce flebile e tremante, una supplica disperata che fece ridere Hunter persino più forte.
“Quando lo capirai che gli unicorni non esistono, tesoro?” la schernì, attirandola maggiormente a sé e strappandone un gemito di timore e di dolore mentre si chinava verso il suo collo e le mani cercavano di insinuarsi nell’apertura dell’abito sulla schiena.
Appoggiò il viso al suo collo, ne percorse la linea curva con il respiro, la sentì cercare di scostarlo ma rafforzò solo la pressione.
Schiuse le labbra per mordere la pelle candida e delicata, soffice.
Per contaminare la sua purezza e sentirsi lui stesso meno sporco, per deturpare qualcosa di delicato perché nulla in quel mondo valeva la pena di restare integro.
Una fragranza delicata e stuzzicante e sbarrò gli occhi nel riconoscerla: un dardo di luce nell’oscurità e sembrò ritrovare un barlume di lucidità.
Voci ed immagini lontane tornavano vivide e reali nella sua mente, ne strappavano il fiato e ne immobilizzavano il cuore in une gelida morsa.
Che sto facendo?
Ne sentì il tremore diffuso, la voce ridotta ad un sussurro disperato.
“Ti prego… non lo dirò a nessuno, lasciami” stava supplicando con il viso nascosto contro il suo petto e Hunter deglutì a fatica.
Le sue mani tremarono prima di scostarsi bruscamente, si passò una mano sul viso quasi soltanto in quel momento realizzasse lo scempio che stava per compiersi.
Boccheggiò, quel profumo quasi intossicante che ne riempì i pensieri.
“Vattene” sussurrò e seppur dovesse essere un ordine, suonò come una supplica, quasi non si fidasse più di se stesso.
La sentì trasalire: ne immaginò gli occhi sgranati e confusi ma non volle leggere nello sguardo azzurro quale mostro fosse divenuto, non voleva incontrare i suoi occhi e sapere quanto fosse ormai dannato e soltanto degno di biasimo o di disgusto.
Ne ascoltò lo scalpiccio di passi mentre si affrettava a raggiungere l’uscita e si appoggiò alla parete alle sue spalle, gli occhi socchiusi e il respiro affannato prima di lasciarsi scivolare lungo la stessa.
Lo sguardo verde perso in un punto indefinito e un solo pensiero fisso e implacabile.
Fragola. Profuma di fragola.
 
~
 
Non riusciva ad addormentarsi quella notte, Brittany: la sua mente ripercorreva gli eventi della giornata e l'incontro inconsapevole con quello stesso ragazzo con cui aveva parlato a lungo attraverso il computer.
Neppure per un istante l'aveva sfiorata il dubbio che potesse essere pericoloso, che potesse celarsi qualche malintenzionato in una persona che, fino a quel momento, le era stata di conforto, l'aveva fatta sentire compresa, persino protetta.
Ascoltò i suoni del temporale ma ogni volta che provava a chiudere gli occhi rivedeva quello sguardo verde completamente trasfigurato dalla rabbia, da qualcosa di oscuro che sembrava dilaniarlo dall'interno, stravolgendone i lineamenti, rendendo essi stessi paurosi.
Si strinse maggiormente alle coperte, premette il viso contro il peluche e si morse il labbro.
Forse Hunter su una cosa era stato sincero: gli unicorni non esistevano.
C'era un mondo spaventoso racchiuso fuori da quelle mura e lei era stata sempre fin troppo entusiasta e poco attenta per comprenderlo, lasciando che fossero prima Santana e poi Sam a prendersi cura di lei.
Ma in quel momento non aveva più nessuno e avrebbe dovuto risollevarsi con le sue sole forze. Un lampo illuminò la camera e strinse maggiormente il pupazzo.
Ma anche in una notte di tempesta, ogni tanto luce squarciava le nuvole: in Hunter si celava ancora il Jason che aveva imparato a conoscere e al quale si era affezionata.
Doveva soltanto lasciarlo emergere.
 

La vista era annebbiata ma non era poi qualcosa di inusuale: era appoggiato al balcone del bar e svuotò l'ennesimo bicchiere. Il temporale fuori dal locale sembrava lontano anni luce.
Per quanto cercasse di stordirsi, continuava a vedere lo sconcerto e la paura in quegli occhi, quelle labbra tremanti e quella supplica silenziosa.
Si chiese come avesse potuto desiderare di insozzare quella purezza, come avrebbe potuto, soprattutto, vivere da quel momento in poi con una simile consapevolezza.
Non aveva in fondo già distrutto la reputazione e il rispetto della Dalton?
Probabilmente era il suo destino rompere tutto ciò cui appartenesse: il prestigio della sua famiglia, la fama di uno dei gruppi di canto coreografato tra i più rispettati e persino la purezza di una ragazza che aveva peccato di ingenuità.
La musica era sempre più alta, sorseggiò un altro bicchiere e si rimise in piedi: barcollò leggermente verso l'uscita, scontrandosi con uno sconosciuto. Cercò di metterne a fuoco l'immagine, mentre questi lo scostava bruscamente.
“Guarda dove cammini”.
Un vago sorriso gli increspò le labbra: forse non sarebbe stata, dopotutto, una serata del tutto inutile.
“Levati” un gelido sibilo.
“Non ho capito bene” lo minacciò l'altro e Hunter sorrise. Lasciò scorrere lo sguardo su tutto il locale prima di stringere la mascella e colpirlo.
Gli furono addosso in breve tempo, trascinandolo fuori dal locale, sotto la pioggia incessante ed accerchiandolo. Non emise un gemito, chiuse gli occhi ad ogni singolo impatto, ogni singolo pugno e calcio che si abbatté sul suo corpo.
Una parte di sé seppe di meritarlo.
Fragola, pensò ancora prima di perdere i sensi, neppure accorgendosi della polizia giunta sul posto, lei profuma di fragola.
 
~
 
Era una bella giornata di sole quando si svegliò e Brittany scostò le tendine della finestra per rimirare il paesaggio con un sospiro. Lasciò entrare l'aria fresca e si voltò con sguardo più deciso. Gettò un'occhiata al computer sul quale aveva spesso, negli ultimi tempi, trovato risposte ai suoi dubbi e tormenti, ma non quel giorno.
Scosse il capo.
Sarebbe iniziata una nuova fase della sua vita, si era detta.
Sorrise a sua madre, venti minuti dopo, quando entrò in cucina e prese i cereali da immergere nella propria tazza di latte mentre il padre seguiva il notiziario del mattino.
Non amava i telegiornali, specialmente le brutte notizie che sembravano sempre rovinare il buon umore: immerse il cucchiaio nella tazza, riponendosi i capelli dietro l'orecchio fino a quando suo padre non alzò il volume.
La Dalton? Non erano i vostri rivali?” le chiese e Brittany sollevò il capo mentre il cucchiaio le sfuggiva di mano dopo aver scorto la fotografia di quel viso fin troppo familiare.
Lo speaker prese nuovamente parola, si trovava al di fuori dell'ospedale cittadino.
“Hunter Clarington, già noto per l'accusa del ricorso agli steroidi e l'espulsione del suo gruppo dalle competizioni di canto del Paese, è stato ieri ritrovato privo di sensi all'uscita di un locale notturno. Sembra sia stato vittima di un'aggressione: ha riportato due costole fratturate e delle escoriazioni sul volto. Inoltre, i livelli di alcool nel sangue erano elevati ma nessuna sostanza stupefacente. Gli inquirenti sospettano che si tratti di una rappresaglia tra ex compagni di scuola: ricordiamo che il giovane è stato espulso dalla Dalton Academy che si è detta completamente all'oscuro dell'intera vicenda.
Quel che è certo è che l'inchiesta è tutt'altro che conclusa”.
Suo padre scosse il capo e spense la televisione con un sospiro.
“Non mi sorprende che un tipo del genere abbia imbrogliato, ma è stato tutto vano, vero tesoro?” si era volto verso la postazione della figlia ma sgranò gli occhi al vedere il suo posto vuoto e, poco dopo, udì il tonfo della porta di ingresso.
 
 
Indugiò di fronte alla vetrata a lungo, lo sguardo perso nel vuoto e il respiro convulso: ricordava ancora l'accusa che il giovane le aveva mosso contro. Non avrebbe potuto facilmente dimenticare quella luce nello sguardo fosco, quella rabbia quasi bestiale e selvaggia.
Nulla di completamente simile all'immagine che scorgeva da quel vetro: era steso sul letto, il viso aveva qualche ammaccatura che era già stata disinfettata. Un'ampia fasciatura a coprirne il torace sotto la casacca dell’ospedale.
“Vuole entrare?” le chiese un'infermiera con aria bonaria e Brittany esitò, il respiro trattenuto prima che la donna le appoggiasse la mano sulla spalla e le sorridesse con maggiore dolcezza.
“Non avere paura: preferiamo rimanga addormentato ancora un po'. Era tutto ammaccato” spiegò e Brittany varcò la soglia della camera mentre l'infermiera le indicava la sedia accanto al letto. Esitò ancora la giovane ma, mossa da qualcosa di inspiegabile (che fosse il dispiacere, la confusione o la mera curiosità, non seppe dirlo) si accomodò poco dopo.
Ne osservò il viso rilassato nel sonno: aveva le palpebre strizzate e il respiro era irregolare e difficoltoso: sembrava febbricitante a giudicare dalle gocce di sudore che colavano sul viso e un'escoriazione particolarmente visibile sulla guancia, poco sopra il neo accanto alle labbra.
“Sei una sua amica?”.
Le chiese l'infermiera, tra le mani la cartella del giovane e la penna tra le dita.
Brittany si morse il labbro, distolse lo sguardo per osservare l'infermiera e scuotere leggermente il capo.
“Una parente?” incalzò. “... abbiamo già contattato suo padre ma non è ancora arrivato: sono sicura che gli farebbe piacere avere qualcuno accanto, quando si sveglierà”.
Non rispose Brittany, lo sguardo corse nuovamente al suo viso e alla contrazione dolorosa dei lineamenti.
“Si riprenderà presto” le sorrise l'infermiera ma pose da parte la cartella e le strinse la spalla. “Vi lascio un po' soli”.
 
 
Il suo viso sembrava invecchiato e gli occhi di una tonalità verde simile alla sua sembravano più opachi: ancora stentava a credere che se ne stesse andando così rapidamente.
Che nell'arco di pochi mesi, della madre che aveva sempre amato fosse rimasto così poco: il viso era già incavato, quasi sempre stanca e il parlare era sempre più difficoltoso. Ma continuava a stringergli la mano, paradossalmente era sempre lei a farlo sentire al sicuro.
Bastava il tocco delle sue dita tra i capelli o sul viso a farne infondere un dolce calore o specchiarsi nel suo sguardo per ritrovare una parvenza di serenità.
Almeno quella necessaria a mantenersi calmo e mantenere il controllo di sé.
Era stato in occasione della vittoria alle Provinciali che ne aveva visto lo sguardo raggiante di gioia e di orgoglio, lo aveva stretto e quella fragranza dolce e soffusa sembrava la sola a farne ritrovare il respiro. Le sue dita a sfiorarne i capelli e si era lasciato cullare come quel bambino che cercava l'approvazione del padre e trovava poi rifugio soltanto tra le sue braccia.
Aveva provato vergogna, per la prima volta, soltanto presentandosi a lei e dicendole ciò che era accaduto quando le analisi del sangue si erano rivelate positive all'uso di sostanze stupefacenti e il provvedimento disciplinare aveva coinvolto l'intero coro.
Lo aveva ascoltato sua madre, malgrado non osasse guardarla negli occhi, gli aveva stretto la mano con la stessa energia ed intensità e ne aveva accarezzato il dorso.
Solo allora aveva puntato gli occhi nei suoi e il nodo in gola era divenuto quasi insopportabile.
“Mi dispiace, mamma” aveva sussurrato con voce rauca.
Ella aveva continuato a sorridergli con dolcezza e aveva scosso il capo.
“L'importante è che tu stia bene” aveva articolato le parole con difficoltà e Hunter aveva schiuso le labbra.
“Non volevo deluderti”.
“Non lo hai fatto” aveva parlato con voce affannata e aveva continuato a stringerne la mano, prima di sollevare a fatica la sua. Hunter si era sporto, consapevole di cosa volesse fare e aveva lasciato che la carezza giungesse al suo volto. Aveva socchiuso gli occhi.
“Promettimi che non ti farai più del male” aveva esalato sua madre e Hunter aveva annuito cercando di trattenere le lacrime.
“Va tutto bene” lo aveva stretto a sé con dolcezza. “Va tutto bene”.
 
Sembrava fluttuare nel suo vuoto interiore: non vi erano suoni o luci, soltanto oscurità e silenzio e i volti e le immagini si sovrapponevano, senza lasciargli trovare pace o respiro.
“Cerca di riposare, Hunter” sentì quel sussurro appena percepibile, da qualche parte lì vicino.
Di nuovo quel profumo e quella determinazione interiore a seguirlo, perché esso stesso ne avrebbe procurato una guarigione.
Esso stesso doveva essere quel segno invocato, il ritrovamento di se stesso.
 
 
Si era alzata in piedi, sapeva che era giunto il momento di allontanarsi e lasciare finalmente il capezzale del giovane: aveva passato quell'ultima ora ferma su quella sedia, rimirandone i lineamenti sofferenti per la febbre, il petto che si alzava e si abbassava quasi faticosamente e la contrazione dei muscoli. Era sempre più pallido ed emaciato, sembrò provare a schiudere le labbra, muoversi nel sonno e non poté che domandarsi se non vi fosse anche un brutto sogno a turbarlo. A quelle immagini, si erano sostituite quelle del giorno prima che aveva tuttavia rimosso per poi rimandare a mente quegli scambi di e-mail e quella comunicazione sotto false spoglie.
Malgrado tutto, non poteva che continuare a ripetersi che il suo giudizio non era stato del tutto scorretto. Era sicura che Jason fosse dentro di lui, che si celava tra tanta rabbia e tanto dolore, qualcosa di buono. Che qualcosa lo avesse fatto cambiare e se era stata davvero la vittoria delle Nuove Direzioni, dopo la squalifica, non poteva che dispiacersene.
In fondo, pensò osservandolo e non potendo fare a meno di pensare che somigliasse ad un bambino, era come in una delle sue favole preferite: il ragazzo rancoroso e maligno del giorno prima era una forma simbolica della Bestia, di quell'anima con le fauci e lo sguardo aggressivo; che in fondo non era che un Principe, in attesa della persona che spezzasse l'incantesimo che lo rendeva schiavo di se stesso.
Aveva allungato una mano al suo viso, attenta a non urtare una delle escoriazioni e scostandone una ciocca di capelli.
“Cerca di riposare, Hunter” aveva sussurrato, aveva lasciato il bigliettino scritto poco prima sul comodino accanto al letto e si era diretta verso l'uscita, dopo avergli rivolto un ultimo sguardo.
Quasi si scontrò con un uomo sulla soglia dell'uscio e questi la scrutò dall'alto, le sopracciglia inarcate prima di spostarsi per consentirle di uscire.
Lo ringraziò con un sorriso, immaginando – data la somiglianza – si trattasse del padre.
“Si riprenderà presto” gli disse con voce soffice e l'uomo inarcò le sopracciglia.
Annuì appena, porgendole la mano.
“Jonathan Clarington” si presentò e la ragazza la strinse a sua volta.
“Brittany Pierce”.
“Una studentessa presumo”.
Aveva annuito.
La Dalton Academy è un istituto maschile”.
“Frequento il McKinley”.
L'uomo aveva appena annuito, seppur apparisse confuso e incuriosito dalla sua presenza.
“Grazie della visita: apprezzo un comportamento sportivo e leale” le disse con fare pomposo ma il sorriso non si estese allo sguardo che restò glaciale nello scrutarla.
“Sta arrivando anche sua moglie?”.
L'uomo si irrigidì.
“Hunter la stava chiamando prima...”. Il cipiglio sulla fronte dell'uomo sembrò persino più accentuato.
“E' morta due settimane fa” rispose secco e Brittany trattenne il fiato mentre l'uomo le volgeva appena un cenno del capo.
“Buona giornata” non ebbe tempo di replicare perché la porta le fu chiusa in faccia: restò per qualche istante immobile ad osservare l'uomo di fronte al letto del figlio.
 
 
 
 
 
Gli sembrava di sostare in una sorta di limbo senza suoni né rumori: riusciva tuttavia a percepire, di quando in quando, qualche voce. Sarebbe potuto restare esattamente in quel nulla, non la situazione ideale,forse, ma lì non c'era dolore.
Non c'era timore e non c'era quella mancanza di respiro.
A nessuno comunque sarebbe importato.
“Hai visto quella ragazza?” sentì una voce poco distante da lui e l'attimo dopo quel piacevole refrigerio sulla pelle che lo indusse a rilassarsi mentre, molto lentamente, cominciava a riacquistare consapevolezza del suo corpo. Un profondo dolore all'altezza del fianco, il bruciore della pelle insieme alle ferite sul viso.
“Quella biondina carina? Non ha parlato molto: deve essere la fidanzata ma è andata via appena è arrivato il padre” sembrava confusa.
 “Non mi sorprende, faceva impressione persino a me”. Ribatté l’altra ironicamente.
“Gli ci vorranno un bel po' di antidolorifici”. 
“Sempre meglio degli steroidi: così giovane poi”.
 
 
Si svegliò poche ore dopo: la gola secca e cercò di sollevare il torace, gemendo per il dolore e sfiorandosi appena il fianco laddove vi era la stretta fasciatura. Allungò il braccio verso il comodino a prendere un bicchiere d'acqua fresca, scorse un cartiglio in un cartoncino colorato che prese tra le dita con sguardo incuriosito.
Una calligrafia tondeggiante e femminile.
 
 
Ciao Hunter,
Ho ripensato a quello che mi hai detto ieri e se tutto questo è accaduto per colpa del mio Glee Club, mi dispiace e mi scuso per tutti noi.
Ma credo ancora che tu in realtà sia quel Jason che ho conosciuto: un po' come il Principe e la Bestia, anche se non sembri un mostro e non hai le zanne!
Spero che tu guarisca presto, non ho voluto svegliarti.
Ti abbraccio,
xoxo Brittany.
 
Si adagiò nuovamente tra i cuscini, una mano sulla fronte, ignorando l'infermiera che era appena entrata e gli parlava con fare materno.
Continuò a scrutare il cartiglio, nella mente l'immagine di quegli occhi sgranati nel timore e quel sorriso trasognato mentre giocherellava con il suo ciondolo al ristorante.
O mentre gli porgeva la sua sciarpa e lo scrutava curiosamente per una somiglianza non riconosciuta.
“Tornerà presto” gli sorrise l’infermiera con aria appena più maliziosa. “E’ stata lì seduta per ore, prima che arrivasse tuo padre: davvero un fiore di ragazza” si era permessa di aggiungere e Hunter non aveva replicato.
Un vago sospiro nell’appoggiarsi nuovamente al cuscino: ancora una volta, Brittany Pierce lo aveva lasciato senza parole.
 
 
Non aveva detto a nessuno dove era stata realmente il giorno prima: una parte di sé sembrava sapere che non avrebbero mai potuto capire o avrebbero continuato a pensare che Hunter fosse solo un criminale e dovesse essere recluso.
Aveva cominciato ad abituarsi a quella solitudine e guardare il profilo di Sam non era più molto doloroso: aveva fiducia in lui e sapeva che avrebbe compreso a pieno le sue parole e che separarsi fosse stata la giusta decisione.
O forse il suo destino sarebbe stato simile a quello di Marley prima di trovare il coraggio di farsi avanti con Jake: guardare la felicità altrui e restare immobile o piagnucolare come un cucciolo.
Si fermò di fronte al proprio armadietto, al solito indugiò nel tentativo di trovare la combinazione: era il suo compleanno o quello di Lord Tubbington?
Avrebbe dovuto scriverselo sulla mano, sospirò tra sé.
“Brittany Pierce?”.
Si volse confusamente.
“Sono io” commentò e il fattorino le sorrise prima di porgerle un pacco confezionato.
“Per lei”.
“Wow! Non è neppure il mio compleanno” cantilenò allegra e, dopo aver firmato il modulo del ragazzo, lo scartò incuriosita.
Rimirò con un sorriso emozionato il peluche dell'unicorno: vaporoso, morbido e rosa con tanto di corno bianco. Ne baciò la punta del naso e se lo strinse, dondolandolo appena prima di notare la busta inclusa.
La prese tra le dita e lesse attentamente.
 
Sbagliavo nel dire che non esistono gli unicorni: sei sicuramente una Unicorn Girl.
Perdonami per tutto, se puoi.

H.C.

 
Sorrise, Brittany nello stringere più forte l'unicorno.
“Ti chiamerò Hunter” sussurrò. “Ma non dirlo a nessuno”.
 
 
 
 
~
 
La festa era davvero ben riuscita se non fosse stato per il dettaglio circa il mancato matrimonio tra il Signor Shue e la consulente scolastica, un epilogo che nessuno avrebbe potuto immaginare. Tuttavia era stata una splendida occasione per poter riabbracciare gli amici e rivedere chi si era ormai allontanato da Lima verso un futuro splendido e pieno di gloria e di successi. Tutti comunque rimasti uniti dopo esser stati, tutti insieme, l’anima del Glee Club, uno spirito di unione che Brittany non aveva più respirato malgrado avessero imparato ad apprezzare ed amare anche i nuovi arrivati.
Non si era aspettata di essere nuovamente serena anche nel rivedere Santana e Sam: una parte di sé sembrava consapevole che tutto fosse avvenuto per uno specifico motivo e si era ormai rasserenata nel vivere un’amicizia speciale con entrambi. Ricongiungersi sulla pista da ballo con Mike, poi, era stato come recuperare una parte di sé lasciata sopita: i loro movimenti erano armonici e perfetti. Vi era un’intesa del tutto particolare: laddove iniziavano i movimenti dell’uno, confluivano perfettamente a sincrono quelli dell’altra; laddove l’uno prendeva l’iniziativa, l’altro sembrava presagire quale fosse la giusta risposta e, così via, vincendosi sempre il centro della scena, almeno fino a quando, con le guance arrossate e qualche ciuffo a scivolarle dalla crocchia, non si allontanò dalla pista.
Si appoggiò al balcone del bar, osservò Santana ballare con Quinn e sorrise appena prima che il barman le porgesse un frullato di fragola che rimirò con le sopracciglia inarcate.
“Signorina”.
“Non l’ho ordinato” commentò confusamente, a meno che il barista non avesse poteri magici e riuscisse a leggerle la mente e sapere esattamente che cosa avrebbe desiderato.
“Le è stato offerto, e mi è stato chiesto di lasciarle anche questo” le aveva porto una piccola busta che la giovane aveva schiuso nel rivelare un cartiglio con una scrittura familiare.
 
Spero di aver indovinato il gusto e di vederti prima della fine della festa.
H.C.

 
Controllò nella busta e lasciò cadere la tessera magnetica che doveva dare accesso ad una delle camere dell’albergo. Sentì un fiotto di calore salirle al viso seppur continuasse a sorridere, nel rigirare il cucchiaio nel bicchiere per poi assaggiare la fresca bevanda.
Recuperò la pochette e si allontanò con circospezione dalla sala per poi cercare i corridoi delle camere e quella contrassegnata dallo stesso numero inciso sulla tessera.
Rimirò l’uscio, un’ultima occhiata tutto attorno, prima di inserire la tessera nella serratura che lasciò aprire la porta: entrò all’interno e adagiò la pochette sul mobile accanto all’ingresso mentre osservava la portafinestra lasciata schiusa.
Le tendine ondeggiavano al tocco del vento ma, quando richiuse la porta alle sue spalle, ne intravide l’alta figura mentre rientrava nella camera: appariva molto più in forma di come lo aveva visto l’ultima volta. Indossava un completo scuro ma era un sorriso più amichevole e sbarazzino quello che gli curvava le labbra: era ormai in via di guarigione seppur ancora dovesse restare a riposo.
La loro interazione era ripresa poco dopo le dimissioni del giovane: lo aveva ringraziato per il peluche che sostava sempre sul suo letto e che abbracciava nelle notti di tempesta e lo aveva rassicurato di non provare rancore nei suoi confronti.
Era buffo come lei stessa sembrasse esser divenuta il pilastro a rassicurarlo ed era proprio il giovane che aveva di fronte il vero Hunter, quello che non si rifugiava negli steroidi o quello vendicativo e pieno di rabbia, seppur ancora sostasse quell’aria più malinconica e misteriosa nel suo sguardo.
“Ciao” sorrise quando lo vide avanzare in sua direzione dopo che ebbe richiuso la portafinestra alle sue spalle. “Come stai?”.
Aveva sorriso in risposta, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e inclinando il viso di un lato.
“In piena guarigione” rispose tranquillamente.  “E come va la festa di matrimonio?”.
“Bene, a parte che non c’è stato nessun matrimonio” specificò e di fronte al cipiglio perplesso dell’altro si affrettò ad aggiungere:
“Il Signor Shuester voleva comunque che ci godessimo il rinfresco. E, a proposito, grazie del frullato” si era appena dondolata con il busto in un sorriso grato e il giovane si era stretto nelle spalle con un cenno non curante, una vaga espressione pensierosa.
“Ti ho vista ballare” commentò, le braccia incrociate al petto, le sopracciglia appena aggrottate. “E non mi è piaciuto”.
Aveva sbattuto le palpebre, genuinamente confusa e un poco offesa nel raggrinzire il naso. “Non ti piace come ballo?” aveva chiesto, infatti, vagamente risentita in quell’increspare le labbra come una bambina.
Ridacchiò nell’avvicinarsi maggiormente e scuotere il capo.
“Non mi piace con chi hai ballato” fu la semplice replica.
Sgranò gli occhi Brittany ma prima di chiedergli se avesse qualche particolare antipatia per i cinesi (o Mike era coreano? O forse giapponese?), lo osservò porgerle la mano con un gesto fluido e, di fronte al suo sguardo verde, sentì il cuore accelerare lievemente i battiti.
“Non c’è musica” osservò confusamente e il ragazzo si scostò appena per estrarre, dalla giacca del completo, il suo iPod che appoggiò sul tavolo e collegò ad una presa per lo stereo.
Fece scorrere le tracce per cercare un brano e Brittany si sorprese della scelta di uno lento.
Buffo come le fosse semplice imitare coreografie di Britney Spears o Ke$ha ma un brano simile potesse suscitarle una minima insicurezza, o forse era il pensiero di un simile contatto proprio con lui. Le si avvicinò nuovamente ma, con sua sorpresa, allungò entrambe le mani verso il suo volto.
“Scusami” sussurrò e delicatamente accostò le dita al fermaglio che ne tratteneva i capelli in quella crocchia più austera: li lasciò scivolare lentamente e delicatamente in ciocche più lunghe e lievemente ondulate che ricaddero sulle sue spalle e sul vestitino bianco con decorazioni di rose rosse, lo stesso colore delle fragole.
Era stato proprio quello il mezzo con cui era stato in grado di riconoscerla fin dal primo istante: quasi la sua figura in qualche modo riuscisse sempre a spiccare. Tra abiti eleganti e donne dal fascino sinuoso e più sfacciato, sembrava sorgere timida come le fragole di bosco eppure naturale. Vera per quanto vi fosse quella spiccata innocenza che sembrava così poco collimare con un fisico sbocciato da ballerina.
“Molto meglio” commentò il giovane e la ragazza si concesse di sorridere ma attese che le porgesse nuovamente la mano.
“Quindi non ti piace come ballo con Mike e non ti piacciono i capelli legati, qualcos’altro?”.
“Te lo farò sapere se mi calpesterai i piedi” fu la risposta fintamente altezzosa che le strappò un verso divertito ed indignato prima di intrecciare le dita alle sue e cercarne istintivamente lo sguardo. Una dolce aritmia mentre l’altra mano del giovane si adagiava alla sua vita: un gesto delicato ma fermo, quasi temesse di farle male e, ricordando che Hunter stesso fosse ancora in via di guarigione, stette attenta a non comprimerlo mentre appoggiava la mano libera alla sua spalla.
 
 
 
Non sapeva esattamente cosa fosse quella sensazione: era come se, dopo tanta rabbia e tanto dolore, tanto diniego di se stesso e di tutto quello che era accaduto e in rapida frequenza, quando tutto gli era caduto addosso; finalmente vi fossero attimi nei quali riuscisse a sentire di nuovo qualcosa. Qualcosa che non fosse il desiderio di rivalsa, o una selvaggia gioia al pensiero di poter calpestare gli altri e detenere il controllo.
Nulla di tutto questo, soltanto una nuova serenità che lo induceva a rilassarsi ed abbassare le difese, lasciare che la sua ingenuità e sincerità, che quella dolcezza mista ad una spontaneità quasi infantile, riuscisse a scorgere una parte di sé. Forse persino comprenderla.
Aveva imparato fosse tutt’altro che scontata: laddove apparisse quasi oltraggiosamente ingenua, dimostrava una sensibilità altrettanto sconcertante. O forse quella traccia di calore in un semplice sorriso, nel suo arrossire, o quella delicatezza con cui la sua mano sostava nella propria, persino troppo piccola. Quasi vi era la suggestione e l’attenzione a non stringerla troppo eppure quel contatto appariva qualcosa di perfetto.
Di giusto e di sospirato mentre socchiudeva gli occhi, guidandola in movimenti lenti a descrivere delle semicirconferenze.
 
It's hard for me to say the things[3]
I want to say sometimes
There's no one here but you and me
And that broken old street light
Lock the doors
We'll leave the world outside.
 
 
Un invito quasi naturale per farla salire nella camera che aveva appositamente affittato: non premeditato per condurla in quelle note. Non c’era il bisogno di ostentare nulla in quei movimenti, alcuna competizione o dimostrazione di forza: era il gesto in se stesso e condividerlo con chi qualcosa di speciale e di unico lo racchiudeva in sé.
Qualcosa che forse non era sempre compreso o apprezzato, qualcosa che non si scorgeva di prima istanza ma che, scavando oltre le apparenze e quella prima scorza, riusciva a farne brillare tutto il resto.
Qualcosa che andava protetto e custodito, aveva pensato nel rafforzare istintivamente quel contatto e nel socchiudere gli occhi quasi a concentrarsi sui loro respiri sincronizzati.
O sulla fragranza di fragola che lo investiva in un abbraccio silenzioso eppure avvolgente che sembrava giungere fin dentro l’anima.
 
I never knew I had a dream
Until that dream was you
When I look into your eyes
The sky's a different blue.
 
Si era scostato appena a scrutarne gli occhi limpidi e sinceri: neppure lei sorrideva in quel momento. Ne sentiva il corpo esile adagiato perfettamente al proprio, i movimenti perfettamente sincronizzati nel sollevare appena il braccio perché potesse fare una piroetta e poi attirarla di nuovo a sé.
Fu forse in quel momento: quando entrambe le braccia della giovane si ancorarono al suo collo e ne cinse la vita, che tutto il resto sembrò fermarsi in quel reciproco contatto di iridi.
In una domanda inespressa che sembrava sostare tra loro, levandosi con le note più struggenti, quelle che riuscivano a far breccia nella consapevolezza ancora annebbiata.
Quasi fossero sempre state scritte e riprodotte fin quando non giungesse il loro momento.
Quando sembrò impossibile ignorare quel richiamo e si chinò appena: lo sguardo ancora sostava nel suo al vederla sgranare gli occhi, le guance arrossate.
Per la prima volta quasi timoroso e consapevole di un possibile diniego, la vide distogliere lo sguardo e sostò con la fronte appena appoggiata alla sua.
“D-Devo andare” sussurrò e Hunter fremette.
Ne cercò lo sguardo, cercando di ignorare quel peso nel petto, ma sembrava persino più dispiaciuta di lui che annuì, ancora sostando in quel momento e lasciandone la vita, gli occhi socchiusi.
Lasciò che si scostasse, il respiro appena più difficoltoso, ne scrutò la schiena esile mentre afferrava la pochette e abbassava la maniglia per schiudere la porta.
Sembrava però esitare da compiere quel passo in avanti e affondò nuovamente le mani nelle tasche, ignorando il pulsare del pomo d’Adamo.
“Ho prenotato per tutta la notte” sussurrò in risposta, una richiesta o una preghiera, difficile dirsi.
La sentì trasalire e quel momento di silenzio sembrò il più lungo mai vissuto.
“Ciao Hunter” sussurrò con voce soffocata e oltrepassò la soglia.
 
Cross my heart 
I wear no disguise 
If I tried, you'd make believe 
That you believed my lies.

 
Si passò una mano tra i capelli, Hunter, un sospiro pesante prima di spegnere lo stereo, lo sguardo fisso laddove era appena svanita.
E con lei anche quel calore benefico.
 

Si adagiò contro la porta, la mano sul cuore che non aveva smesso un solo istante di scalpitare furiosamente e le sue labbra tremavano di quel bacio in sospeso e quella malinconia improvvisa.
Osservò la porta dietro di sé, un corrugamento delle labbra, la sfiorò delicatamente, quasi sperando quel gesto potesse compiere una simile carezza sul suo volto. Qualunque cosa per non far smettere quegli occhi di splendere, oltre quella rabbia o la malinconia di cui erano stati per troppo tempo intrisi.
Continuò ad osservare le coppie danzanti ma quando un giovane le si avvicinò porgendole la mano in un gesto fluido, rifiutò con un sorriso di scuse e una parola gentile.
Sospirò nel giocherellare con una ciocca di capelli, le mani a sfiorarsi istintivamente le labbra per poi inarcare le sopracciglia al vedere la macchia di rossetto e ridere di se stessa.
Non era quello il suo posto.
 
Fu con un sorriso allegro che varcò per la seconda volta la soglia della camera del giovane e si guardò attorno, notando la portafinestra nuovamente aperta.
Si avvicinò in punta di piedi, dopo aver tolto le scarpe – un breve gemito per il gonfiore dei piedi – e si affacciò sulla soglia della terrazza: tra le mani una coppa di fragole e nell’altra un barattolo di panna montata mentre il ragazzo, quasi percependone lo sguardo, si era voltato in sua direzione.
Un vago inarcare delle sopracciglia seguito da un sorriso al vederla agitare il barattolo.
“Avevo un languorino” si giustificò e lo sguardo del giovane corse alla coppa che teneva tra le mani prima di tornare ad osservarla e gli allineamenti si ammorbidirono nel sorriso che ne fece guizzare le iridi.
“Sei una fragola”.
“Mh?”.
Scosse il capo, un vago sorriso prima di entrare per un istante nella camera, il tempo di prendere un lenzuolo da disporre per un improvvisato pic nic al chiaro di luna.
 
Era da molto tempo che non provava una simile serenità in cuor suo, Brittany: non vi era neppure bisogno di parole o di trovare qualcosa di giusto e di sensato da dire. Anche il silenzio sembrava qualcosa di piacevole perché condiviso mentre, di quando in quando, ne scrutava il profilo, illuminato soltanto dalle stelle e dalla luce all’interno della stanza.
Era stato un gesto silenzioso quello con cui l’aveva avvolta in una coperta perché non sentisse freddo, poggiandogliela sulle spalle e aveva sorriso intenerita da quelle premure, mentre appoggiavano entrambi la mano nella coppa alla ricerca delle ultime fragole.
Un contatto tra le loro dita, uno scambio di sguardi e un cenno di scuse prima che il giovane la esortasse a prendere l’ultima che si portò alle labbra con un sorriso giocoso.
Non aveva parlato, Hunter, lo sguardo aveva indugiato sulle sue labbra prima di scostarlo nuovamente e tornò un lieve silenzio tra loro prima che fosse il giovane stesso a infrangerlo mentre quella brezza gli sfiorava i capelli.
“Pensi che lei non lo ami: per questo è fuggita via?” aveva domandato in un sussurro e Brittany aveva aggrottato le sopracciglia nel pensare a quella splendida coppia e a quanto ognuno di loro avesse atteso il momento in cui Mr Shue ammettesse i suoi sentimenti e lui ed Emma potessero essere felici. E insieme. Per sempre felici e contenti, come in una favola.
Aveva scosso il capo alla domanda, guardandolo apertamente, sicura come poche volte in vita sua.
“Forse è scappata perché lo ama troppo e teme di non essere abbastanza” erano state parole quasi spontanee, naturali, quasi una verità che avesse sempre saputo.
Probabilmente una verità celata in se stessa, visto come la sua voce tremò nel continuare ad osservarlo, quasi fossero un suo stesso riflesso.
Doveva averlo intuito Hunter perché silenziò a lungo, lo sguardo che, tuttavia, restava concatenato a quello della giovane seppur non osasse un avvicinamento ulteriore. Seppur dovesse indugiare a quella distanza, anche quando sembrava esserci un filo che li legasse ed impedisse loro di spostarsi troppo senza compromettere anche l’altro.
“Allora lui dovrebbe farle sapere che è soltanto una sua paura”.
Fu il suo commento, la voce più placida e delicata nel continuare ad osservarla, quasi volesse che quelle parole fossero perfettamente comprese, persino il significato sottinteso seppur non proclamato.
Brittany sentì quel nodo in gola attenuarsi: proprio come all’inizio della loro corrispondenza – seppur con mentite spoglie – sapeva sempre trovare le parole giuste per farle intravedere speranza. Per attenuare il suo malessere, anche quando non manifestato.
Annuì mentre sentiva la stanchezza prendere il sopravvento, stringendosi maggiormente nella coperta ma Hunter si sollevò ed ella lo guardò confusamente.
“E’ tardi” le aveva sorriso, porgendole la mano che Brittany aveva preso senza esitazione, si sollevò, ancora avvolta nella coperta, e rientrarono nella camera.
“Vuoi… vuoi che ti accompagni a casa?”. Aveva chiesto il giovane e la ragazza aveva rimirato la stanza d’albergo e l’altro letto singolo ed intatto.
Lo aveva guardato quasi esitante prima di accomodarsi sul secondo letto, togliendosi di dosso la coperta, osservando le sue scarpe abbandonate in un angolo della stanza.
Aveva scosso il capo e Hunter aveva lentamente sorriso prima di annuire e accomodarsi sul letto di fronte.
“Il bagno è di là se vuoi rinfrescarti”.
 
 
~
Il suo viso era scolpito nella concentrazione di quei gesti che le erano naturali ed erano espressione della sua stessa delicatezza, insita in ogni azione. Non era insolito che, adagiato sul balcone ed impegnato nel suo studio, sollevasse di tanto in tanto lo sguardo.
Mr Pussy gli procurava un piacevole calore strusciandosi alle sue caviglie per poi saltargli in grembo e cercarne una carezza anche quando ancora intento a svolgere i suoi compiti.
Sua madre appoggiò la crostata sul piatto con espressione soddisfatta e il giovane la osservò mentre, un gesto più infantile, allungava il dito a saggiarne la marmellata.
Non c’era neppure bisogno di chiederle quale avesse scelto: sembrava essere il suo tratto distintivo. Una luce di colore nella routine e nel contrasto netto e quasi spaventoso con l’autoritarismo del padre.
Osservandola così vicina, reale, così delicata nei movimenti, aveva adesso la sensazione imminente che avrebbe potuto spezzarsi da un momento all’altro, quella voglia e quell’impulso di coprire le distanze, avvolgerla in un abbraccio. Quasi consapevole che la lancetta del tempo non stesse girando in suo favore e che presto avrebbe dovuto soffrirne la mancanza.
Ma proprio quando ella allungò il viso in sua direzione e si protese a ricevere quella carezza, l’immagine svanì.
L’odore dei medicinali era acre, quasi pungente a farne lacrimare gli occhi: di quella vitalità non restava che una foglia quasi spezzata. Lo sguardo era stanco, sofferente, il viso era pallido e stentava ad allungare la mano per riuscire a sfiorarne il volto. Continuava a stringere la sua mano: la remota e pallida speranza di trattenerla.
Fin quando ne avesse bisogno, fin quando egoisticamente non si fosse sentito pronto a lasciarla andare; un momento che, per quanto paventato e noto, non avrebbe potuto sopportare, non senza recriminare. Non senza sentirsi pieno di rabbia, non senza quella sensazione di impotenza che gli faceva desiderare di avere nuovamente il controllo. Di poter gestire le cose a suo piacimento, di sentirsi nuovamente pervadere del piacere di sapersi forte ed incrollabile; di quell’attimo di adrenalina nel quale tutti gli sguardi ammirati gli fossero rivolti e leggesse il timore e la soggezione dei suoi rivali.
Un solo attimo, lo stesso battito di ciglia in cui la presa sulla sua mano si era affievolita: gli aveva rivolto un ultimo sguardo d’amore, di scuse e di dolcezza e lentamente le palpebre si erano abbassate, le labbra si erano schiuse.
E tutto era spento intorno a sé.
Tutto era perduto, una parte di sé era morta con lei.
 
“Hunter” ne sentì il placido richiamo e si drizzò con il busto: il viso madido di sudore e pallido, le labbra schiuse nel tentativo di inspirare nuovamente, il battito convulso e quasi disperato.
“Era solo un incubo” aveva sentito la stessa voce delicata e sussurrata e, lentamente, aveva cominciato a mettere a fuoco l’immagine del suo volto mentre ella si sporgeva ad accendere la lampada accanto al comodino del suo letto. Si era seduta sul letto, e lo osservava preoccupata, il viso inclinato di un lato e Hunter distolse lo sguardo, le labbra ancora tremanti nel tentativo di comprendere se quell’oppressione al petto fosse una conseguenza del sogno o non lo avesse mai abbandonato.
Aveva sentito la giovane allungare esitante la mano al suo viso, sfiorandone appena lo zigomo.
“Stai bene?” aveva chiesto in un sussurro e il giovane era tornato ad osservarne gli occhi limpidi, quell’aroma in sospeso tra loro e che sembrava impresso sulla sua stessa pelle, tra i capelli, la sua stessa essenza vitale.
Scosse lentamente il capo, il timore di pronunciare parola che rendesse tutto più reale ed insopportabile; il timore di lasciare andare quel dolore e con esso perdere nuovamente una parte di sé.
La giovane sembrò sorpresa di quell’ammissione ma sembrò comunque aver pensato qualcosa perché gli sorrise prima di sollevare le lenzuola ed appoggiarsi essa stessa al suo materasso, osservandolo incoraggiante.
“Ti darò un abbraccio magico: funziona sempre quando me lo dà mamma e ti prometto che non farai più incubi” sussurrò soltanto, facendone inarcare le sopracciglia ma quando, con lo stesso sorriso giocoso e più sicuro, la giovane si sporse a cingerne il collo, sentì soltanto quell’effluvio di calore aromatizzato alla fragola.
Lasciò ch’ella, con la pressione delicata ma ferma, lo facesse stendere: la vide allungare nuovamente il braccio a spegnere la luce e tutto fu ombra.
Ma non era mai parso così luminoso: restò rigido un primo istante, riusciva a percepire le dita carezzevoli ed attente sfiorarne delicatamente la nuca, quasi a cullarlo, respirava quel profumo direttamente dalla sua pelle e lentamente chiuse gli occhi.
Sembrò finalmente respirare di nuovo: le sue braccia ne serrarono delicatamente la vita, affondò il viso contro la sua spalla esile e rimase immobile mentre ella stessa si rilassava, continuando a sfiorarne i capelli, la schiena.
Una placida rassicurazione che tutto sarebbe andato bene e, per la prima volta, Hunter vi credette.  Vi si abbandonò. La cercò, nel modo in cui ne cinse la vita, disperando che quel momento lo cullasse ancora a lungo e che non dovesse affrontare il mondo fuori da quella stanza. Che l’ombra li avvolgesse e li nascondesse.
Ancora un altro attimo.
 
 
La brezza leggera ne sfiorò il viso e schiuse lentamente gli occhi dopo quel lungo e benefico torpore. Mosse appena il volto e allungò la mano ma sembrò solo raccogliere con le dita un sogno scivolato dalle stesse. Schiuse gli occhi per scoprire che l’altra parte del letto era vuota: si voltò ma anche l’altro letto era vuoto e lentamente si sollevò con il torso: si sporse a cercare le scarpe abbandonate sulla moquette per poi realizzare di essere solo.
Un lento e pesante sospiro prima di voltarsi verso il comodino e scorgere il foglietto scritto con quella ormai svolazzante e familiare grafia.
 
 
 
Ho detto una bugia, Hunter.
Gli abbracci magici non esistono ma volevo tanto tenerti vicino.
Scusami.
 
 
Lentamente le labbra si contrassero in un sorriso, sfiorò appena le parole iscritte e ne immaginò il volto mentre le tracciava sul foglio di carta.
Sbagliava ancora una volta: la magia non era impressa in una creatura mitologica o in una convinzione puerile.
L’aveva con sé ed era riuscita a fargliene percepire un anelito. Sperò non fosse l’ultimo.
 
~
 
 
Osservò l’abito appeso sull’anta del proprio armadio mentre sostava seduta sul proprio letto, accarezzando distrattamente Lord Tubbington.
Lo sguardo era fisso ed immobile, perso in un punto lontano, ripercorrendo quella notte trascorsa con il giovane: il calore che aveva provato lei stessa in quell’abbraccio, la sensazione di pace e di benessere, persino di appartenenza a quel momento e la consapevolezza fosse tutto perfetto e lei stessa stava cercando di renderlo tale ma non soltanto per sé.
Le sembrava di aver scorto in quello sguardo, in quel segno di diniego, tutto il bisogno e il dolore che doveva aver trattenuto troppo a lungo: istintivo era stato allora il pensiero di poter cercare di alleviarlo. Anche soltanto poche ore perché riuscisse a riposare senza sentire quel nodo in gola, senza svegliarsi turbato da un sogno.
Lo aveva osservato a lungo quando si era svegliata: quasi timorosa che un respiro troppo forte potesse disturbarne il riposo, quella pace che si intravedeva nei suoi lineamenti e che li plasmava in quel momento. Le palpebre abbassate, il viso rilassato e il petto che si alzava ed abbassava regolarmente, la pressione con cui l’aveva trattenuta a sé con decisione seppur senza troppa forza.
Aveva sentito qualcosa di simile ad un nodo in gola nel momento in cui si era costretta a scostarsi ed allontanarsi: aveva indossato nuovamente le scarpe ma aveva indugiato accanto al letto prima di chinarsi a baciarne la fronte.
Aveva camminato in punta di piedi prima di chiudersi dolcemente la porta alle spalle ma aveva indugiato un altro lungo istante ad osservare la porta prima di allontanarsi, eppure la sensazione di essergli vicina più che mai.
 
 
Era rientrato di primo mattino e non era stato sorpreso di constatare che la casa fosse vuota: si era chiuso l’uscio alle spalle e Mr Pussy aveva miagolato a mo’ di saluto prima di avvicinarsi e strusciarsi alle sue gambe. Si era chinato appena a sfiorarne il pelo prima di avviarsi in cucina, incoraggiandolo a seguirlo per poi versargli del cibo e dell’acqua nelle rispettive ciotole.
SI era tolto la giacca e sbottonato la camicia prima di rientrare nella propria camera, stiracchiandosi un poco, seppur il sorriso sembrasse impresso sulle labbra e tutto apparisse molto più leggero.
C’era tuttavia una scintilla di determinazione nello sguardo mentre apriva le ante dell’armadio per cercare qualcosa da mettere: sfiorò il tessuto pesante della divisa che indossava in Accademia, sfiorò tutte le spille per un lungo istante.
Osservò i moduli da compilare per l’iscrizione che suo padre aveva lasciato sulla sua scrivania.
Si rivide in quella risoluzione nel fare proprio il sogno del padre, nel cercare di emularlo e compiacerlo fino a trasferirsi in Colorado, lontano dalla sua casa e dagli amici, lontano da sua madre e dal mondo in cui era cresciuto.
Richiuse l’armadio e seppe qual era la giusta decisione.
 
Non era insolito che suo padre si fermasse fuori a pranzo ma attese che fosse chiuso nel suo studio per raggiungerlo: aveva bussato ma non aveva atteso risposta e aveva schiuso la porta per poi entrare ad avvicinarsi alla scrivania.
L’uomo era seduto a compilare dei documenti ma sollevò lo sguardo quando Hunter si fermò di fronte a lui e depositò il modulo di fronte a lui.
Lo scrutò, le sopracciglia inarcate.
“Non è compilato” commentò e si appoggiò alla sedia, le dita delle mani incrociate ed adagiate sullo stomaco mentre lo scrutava con le sopracciglia inarcate.
Annuì Hunter, risoluto.
“Non ho intenzione di tornare in Accademia”.
“E me lo staresti chiedendo perché hai cambiato idea dopo…?”.
“Non te lo sto chiedendo” fu la risposta del ragazzo, scrutandolo con sguardo più sicuro e limpido. “Ho preso la mia decisione: te l’ho solo comunicata”.
Rimasero a scrutarsi per un lungo istante prima che Jonathan parlasse.
“Ha a che fare con quella ragazza?” di fronte all’evidente sorpresa dell’altro, annuì come a convalidare la propria ipotesi.. “Quella all’ospedale? Perché non ti permetterei di gettare via il tuo futuro per una futile e sciocca…”.
“Brittany non è futile né sciocca” fu la replica secca e stizzita, un corrugamento delle sopracciglia e strinse i pugni lungo i fianchi.
“Ma la decisione è mia: per troppo tempo ho cercato di emularti, di compiacerti senza mai riuscirci. E’ il momento di realizzare le mie aspettative”. Era stata la replica del ragazzo prima di voltarsi e attraversare lo studio.
Solo quando appoggiò la mano sulla maniglia, sentì il richiamo del padre: si volse e l’uomo lo guardò con il viso inclinato di un lato.
“Dovrei cavartela da solo d’ora in poi” fu il pacato commento e il ragazzo annuì.
“E’ la mia decisione”.
Annuì, Jonathan, strappò il modulo, lo appallottolò e lo gettò nel cestino.
“Chiudi la porta quando esci”.
Sospirò Hunter e osservò il corridoio vuoto, decisamente da quel momento respirare sarebbe stato molto più semplice.
 
~
 
 
Quello era uno dei frangenti nei quali non avesse timore di lasciarsi andare: poteva essere completamente se stessa, senza più timori o soggezione perché quando era sul palco, quando ballava di fronte ad un pubblico o poteva lasciarsi volteggiare, era in quei momenti che credeva di poter liberare la sua stessa essenza.
Dimenticava la pressione, le aspettative di tutti o la competizione con altri gruppi di canto coreografato altrettanto determinati, talentuosi se non persino più appariscenti; se una parte del Glee Club se n’era andato quando Santana, Rachel, Kurt, Mike e gli altri se n’erano andati, sapeva fosse suo compito, in particolare, aiutare la squadra e contribuire con quell’innesto di energia che non le era mancato.
Soprattutto in quei momenti.
Eppure, al contempo, la sua danza sembrava diversa: i movimenti erano quelli della coreografia già appresa ma c’era una nuova vitalità ed era più che mai consapevole dell’armonia che la danza poteva farle esprimere, un dialogo con se stessa e con i suoi sentimenti.
Dopo l’esibizione tornarono dietro le quinte, abbracciandosi e congratulandosi gli uni con gli altri e solo allora si concesse di togliere i nastri con cui aveva trattenuto i capelli e di aspettare che gli altri gruppi potessero esibirsi per poi conoscere la decisione finale dei giudici.
Stava per accomodarsi nella sala d’attesa quando lo sguardo fu catturato da un bouquet di rose e una busta insinuata al di sopra con il suo nome: si avvicinò con il cuore scalpitante e un sorriso più dolce nel riconoscere la calligrafia.
 
Forse (non ne sono sicuro) gli abbracci magici non esistono ma mi piacciono le piroette magiche. Mi piacciono le tue.
H.C.

 
Si guardò attorno confusamente, ignorando i richiami degli amici e, il bouquet tra le mani, uscì dalla stanza, guardandosi attorno tra i vari corridoi fino a quando non riconobbe una schiena familiare che sembrava dirigersi verso l’uscita.
Accelerò il passo, incurante del costume di scena e degli sguardi che attirò di avversari e di altri gruppi che attendevano il loro turno per esibirsi: chiamò il giovane e lo vide fermarsi di fronte alla porta prima di voltarsi. Un sorriso gli increspò le labbra mentre lo raggiungeva.
Schiuse l’uscio e lo trattenne aperto, facendole cenno di passare per prima: un sorriso le fece curvare le labbra, si avvicinò e si sollevò sulle punte per baciarne la guancia, specchiandosi nel suo sguardo limpido.
Un timido gesto ma un boato interiore mentre, le guance rosate e gli occhi appena più luminosi, usciva insieme a lui nel parco vicino al teatro nel quale aveva luogo l’esibizione.
Camminarono fianco a fianco per diversi istanti ma prima che Brittany prendesse la risoluzione per ringraziarlo dei fiori, il giovane si volse ad osservarla.
“Sei fuggita di nuovo” fu il placido sussurro e Brittany abbassò per un istante lo sguardo con fare colpevole prima di sollevarlo nuovamente in sua direzione e scuotere il capo.
Le tremavano le labbra ma ne sostenne lo sguardo di smeraldo mentre ansiosamente dava voce ai suoi pensieri.
“Non l’ho fatto perché non tengo a te” aveva sussurrato quasi timorosa che lui non ne accettasse la spiegazione ma il giovane la scrutò a lungo: c’era tenerezza, comprensione, dolcezza nel farlo. Una dolce luce nel suo sguardo che appariva meno tormentato o distante di come fosse apparso a lungo, a farle comprendere quanto ormai la sua assenza fosse dolorosa. Sembrava esservi continuamente un legame, un laccio che impediva ad entrambi di scostarsi troppo senza, con questo, compromettere il bisogno di restare vicini.
“Lo so” aveva sussurrato, infatti, il giovane e si era avvicinato di un passo: gli sguardi che continuavano a fondersi, quasi fosse quella comunicazione silenziosa a rendere tutto più reale e Brittany reclinò appena il capo, continuando a stringersi ai fiori prima di schiudere le labbra.
“E’ solo che” aveva abbassato lo sguardo, ancora timorosa e febbrile, fino a quando non aveva percepito la pressione delicata delle sue dita a sollevarle il mento: si era nuovamente specchiata nel suo sguardo e le era mancato il fiato per quanto fosse vicino.
Il suo profumo l’avvolgeva in un intimo e silenzioso abbraccio e il ragazzo inclinò il capo di un lato, le sopracciglia inarcate quasi ad incoraggiarla a continuare a parlare.
Brittany ne aveva cinto a sua volta la mano: aveva lasciato che le sue dita si intrecciassero alle proprie e che quel calore sembrasse scivolare lungo la spina dorsale, senza sottrarsi all’incanto dei suoi occhi.
“… ogni volta che voglio bene a qualcuno, se ne va” ammise con voce più contrita ma Hunter, lo sguardo ancora fisso nel suo, scosse impercettibilmente il capo: la mano libera ne cinse delicatamente la vita fino a quando non percepì nuovamente il calore del suo corpo.
La mano esile della giovane si adagiò sul suo petto e il giovane appoggiò appena la fronte alla sua: Brittany trattenne il fiato ma cercò di non sottrarsi al suo sguardo, quasi timorosa che ciò potesse rompere il contatto, la magia di quel momento.
Sembrava una delle scene da favola che aveva sempre amato fin da bambina.
“Se ti prometto di non andarmene” la voce di Hunter era sussurro appena percepibile ma stava cercando di combattere l’istinto che le voleva far socchiudere gli occhi al sentire il suo respiro sul viso. “… fuggirai di nuovo?” aveva chiesto con voce appena superiore ad un sussurro.
Aveva sentito le labbra tremare, Brittany, ma aveva sorriso.
“No” era stato il sussurro sulle sue labbra e Hunter aveva sorriso prima di avvolgerle entrambe le braccia intorno alla vita, prima di cingerne delicatamente la gota a scostarne una ciocca di capelli dal viso ma chinarsi sul suo viso a siglare quella promessa con un bacio.
Sorrise sulle sue labbra Brittany, gli occhi socchiusi mentre, con un fluido movimento, ne cingeva il collo, sfiorandone la nuca in un tocco delicato come lo aveva cullato quella notte in albergo, eppure consapevole che quel momento era finalmente giunto. Ed era soltanto loro.  Fu come ritrovare quella parte di sé che sembrava smarrita, quasi dovesse soltanto abbandonarsi a quel momento, alla delicatezza con cui le sue dita le sfioravano il viso, la morbidezza delle sue labbra che sfioravano appena le sue.
Una prima carezza quasi sussurrata, prima di rafforzare la pressione, sollevandola appena con un guizzo divertito nel racchiuderla maggiormente nella morsa protettiva del suo abbraccio e del suo cappotto.
Le strappò un verso di divertimento anche quando si coccolò al suo petto e socchiuse gli occhi.
Lo sentì affondare il viso sulla sua spalla, gli occhi socchiusi a inspirarne il profumo e Brittany stessa ne sfiorò i capelli e lo trattenne a sé, ne baciò la mascella, soffermandosi appena sul neo accanto alle labbra.
“Dovresti rientrare” sussurrò con voce appena rauca eppure ne intuiva il sorriso seppur sostasse contro il suo petto. “… proclameranno presto il vincitore”.
“Ma io ho già vinto” fu la risposta sognante di lei.
“Fila dentro” l’ammonì appena, un verso di divertimento, pur sfiorandone nuovamente le labbra, trattenendola un istante di più, quello necessario a farla mugugnare e stringersi maggiormente a lui per poi emettere quasi una supplica.
Si sollevò appena sulle punte a sfiorarne nuovamente le labbra con le proprie prima di cingerne la mano ed indicare l’edificio con un cenno del capo ma il ragazzo sembrò dubbioso.
“Non penso saranno lieti di rivedermi” commentò, stringendosi nelle spalle seppur non sciogliendo quel contatto tra le loro dita.
La ragazza non demorse, continuò a stringerne la mano e attirarlo a sé.
“Non sei solo” aveva sussurrato e il ragazzo indugiò nei suoi occhi limpidi per un solo istante prima di sorriderle ed annuire, rafforzando la pressione del contatto.
Aveva ragione, si era detto sentendo persino quella fragranza di fragola sulla propria pelle.
Non era più solo.
 
~
 
Sistemò meglio gli occhiali sul naso mentre apriva l’armadietto per cercare dei libri: il suo primo giorno e, malgrado le apparenze e quel suo cercare, per molto tempo, di dimostrarsi perfettamente padrone della situazione, non poteva celare anche a se stesso una fitta di nervosismo mentre si guardava attorno.
Non mancavano occhiate curiose e/o persino di sprezzo nei suoi confronti e non ne era sorpreso: per quanto lì il Glee Club stesso non godesse di grande prestigio, era stato pur sempre dalla parte dei rivali e i notiziari avevano contribuito a darne una visione tutt’altro che positiva.
Scosse il capo tra sé salvo trasalire quando avvertì la pressione di due mani sul viso o meglio detto sugli occhiali, quella familiare fragranza a circondarlo e quell’istintivo sorriso che riusciva sempre a suscitargli. Una ventata di pura allegria e di serenità e rise al sentirla intonare un:
“Indovina chi sono?” con voce altrettanto infantile ed entusiasta prima di lasciarlo andare.
Il giovane fu lesto a voltarsi, togliendosi gli occhiali per pulirli con il lembo della t-shirt, prima di osservarla con addosso la divisa da Cheerleader e la coda di cavallo.
Persino quella era di uno sgargiante color rosso.
“Una cheerleader?”.
“Il Capitano” commentò in tono di importanza ma lui sorrise appena prima di allungare le mani a scioglierne i capelli, facendola ridacchiare.
La Sylvester non vuole che li portiamo sciolti” commentò ma il giovane arricciò il naso, facendo muovere gli occhiali e facendola sorridere mentre ne cingeva la vita.
“Non glielo dirò” sussurrò in risposta prima di chinarsi a sfiorarne lievemente le labbra.
“Com’è andato il primo giorno?” gli chiese e il giovane si strinse nelle spalle, mentre si incamminavano nel corridoio, le dita intrecciate.
Si guardò ancora attorno, ignorando gli sguardi curiosi, domandandosi se fossero dovuti soltanto alla sua presenza o alla popolarità della ragazza.
“Credo che sopravvivrò: hai altre lezioni?”. Le chiese, molto più interessato ad un pomeriggio in sua compagnia.
“Il Glee Club: dobbiamo pensare alle Nazionali” era stato l’entusiastico commento e il ragazzo aveva annuito.
“Ti accompagno”. Si offrì, allora.
“Perché non vieni con me?”. Fu la sua innocente ed entusiastica proposta: evidentemente quello sarebbe stato il finale da favola che avrebbe desiderato.
Averlo vicino anche durante quelle lezioni e farlo nuovamente salire sul palco.
“Non credo sia il caso”. Forse un giorno ci sarebbe riuscito, per lei avrebbe potuto tentare.
“Oh, avanti, puoi sentire un po’ di musica, vedermi ballare, magari potresti anche aiutarci”.
“Niente più competizioni per quest’anno”. Le ricordò la squalifica ma Brittany imbronciò appena le labbra con fare puerile.
“Devi ricominciare da qualcosa”.
“Lo sto già facendo” le sorrise, sfiorandone appena la gota.
Si fermò poco prima dell’aula del Glee Club, indicandole l’ingresso con un cenno del capo.
“Ci vediamo più tardi?” gli chiese lei speranzosa ed egli annuì prima di baciarne la guancia.
La lasciò andare.
“Brittany?”.
Si fermò sulla soglia della porta e si voltò, i capelli che danzavano sulle spalle, illuminata da un raggio di sole che ne rendeva lo sguardo limpido.
Sorrise, stava davvero ricominciando.
“Adoro il tuo profumo”.
Sorrise, Brittany, si sporse per un ultimo bacio ed entrò nell’aula di canto.
Continuava a sorridere, Hunter, certo che quello era soltanto l’inizio di una nuova vita.
 
 
Fine
 
Se siete arrivati fino alla conclusione vi devo già un ringraziamento coronato da un gregge di splendenti unicorni – tanto per stare in tema – che vi portino una bella dose di fragole con panna :D
Se poi vorrete condividere le vostre impressioni o anche semplicemente consigliarmi un tuffo nella realtà (cercherò di coinvolgere Murphy e i RIB, promesso!), sarò lieta di confrontarmi con voi.
Un abbraccione a tutti e grazie dell’attenzione,
Kiki87

 




 




[1]  Lo stemma della Dalton Academy che potete vedere qui

[2]  Lo stemma dei 1D e chiedo venia, anzi la chiede Brittany per aver scambiato la Dalton nella loro casa discografica o qualcosa del genere °-° E lo potete confrontare con l'altro  qui

[3]  Versi tratti da “Thank you for loving me” di Bon Jovi. Traduzione dei versi della prima e della terza strofa impiegate (niente ritornello), visualizzabile qui

   
 
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