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Autore: Yoko Hogawa    25/02/2013    36 recensioni
In un mondo in cui le persone nascono con il nome della propria Anima Gemella "tatuato" sul dito anulare della mano sinistra, John e Sherlock vivono due situazioni particolari ed opposte. Mentre il primo è costretto a nascondere il proprio nome per non essere discriminato, il secondo ne è totalmente privo.
In modi diversi, entrambi crederanno di essere destinati a rimanere soli.
Finché non si incontrano.
[SoulBond!AU]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Desclaimer: La serie di Sherlock e tutti i suoi personaggi non sono di mia proprietà ma appartengono prima a sir Doyle, che li ha creati, e poi a Moffat e Gatiss, che li hanno adottati. Non scrivo per soldi ma per scaricare lo stress dovuto ai sequenziali fallimenti di conquista del mondo.

 

Note: Nuovo giro, nuovo kink.

Lo SoulBond!AU è qualcosa che ho scoperto nel fandom inglese, e l’ho amato da subito. Personalmente non mi ritengo esattamente in grado di scriverlo... non so, ho dei forti dubbi, ma ci provo comunque.

Sarà di 3/4 capitoli (vedrò andando avanti). Johnlock principalmente, sofferto fino in fondo, ma c’è qualche pezzetto di Sherlock/Victor e John/Mary. Non sono assolutamente influenti per la trama ma esistono.

È un po’ un esperimento stilistico, in realtà... sto cercando di cambiare qualcosa al mio solito modo di scrivere.

 

Sperando che sia gradito, auguro buona lettura

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1. Adagio

 

 

 

 

 

Da un’intervista al dottor Joseph C. Williams, docente di Biologia Molecolare e Cellulare alla University of Michigan, per Nature:

 

I: potrebbe spiegarci, in parole povere, cos’è un’Anima Gemella?

J.C.W.: in termini comuni viene chiamata “Anima Gemella” colei, o colui,  destinati ad essere la nostra metà perfetta, la persona più adatta a noi sotto ogni profilo. Più precisamente, è la persona il cui nome ognuno di noi ha tatuato sull’anulare sinistro fin dalla nascita.

In termini tecnici viene chiamato SIN.

I: e cos’è un SIN?

J.C.W.: SIN sta per “Soulbond Identification Name”. In poche parole è un metodo di classificazione burocratico come potrebbe esserlo il codice fiscale, o il codice di previdenza sociale. Viene registrato privatamente intorno ai 5 anni, età in cui comincia ad essere pienamente visibile sulla pelle.

I: cos’è un Legame?

J.C.W.: viene comunemente chiamato “Legame” l’incontro fra due Anime Gemelle predestinate. Esso scatta tramite un semplice contatto pelle contro pelle, come una stretta di mano, che innesca una reazione chimica all’interno di alcuni centri recettivi cerebrali. Si manifesta come una piccola scarica elettrica a bassissimo voltaggio, percepita solo marginalmente dall’epidermide, ma identificata spesso come un brivido, o un piccolo spasmo muscolare. Essa crea, appunto, il Legame, ovvero una sorta di co-dipendenza chimica e biologica che va intensificandosi con il tempo e la vicinanza. Conseguentemente, potrebbe anche diminuire con la lontananza, ma non sparirebbe mai del tutto.

I: quali sono gli effetti del Legame?

J.C.W.: i più conosciuti sono sicuramente gli squilibri emotivi nei confronti dell’altra persona. Protezione, affetto, senso di appartenenza. Nei casi di Legami più profondi è stato riscontrato anche un incremento del potenziale psichico, come mutuo riconoscimento e intendimento, profonda empatia. A volte si arriva a dei veri e propri “scambi psichici” in cui un componente della coppia è in grado di sentire il dolore provato dall’altro e viceversa.

I: qual è la spiegazione scientifica di questo fenomeno?

J.C.W.: al momento non esiste una vera e propria spiegazione scientifica, solo ipotesi che, purtroppo, non stanno portando a risultati apprezzabili. Un po’ perché ogni Legame è diverso così come sono diverse le persone che lo compongono, e un po’ perché le coppie che arrivano a questo tipo estremo di Legame sono veramente poche. Al momento sappiamo solo che il nome che compare sull’anulare sinistro è formato da particolari cellule melaniniche, e che a seconda dell’intensità del Legame e dei sentimenti provati il colore diventa più o meno scuro secondo un rapporto diretto. Il pigmento è quello ematico, dunque cresce e decresce su una scala di rossi, dal rosa chiaro al bordeaux. Diventa nero nella vedovanza, e sparisce gradualmente dopo la morte nel giro di poche ore.

Per quanto riguarda la formazione del Legame, le ipotesi più diffuse sono quelle che riguardano il rilascio nel corpo di un particolare ormone che reagisce all’odore dell’altra persona. Test di misurazione ormonale denotano un mutamento del quadro generale, dunque è difficile capire esattamente quale sia. Alcuni scienziati radicali ipotizzano che si vengano a creare delle vere e proprie modifiche a livello di DNA, o di RNA messaggero, ma a mio parere si tratta di speculazioni esagerate. Probabilmente la mutazione del DNA è già avvenuta quando i primi SIN hanno cominciato ad apparire, secoli fa.

I: come spiega la Scienza il fatto che il Legame si formi esattamente con la persona il cui nome abbiamo inciso sul dito? Come fa il nostro corpo, se solo di esso si tratta, a capire chi è la persona più adatta a noi?

J.C.W.: anche in questo caso, posso rispondere solo a livello puramente teorico.

Alcune teorie puntano il dito verso il caso, dicendo che il nome che compare sul dito alla nascita sia semplicemente frutto di una “lotteria” statistica fra i nomi più usati negli ultimi secoli. Secondo questo esempio, noi cercheremo legami stabili solo con le persone che detengono il nome che ci è capitato per caso, non preoccupandoci nemmeno di cercarne altre con altri nomi. Tuttavia, teorie puramente matematiche e statistiche come questa non spiegano il Legame e  tutto il processo che vi è dietro.

Temo che sia una di quelle cose che la Scienza non può ancora spiegare.

I: Esistono eccezioni alla comparsa del SIN?

J.C.W.: sì, esistono. Alcune persone non sviluppano il nome sulla propria pelle, che rimane perfettamente pulita. Questi individui vengono chiamati “Bondless”, o “Senza Legame”. Al contrario, altre persone nascono sì con un nome sul dito, ma esso si presenta già da subito come una ferita costantemente aperta e sanguinante, come un’incisione su pelle viva. Gli scienziati hanno potuto constatare che, in questi casi, le cellule pigmentate che formano il nome impediscono alle piastrine di far coagulare il sangue e, di conseguenza, alla ferita di guarire. Individui di questo tipo vengono comunemente chiamati “BCE” che sta per “Broken Connection Entity”, anche se la cultura popolare ha recentemente coniato il termine dispregiativo “Ribbon”, derivato dalla storpiatura di “Rejected Bond”, ovvero “Legame Rifiutato”.

In entrambi i casi la normale reazione chimica del Legame non avviene.

I: ci sono stati casi in cui un Bondless sia riuscito a sviluppare un Legame, o di un BCE la cui ferita sia guarita ed il Legame ristabilito?

J.C.W.: finora no. E se sono esistite situazioni di questo tipo non sono state riportate su documentazioni storiche consultabili.

 

 

Dal libro “Società del Legame” di Rajat Nara, Sociologo della Devianza, Nuova Delhi; capitolo 3 “mutamenti sociali comunemente accettati e nuove minoranze”.

 

“Il mutamento delle società umane e del comportamento delle masse dopo la comparsa del Legame è imponente.

Supponiamo per esempio di dover fare un’analisi sociale superficiale, tralasciando le variabili di mutamento specifico e concentrandoci solamente sul funzionamento di base dell’animale Società. Si può dire che qualsiasi gruppo sociale, e vale ora come in passato, funzioni basandosi su un insieme di costrutti specifici comunemente accettati da tutti i membri della comunità. Questi costrutti definiscono la Morale – termine del tutto differente da quello di morale religiosa, sia chiaro – del gruppo sociale in questione.

Analizzando reperti e registri storici gli studiosi di tutto il mondo hanno potuto constatare che l’avvento del Legame e di quello che modernamente chiamiamo “Soulbond Identification Name” (SIN) ha provocato un cambiamento radicale della Morale comune e, di conseguenza, anche di quei gruppi sociologicamente definiti “devianti” che formavano le cosiddette minoranze.

In una società in cui la normalità è l’avere sul dito il nome della propria Anima Gemella (poiché è così per l’85% della popolazione mondiale) ovviamente i gruppi di minoranza vengono identificati nei Bondless e nei BCE. Ma non solo, vengono operate distinzioni specifiche all’interno di questi stessi sottogruppi.

Studi statistici operati sulla popolazione carceraria mondiale hanno portato alla luce dati allarmanti sulla percentuale di BCE presente all’interno delle carceri, il 70% della quale è condannata all’ergastolo o accusata di crimini gravi come l’omicidio, il pluri-omicidio o l’omicidio seriale. La pubblicazione di questi risultati ha provocato, come effetto domino, una generale diffidenza nei confronti di questi individui, che si ritrovano ad avere problemi con cose semplici come l’ammissione all’università o il trovare lavori gratificanti.

D’altro canto, la comparsa del SIN e dei Legami ha causato un mutamento nel modo di pensare delle persone, portando alla scomparsa di problemi sociali quali l’omofobia, la xenofobia e il sessismo.”

 

 

Dal forum on-line “Parole al Vento”.

 

JasMine90: Questa storia dei Rabbit mi disturba molto, devo dire. Avete sentito che ce ne sono sempre di più? Tutti quei Legami Spezzati non sono normali. E credo che la colpa sia di quelle persone che decidono di ignorare il proprio SIN.

 

Arabesque: @JasMine90 ormai l’obbligo di mettersi insieme al nostro SIN è superato. È come il fatto di non fare sesso prima del matrimonio, arcaico! Il SIN non è un sostituto del libero arbitrio... voglio dire, tu il tuo SIN lo incontri, ci esci un paio di volte, poi se non ti piace non lo tocchi e non crei il Legame. Mi sembra semplice.

 

Cactus742: @JasMine90 @Arabesque guardate che il SIN non è come scegliere uno yogurt al banco frigo del supermercato! E le vostre sono parole di chi il Legame non lo ha ancora formato. C’è un motivo se la maggior parte delle persone ancora si unisce con la propria Anima Gemella... poi posso capire che ci siano situazioni, come abusi e violenze domestiche, che spingono coppie a separarsi... o anche il fatto che due Anime Gemelle non riescano ad incontrarsi entro una certa età... però non ha niente a che fare con i Rabbit.

 

JasMine90: @Cactus742 è scritto anche in molti libri che il fatto di non legarsi al proprio SIN porta a lungo andare allo spezzarsi del legame, nel ciclo di morte e rinascita. Non me lo sto inventando.

 

Cactus742: @JasMine90 mai detto. Però il tuo punto di vista fa molto casa-e-chiesa. Soprattutto Chiesa (quella con la C maiuscola).

 

CumbaGirl: Io non voglio che sia un mucchio di melanina sul mio dito a decidere chi dovrà essere il compagno della mia vita.

 

Cactus742: @CumbaGirl aspetta di incontrarlo poi ne riparliamo.

 

 

Dalla conferenza del dott. Giancarlo Bellini, professore di Teologia all’Università “La Sapienza”, Roma.

 

“Tutte le religioni del mondo rappresentano il Legame come qualcosa di unico e significativo per il credo stesso, ma al contempo sembrano concordare su di un fatto unico: il Legame è qualcosa di indissolubile, un filo che lega due anime nel ciclo di nascita/morte/rinascita.

Sapere di poter affrontare la morte senza perdere traccia della persona amata non è consolatorio? Molte persone trovano la pace nella morte sapendo che, anche nella prossima vita, la loro Anima Gemella sarà al loro fianco, seppur con un altro nome o con un altro aspetto. Ciò che lega due anime diviene talmente indissolubile, secondo alcuni culti religiosi, che esse possono persino fondersi insieme. Molti fedeli di molte religioni sostengono che i Legami più forti, quelli che sviluppano connessioni psichiche ed empatiche fra loro, non siano altro che l’evoluzione di due anime che sono divenute una sola attraverso diversi cicli vitali, attraverso l’unione spirituale, dei sensi e del corpo. Un’unione totale protrattasi da una vita all’altra.

Ovviamente, di conseguenza, questi Legami sono per essi qualcosa di sacro. Non si debbono spezzare.

Molti culti infatti proibiscono il credo praticato ai Bondless e ai BCE.”

 

 

 

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Violet e Siger Holmes si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra, quando non avevano visto alcun nome comparire all’anulare sinistro del piccolo Sherlock il giorno del suo quinto compleanno.

Mycroft, il figlio maggiore, a quell’età aveva già avuto il suo SIN pienamente visibile.

« Non si preoccupi, signora Holmes » aveva però detto il dottor Abbott: « alcuni bambini sviluppano SIN talmente chiari da rimanere praticamente invisibili per tutto il quinto anno di vita. Il termine massimo di registrazione è il compimento del sesto anno d’età, c’è ancora tempo ».

Era suonato rassicurante, nella sua voce calma e posata da medico tutto d’un pezzo; ma quando il sesto compleanno di Sherlock arrivò e non vi era ancora traccia del suo SIN, il medico dovette per forza sottoporre il piccolo ad un’ecografia per contrasto, in modo da confermare o meno la presenza dell’iscrizione. Era strano che rimanesse sottopelle anche dopo il quinto anno d’età, ma non essendo l’unico caso al mondo tutto era possibile. E la speranza è sempre l’ultima a morire.

Ma la sua voce fu molto meno rassicurante quando disse alla famiglia Holmes, una delle più facoltose dell’Essex, che il piccolo di casa non aveva alcun nome sul suo dito, e che per questo aveva l’obbligo di registrarlo ufficialmente all’anagrafe statale come Senza Legame.

Violet non fu felice di avere un Bondless nell’albero genealogico (altrimenti perfetto) della famiglia.

 

 

 

Jonathan e Margaret Watson si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra, la terza notte in cui il piccolo John non dormiva a causa di un male alla mano sinistra che nessuno di loro sapeva spiegarsi. C’era solo una piccola macchiolina rossa sull’anulare, ma credevano che fosse del tutto normale; dopotutto il bambino aveva appena quattro anni, probabilmente era solo la pelle che cominciava a scurirsi per poi formare il nome che sarebbe apparso al compimento dei cinque anni.

Anche Harriett, la loro figlia maggiore, aveva provato un po’ di dolore alla formazione del suo SIN. Poteva succedere.

Ma la voce del medico non fu per nulla rassicurante quando ordinò loro di portarlo in ambulatorio il prima possibile, non importava che fosse notte.

I due uscirono di casa in tutta fretta, portando con loro il piccolo John ancora in pigiama, e all’arrivo in ambulatorio il medico lo fece sedere sul lettino e si chinò con una lente d’ingrandimento sulla mano del bambino, focalizzandosi sulla macchia rossa che colorava il dorso dell’anulare sinistro.

Con un sospiro affranto, si tolse gli occhiali e si stronfiò gli occhi. « È un BCE » disse ai due genitori, che cercavano in tutti i modi di tenere calmo John in mezzo alle sue crisi di pianto : « e anche uno precoce, riesco già a vedere il suo SIN sotto la pelle infiammata. La mano gli fa male perché c’è un’infezione in corso... probabilmente il nome comparirà entro le prossime due settimane. Comincerà anche a sanguinare. Vi darò degli antinfiammatori per calmare l’infezione e far diminuire il dolore, ma... » non aggiunse nient’altro, scuotendo piano il capo.

Margaret abbracciò forte il bambino, le prime luci dell’alba all’orizzonte.

Una vita da BCE non era esattamente ciò che si era aspettata per il suo piccolo angelo biondo.

 

 

 

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Sherlock osservò in silenzio suo fratello ricevere la piccola scatolina di velluto rosso contenente l’anello d’argento che segnava il suo passaggio alla maggiore età. Sua madre sorrideva, suo padre gli batteva la mano sulle spalle e gli ospiti chiamati per il party di celebrazione applaudivano con rispetto.

Sherlock arricciò le labbra, infossandosi ancora di più nel divano dall’altro capo della sala.

L’anello d’argento era più un simbolo sociale che una vera e propria utilità. Veniva indossato al posto di quelli di metallo colorato, portati nell’infanzia per coprire il SIN, e significava letteralmente “in cerca”. Lo avrebbe portato fino a che non avesse trovato la sua Anima Gemella, o fino al matrimonio, momento in cui sarebbe stato sostituito con la fede d’oro.

Non aveva mai capito la necessità di seguire esattamente questa prassi, ma funzionava così. E da una famiglia come la loro, con contatti sociali in ogni parte dell’Essex, ci si aspettava una certa “aderenza agli standard”.

Ovviamente questo concetto non si applicava a lui. Sherlock non aveva bisogno di portare alcun anello, dopotutto, dunque queste cose le aveva dovute imparare dai libri, non gliele aveva dette sua madre (come invece aveva fatto con Mycrfot). Aveva 11 anni, certo, ma non era stato difficile capire che sua madre preferisse Mycroft a lui.

Così come non era stato difficile capire il perché.

« Non vai a fare gli auguri a tuo fratello? ».

La voce calda e baritonale di suo padre arrivò un attimo prima della sua mano salda sulla spalla, e Sherlock sbuffò dal naso. « No » rispose semplicemente.

« Perché? » domandò Siger, il tono calmo e, di fondo, forse anche divertito.

« Perché no » gli rispose il bambino, coprendo inconsapevolmente la mano sinistra con quella destra. E Sherlock poteva aver ereditato l’incredibile intelligenza dalla madre, ma di sicuro l’arte dell’osservazione l’aveva imparata dal padre.

« Non vuoi perché non hai il SIN come lui? » domandò l’uomo.

Sherlock scosse la testa. « Non mi interessa » rispose in fretta, ma aggrottò le sopracciglia in un moto di fastidio.

Siger strinse un po’ di più la mano sulla sua spalla. « Sono sicuro, invece, che Mycroft lo apprezzerebbe. Lo sai che ti vuole bene, anche se non lo dice. Ha lo stesso carattere di tua madre » commentò.

« No che non mi vuole bene » rispose però Sherlock, chiudendosi a riccio ancora di più: « nemmeno la mamma » aggiunse poi, allacciando forte le braccia al petto.

Il signor Holmes sospirò mesto. « Non dirlo nemmeno per scherzo, Sherlock. Ti assicuro che non è così ».

« Sì invece » ribatté però il bambino: « li vedo, papà. È perché sono... diverso » disse, soffocando l’ultima parola in un tono di voce più sommesso.

Questa volta, Siger esitò un po’ prima di riprendere parola. Osservarono entrambi Mycroft ricevere abbracci e complimenti da tutti gli invitati sotto lo sguardo palesemente fiero e felice di Violet, che non perdeva occasione per vantarsi della brillante carriera scolastica del figlio e del futuro altrettanto luminoso che lo attendeva.

« Vedi, Sherlock... » cominciò poi: « tua madre segue un Credo molto... puritano. È una di quelle persone che credono che la vera unione sia il Legame e che ogni unione al di fuori di quella fra Anime Gemelle sia immorale. Conseguentemente, fa anche parte di un gruppo di persone che credono che la nobiltà di famiglie come la nostra scorra all’interno dei loro alberi genealogici, e che essi debbano essere perfetti, ovvero composti solo da unioni legittime e spurie di... rami morti » spiegò con calma, continuando a guardare la moglie da lontano ma senza mai togliere la mano dalla spalla del figlio minore. « Condizioni come la tua sono sviluppi prevedibili dell’evoluzione, Sherlock. Anche se rari, sono del tutto normali. Solo che certe persone, per quanto intelligenti, su certi argomenti faticano a vedere oltre la punta del loro naso ».

Non aveva mai sentito suo padre dare opinioni così sincere su sua madre, e soprattutto non l’aveva mai fatto in confidenza con lui. Girò la testa piena di ricci in direzione di suo padre, che rispose allo sguardo con un sorriso sbieco.

Era un segreto fra loro due, capì Sherlock. E ricambiò il sorriso.

« Ora vai a fare gli auguri a tuo fratello, questa sera ti racconto dei pirati del mare cinese » disse l’uomo, accendendo in Sherlock un brivido d’eccitazione all’aspettativa di una nuova storia sui pirati.

 

 

 

 

Sua madre gli aveva ripetuto molte volte che origliare era sbagliato, ma questa volta non aveva fatto apposta.

Doveva solo andare in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, perché la mano faceva davvero tanto, tanto male. Non riusciva a dormire – il dito bruciava e il cerotto era già sporco di sangue – e Harry lo aveva minacciato di colorargli la faccia nel sonno con il pennarello indelebile se non avesse fatto silenzio; ecco perché non poteva chiedere aiuto a lei, anche se dormiva nel letto di fronte al suo.

Di solito i suoi genitori erano già a letto a quell’ora, ma non era un problema. Anche se aveva otto anni, John era abituato a cambiarsi il cerotto da solo e a riconoscere dalla scatola quali erano le pastiglie che sua madre gli dava sempre quando aveva male alla mano. Riusciva anche ad arrivare alla credenza dei bicchieri – spostando la sedia e poi salendoci in piedi sopra – dunque no, non aveva davvero bisogno dell’aiuto dei suoi genitori, né di quello di sua sorella.

Ma quella sera la luce della cucina al piano di sotto era accesa, e la porta chiusa. Le voci di sua madre e di suo padre provenivano dall’interno, ovattate ma intuibili, e rimanendo in piedi davanti alla porta con la mano sinistra stretta forte al petto lui non poté fare a meno di ascoltare ciò che stavano dicendo.

« Jonathan, non è colpa sua » stava dicendo sua madre, il tono serio ma controllato.

« Certo, no, non è colpa sua. Ma è la terza scuola che rifiuta l’iscrizione. Ci deve essere un maledetto motivo, perché non riesco a pensare che sia solo perché è un Ribbon. È un bambino, cazzo! » imprecò il padre, il tono duro di quando era arrabbiato per qualcosa, e John sobbalzò appena alla parolaccia – perché non si dicono le parolacce!

« Non chiamarlo così » intervenne subito sua madre.

« ...BCE » si corresse allora suo padre.

Un minuto carico di silenzio riempì la cucina e John, in piedi nel corridoio davanti alla porta, trattenne il respiro nel timore che facesse troppo rumore. Non dovevano scoprirlo, altrimenti si sarebbe preso una bella sgridata.

« Quali sono le alternative? » chiese sua madre dopo un silenzio che sembrò lungo secoli.

« La scuola in città. Forse faranno meno storie ».

« È un’ora andata e ritorno, Jonathan ».

« Lo accompagnerò finché non sarà abbastanza grande da prendere l’autobus da solo ».

« Non è detto che lo prendano... ».

« Dobbiamo provarci. Non abbiamo i soldi per la scuola privata, Maggie ».

« Lo so... ».

« Senti, Harriett comincia la seconda media quest’anno. Possiamo farle cambiare scuola e iscriverla in città. Così potrebbe accompagnare suo fratello e tu dovresti solo portarli e andarli a prendere dalla fermata dell’autobus. Che ne dici? ».

« Ma tutti i suoi amici, amore? Harry sta con loro dalle scuole elementari... ».

« Se vogliamo mandare a scuola John, è l’unico modo. Non voglio mettere mio figlio su di una cattiva strada che è già destinato a percorrere ».

« John non è destinato a nessuna cattiva strada! » urlò sua madre, e John sobbalzò per il repentino cambio di tono. « Smetti di parlare come quegli studiosi da quattro soldi in televisione. Tuo figlio non è un criminale, non ha ancora fatto niente! » gridò.

« Ma potrebbe diventarlo, Margaret, bisogna prendere seriamente in considerazione questa possibilità! È un Ribbon, sai benissimo anche tu che la maggior parte di loro non va a finire bene! E i problemi con la scuola sono solo una piccola parte di ciò che ci toccherà in futuro, è ora di farsene una ragione! ».

« Ti ho detto di non chiamarlo così! ».

La discussone continuò, ma John non rimase ad ascoltare oltre. Aveva capito forse metà di ciò che i suoi genitori stavano dicendo, ma il senso generale era più che sufficiente.

Risalì le scale in silenzio, gli occhi lucidi e pieni di lacrime che minacciavano di rotolargli giù dalle guance, e nonostante il dolore acuto alla mano e la sete disperata si rifugiò fra le coperte del suo letto, affondando il volto nel cuscino.

Non era colpa sua, se era diverso.

Non era colpa sua.

 

 

 

Sherlock si chiuse a chiave nel bagno la notte in cui suo padre morì, rifiutandosi di aprire la porta anche quando Mycroft cominciò a prenderla rumorosamente a pugni.

Aprì il getto della doccia e si infilò sotto l’acqua completamente vestito, senza dare importanza a quanto fosse fredda. Si sedette sul fondo della vasca da bagno e, con una spugna di crine, cominciò a sfregarsi la pelle sull’anulare sinistro.

Sfregò con tutta la forza che aveva, fino a graffiarsi. Sfregò finché non uscì il sangue. « Vieni fuori... vieni fuori! » pregava con voce rotta, trasformando silenziose lacrime di tristezza in un pianto isterico dato dalla rabbia e dal dolore.

« Vieni fuori! » gridò disperato, ma il suo dito rimaneva, in mezzo ai graffi, indubbiamente pulito.

Non poteva rimanere un Bondless, non più. Non senza suo padre.

Sua madre lo avrebbe mandato via, lo avrebbe messo in collegio. L’aveva sentita parlarne a suo padre, una sera, e non importava che Mycroft dicesse di no, che non era vero, che ci avrebbe pensato lui: ora sua madre aveva carta bianca senza suo padre a vietarle anche il solo pensiero.

Non voleva andarsene. Non era colpa sua se quel maledetto nome semplicemente non usciva.

Non era colpa sua.

 

 

 

John si chiuse nel bagno la notte in cui suo padre se ne andò, rintanandosi sotto al lavandino con il disinfettante e la sua scatola di cerotti. Non chiuse a chiave la porta, ma nessuno lo venne mai a cercare. Sua madre era fin troppo distrutta per occuparsi di lui, e Harry semplicemente troppo arrabbiata.

Aveva la febbre, ma era bassa e poteva facilmente ignorarla, ormai. Il dottore gli aveva detto che la ferita sul dito poteva infettarsi spesso, dunque dargli un po’ di febbre. Alla fine, gli veniva come minimo una volta al mese.

Lasciò che un paio di lacrime gli scivolassero silenziosamente lungo le guance mentre rimuoveva con attenzione il cerotto da sopra il dito, faticando un po’ dove un lato si era attaccato sull’altro. Come sempre il suo SIN era ricoperto di sangue secco, e con un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante lo pulì, riportandolo alla luce. Il nome sanguinava – sanguinava sempre – e bruciava – bruciava sempre – ma era lì, in evidenza, dolorosamente presente e rosso, vivo, come una maledizione.

Era per quello, per quella ferita a forma di “Sherlock”, che suo padre se ne era andato. Che lui e sua madre avevano litigato ogni notte per più di un anno. Che Harry aveva dovuto cambiare scuola per accompagnarlo in città ed ora non gli parlava praticamente più.

Tutto perché era diverso.

Era tutta colpa sua.

 

 

 

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A scuola le sue compagne di classe passavano giornate intere a parlare di come sarebbe stato il loro incontro con l’Anima Gemella.

Si immaginavano in situazioni degne della peggiore soap-opera o commedia romantica mai girata; lunghi sguardi d’intesa con il ragazzo all’altro capo della classe, un formicolio eccitato al pensiero che possa essere lui il “Jack” giusto, quello il cui nome risiedeva in rosso ciliegia sotto l’anello di metallo rosa. Lunghe passeggiate e risate e, finalmente, il prendersi per mano. La scossa positiva al contatto e la sensazione del Legame che cominciava a formarsi. Un bacio appassionato al tramonto, il matrimonio, sei pargoli sbavanti e vissero per sempre felici e contenti.

E i discorsi non variavano molto sul tema. Gli facevano venire la nausea.

Dal lato maschile della faccenda non era diverso, se non che i maschi preferivano un approccio più “fisico”. A sentire i loro discorsi, sembravano tutti destinati a sposare una modella di Playboy con seno prosperoso e perennemente in costume da bagno. Non sarebbe stato di certo lui a dire loro che la maggior parte della popolazione femminile del pianeta non arrivava ad avere fattezze da Barbie se non sottoponendosi ad operazioni chirurgiche e usando litri di tinta per capelli. Ridicoli.

Lui non aveva di questi problemi. Non avendo né un nome né un anello da indossare per coprirlo, aveva la fortuna immensa di non doversi abbassare a livello della massa, che nel caso della sua classe rappresentava un estratto notevole di stupidità umana.

A volte, solo a volte, cercava di immaginare come sarebbe stato avere un nome sul dito. Essere come tutti gli altri. Erano quei momenti in cui i suoi cosiddetti “compagni di classe” avevano di meglio da fare che stuzzicare il freak –perché così lo chiamavano da dietro le spalle, facendo però in modo che potesse sentirli chiaramente – e quindi lui veniva lasciato in pace, e poteva passare i pomeriggi nel laboratorio di chimica saltando lezioni inutili e ripetitive e al diavolo l’avvertimento del preside, la sua media più che eccellente era il perfetto lasciapassare per dedicare il suo tempo a cose più istruttive.

Era quasi sicuro che il suo SIN, nell’ipotesi che ne avesse avuto uno, sarebbe stato un nome maschile. I suoi 16 anni d’esperienza erano più che sufficienti al suo quoziente intellettivo plus-dotato per capire di non poter sopportare le femmine e i loro cambi d’umore imprevedibili. Poco importava se fisicamente non provava repulsione – non aveva provato niente, in realtà, le volte in cui aveva sperimentato un bacio, o vari contatti intimi, con ragazze e ragazzi a cui del SIN non importava assolutamente niente –, il suo (modico) apprezzamento degli altri avveniva prima di tutto a livello intellettuale, ed intellettualmente parlando non le sopportava. Perciò un uomo.

Sarebbe stato meno intelligente di lui, ma comunque sopra la media. La competizione lo eccitava solo da un certo punto di vista e non avrebbe apprezzato una competitività elevata nell’uomo con cui (seguendo le logiche sociali) avrebbe dovuto passare la vita. Non poteva apprezzare una persona che avrebbe dovuto sconfiggere, soprattutto dopo averla sconfitta. Avrebbe perso completamente d’attrattiva. Quelli erano i nemici, non i compagni.

Sarebbe stato una persona poco schizzinosa e a cui non avrebbero dato fastidio i suoi esperimenti. Se lo immaginava anche di carattere forte, perché lui sarebbe diventato un detective, dunque il suo compagno non poteva essere da meno e rifiutare l’azione. Anzi, lo avrebbe quasi voluto dipendente dall’azione. Sì.

L’aspetto fisico non era importante. Difficilmente avrebbe potuto essere più alto di lui – Sherlock era già molto alto per la sua età – e sarebbe stato di nazionalità inglese (anche se quest’ultima era più una sua preferenza personale).

La realtà era che poteva immaginarsi ogni persona, ogni nome, ma nessuna di esse sarebbe mai stato al suo fianco. Lui era un Bondless, un Senza Legame, il che voleva dire solo una cosa.

Il suo destino era essere solo.

 

 

 

John aveva presto capito che se voleva evitare guai, doveva mentire.

Sua madre gli aveva comprato un anello di metallo verde, uguale a quello di tutti i suoi compagni di scuola; era a fascia, dunque abbastanza largo per coprire una discreta porzione di dito. O un cerotto.

John cominciò a passare almeno due giorni a settimana rifinendo con le forbici tutti i cerotti in suo possesso, tagliandone i lati per adeguarli alla larghezza del proprio anello. Purtroppo doveva cambiarli molte volte al giorno, dato che il sangue li imbrattava in fretta, e per farlo doveva essere sicuro che non ci fosse nessuno in giro, soprattutto a scuola. Per questo di solito usciva durante le lezioni, chiedendo di poter andare in bagno, e chiudendosi in un cubicolo si toglieva l’anello e cambiava velocemente il cerotto.

Molte volte non bastava – si rendeva necessario anche il disinfettante, soprattutto nei brutti giorni, in cui la ferita bruciava a causa di un’infezione (cosa frequente per quelli come lui) – ma doveva arrangiarsi con ciò che aveva. Gli insegnanti sapevano della sua condizione e non facevano domande, ma fortunatamente i suoi compagni di classe ne erano all’oscuro e nell’ignoranza sarebbero dovuti rimanere. Per il suo bene.

Evitare di rispondere alle domande era molto meno difficile.

Il SIN era un argomento privato che molti preferivano non discutere, se non ad un livello teorico. Chi si rifiutava di confidarlo a qualcuno non veniva guardato con sospetto, ma con una muta comprensione. Per certe persone il SIN era una cosa molto intima, e lui non faceva differenza (per forza di cose).

Per lui era più che intimo: era pericoloso. Solo una volta aveva fatto l’errore di confidare a qualcuno di essere un Ribbon – alle scuole elementari lo aveva detto al suo migliore amico – ma quello si era spaventato ed era corso in lacrime dalla maestra. Non gli aveva più parlato, né lo aveva più avvicinato, e ad un certo punto suo padre aveva ricevuto una telefonata in cui gli dicevano che non poteva più frequentare quella scuola per via di alcune lamentele arrivate dai genitori.

Inutile spiegare che non aveva fatto niente (niente di male, per lo meno), suo padre lo sapeva. Era semplicemente la maledizione dei Ribbon e anche se Jonathan si sforzava, alla fine lo stress era stato troppo.

Alcool e delusione vanno d’accordo. Alcool e famiglia di 4 persone un po’ meno.

Dal momento in cui suo padre se ne era andato di casa, John aveva giurato che non avrebbe più causato guai a nessuno. O, se ci fosse finito, che li avrebbe risolti da solo. Loro madre era una donna in gamba, ma senza un marito e con due figli da crescere aveva già troppo per la testa, quindi non si meritava anche le grane che immancabilmente un figlio Ribbon porta a casa. Si sarebbe nascosto, avrebbe finto, avrebbe mentito. Non era un problema.

Per questo aveva molti amici (ignari), aveva avuto alcune ragazze (ignare), faceva parte di una squadra di rugby con un coach in gamba (ignaro) e guardava con apprensione ai moduli per la scelta del percorso universitario da intraprendere (molti di loro non arrivavano nemmeno a finire il liceo, figuriamoci a fare l’università).

Ma così come aveva sopportato bene quella bugia, per 17 anni John Watson aveva visto ombre ed ostacoli dietro ogni angolo.

Cercava di essere uno studente modello ma non era insolito che si trovasse immischiato in risse di qualche tipo, anche con ragazzi più grandi. Sua sorella, a dispetto delle sue parole d’acido sul criminale che sarebbe sicuramente diventato, aveva cominciato ad alzare il gomito e aveva lasciato l’università ancora prima di cominciarla, portando lei a casa i problemi che John riusciva a lasciare fuori dalla porta. Il suo ennesimo fallimento, ovvero il non aver passato il terzo colloquio di lavoro, non fere altro che aumentare la sua rabbia.

Non volle sentire ragioni. E bevve.

Una sera bevve fin troppo. Finì in ospedale a due passi dal coma etilico e John, che era dovuto andare al suo capezzale nel cuore della notte per risparmiare a sua madre la vista, la guardò dalla porta della camera con astio.

Persone come Harry Watson non si meritavano di avere un’Anima Gemella.

 

 

 

Il giorno del suo diciottesimo compleanno, Sherlock non ricevette un anello d’argento.

Non fu organizzato nessun party, e non ci fu nessun invitato e nessuna torta. Sua madre si limitò a fargli gli auguri e a dargli un bacio sulla fronte, mentre suo fratello gli fece arrivare un pacchetto da Londra che lui nemmeno aprì.

Non si sentiva più a suo agio, in quella casa. Il suo posto fra quelle mura era pian piano svanito con la morte di suo padre e dopo un’adolescenza passata fuori casa finché poteva, e nella sua stanza per il tempo restante, ne era sempre più convinto.

Era conscio che sua madre mal sopportasse la sua presenza, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere. Probabilmente il suo istinto materno era forte, nonostante tutto, o forse lottava contro le regole sociali tipiche del ruolo di madre, che tuttavia non le impedivano di non farsi vedere dal figlio minore per più di venti minuti al giorno. Mycroft era l’unico che si sforzasse per lo meno a cenare con lui, ma da quando era partito per frequentare l’università Sherlock aveva passato anni a tavola da solo con la sola compagnia del telegiornale della sera.

Non si poteva dire che l’odio non fosse reciproco.

Il mondo di Sherlock era chiuso fra le quattro pareti della sua camera, in mezzo alle ampolle di distillati di piante tossiche e farfalle magistralmente catturate ed incorniciate, e lui aveva trovato nella Chimica la figura amica che non aveva mai avuto. Troppo distante la famiglia e troppo ignoranti i suoi compagni di classe, per non riuscire a passare sopra al fatto che lui era diverso dagli altri (più libero  di tutti gli altri).

Lui non aveva legami, non aveva obblighi, non aveva il destino alle costole. Non si sarebbe legato con nessuno, non avrebbe dovuto condividere la propria vita e la propria mente con nessuno e se questo era il prezzo della libertà, non era di certo un sacrificio. Tutt’altro.

Se era nato per vivere solo, allora tanto meglio.

 

 

 

Il giorno del suo diciottesimo compleanno, John ricevette dalle mani di sua madre una scatolina di velluto blu contenente il suo personale anello d’argento.

Sua madre lo aveva preso leggermente più largo degli altri – in modo da riuscire a coprire il cerotto – ma tutto sommato era fine ed elegante, classico si poteva dire. Ci aveva anche fatto incidere le sue iniziali ( J.H.W. sulla parte superiore, in grafia corsiva ) e nell’insieme era il regalo più bello che John avesse mai ricevuto.

Sapeva che sua madre aveva speso per quell’anello più di quello che si poteva permettere, ma nel vedere la felicità nel suo sguardo non ebbe cuore di lamentarsene. Dopo che Harry se ne era andata definitivamente di casa, diretta a Londra per cercare “Clara” (o almeno la ragione ufficiale era quella), vedere sua madre sorridere poteva rendere perfetta la giornata di John.

« Non ricopre esattamente il suo ruolo » gli disse Margaret, incorniciandogli il volto con le mani e baciandolo su di una guancia: « per te non sarà mai una vera e propria Ricerca, probabilmente. Ma volevo che ti sentissi come tutti gli altri, perché non sei diverso. Sei davvero un bravo ragazzo John... quelli che pensano per pregiudizi hanno torto » aggiunse.

John sorrise a sua volta, abbracciando la madre e cambiandosi subito l’anello. Evitò di mostrare per troppo tempo alla donna il cerotto bianco già macchiato di sangue, che venne perfettamente coperto dall’anello d’argento scivolato come acqua sul suo anulare sinistro.

« È perfetto mamma, grazie » la ringraziò John, sedendosi a tavola quando lei si voltò per tirare fuori la torta dal forno.

Erano giorni come quello che lo ripagavano di tutti gli sforzi, e gli facevano dimenticare la rabbia e l’odio che provava per quello “Sherlock” che non avrebbe mai conosciuto, ma che comunque riusciva a rendergli la vita un inferno.

 

 

 

.o0o.

 

 

 

Victor aveva le mani da violinista.

Fini dita affusolate dalla pelle leggermente scura, unghie curate e tocco delicato. Trattava ogni cosa toccasse così come suonava il violino: con eleganza ed assoluta gentilezza. Sfogliando la pagina di un libro, tirando fuori una sigaretta dal pacchetto... se la delicatezza avesse avuto un nome, sarebbe stato Victor Trevor.

Ciò che a Sherlock piaceva, però, era che non trattava lui con la medesima finezza. Anzi, tutto l’opposto.

Perché Victor poteva anche avere le mani delicate, ma la sua musica era passionale, irruenta. La prima volta che lo aveva incontrato stava suonando Mozart, il primo movimento del Violin Concerto no.3, e dalla maestria con cui lo stava eseguendo Sherlock aveva capito subito che non sarebbe mai stato in grado di suonare qualcosa al di sotto di un Allegro con la medesima bravura. Le mani di Victor erano state fatte per la precisione e la velocità.

E, avrebbe ammesso più tardi, per rimanere sempre in contatto con la sua pelle.

Caratterialmente era tutto l’opposto di lui. Solare ed estroverso, era talmente socievole che pochissime persone all’interno del campus non sapevano chi fosse, o non lo avessero saputo da altri. Studente di Fisica, non modello ma comunque con voti molto alti, Trevor era l’esempio del ragazzo di famiglia medio-borghese che riusciva senza fatica a trovare un posto nella vita. Di bell’aspetto, i suoi occhi azzurri e i capelli ricci biondo-ramato lo rendevano il centro delle attenzioni sia di donne che di uomini.

Ma a Victor piacevano le cose strane, e per questo conobbe Sherlock.

Ovviamente Holmes non si era fatto mancare alcune dicerie su di lui, all’interno del campus. Voci che per lo più narravano il suo piccolo diverbio tecnico con il professore di Chimica Organica, a cui Sherlock aveva corretto più di metà della lezione (a ragione, persino).

Era stato Victor ad avvicinarlo, e nonostante inizialmente Sherlock non ne volesse sapere, con il passare del tempo trovò la sua compagnia piacevole in un modo strano.

Piacevole in un modo fisico, capì più tardi.

Non c’erano molte cose che Sherlock apprezzava di Victor – al di fuori della musica e della sua innata passione per i guai – ma una di quelle che gradiva di più era il fatto che il ragazzo non avesse alcun tipo di pregiudizio, e che non si affiancasse a nessun tipo di convenzione sociale. SIN compresi.

Non aveva fatto mistero con Sherlock del proprio SIN: “Chris”. Così come non aveva fatto battute o espressioni strane quando aveva verificato ciò che tutta l’università già mormorava, ovvero che lui fosse un Bondless. Aveva semplicemente sorriso – un sorriso sornione – e da sotto al tavolo aveva allungato un piede a sfiorare la caviglia di Sherlock.

Fu così che Holmes, al suo secondo anno di Chimica al King’s College, scoprì il lato piacevole del sesso. Fra le mani di un Fisico violinista di nome Victor Trevor.

Ad entrambi piaceva sperimentare – essendo studenti di Chimica e Fisica era immancabile – e il sesso non faceva eccezione. A volte era veloce ed irruento, altre preceduto da lenti ed eccitanti preliminari, altre ancora seguito da languidi baci che portavano immancabilmente ad un secondo round ma fra loro rimase sempre e solo quello: sesso. Nonostante non credesse in tutte le convenzioni sociali legate al SIN (come il non fare sesso con altri se non con l’Anima Gemella, per esempio) aveva la convinzione che quel “Chris” fosse l’unica persona che avrebbe davvero mai amato, e metteva con chiunque avesse dei rapporti le cose bene in chiaro.

A Sherlock non importava. Il sesso con Victor era gradevole e senza impegno e lo distraeva per un po’ da un cervello sempre sovraccarico, dunque tanto bastava. Poteva dire che fossero amici, esserlo anche “con benefici” era solo un’utile aggiunta.

 

Le reti del letto di Victor cigolarono rumorosamente durante le ultime spinte, alla fine delle quali raggiunse Sherlock in un orgasmo che li lasciò entrambi spossati. Sherlock aveva ancora indosso la camicia, Victor la maglietta e i calzini, e prima di uscire da lui e stendersi al suo fianco gli posò un bacio sul collo, che Sherlock non ricambiò in alcun modo.

Respirarono profondamente – fuori sincrono – per qualche istante prima che Victor si mettesse seduto con la schiena contro la testiera del letto, allungando la mano verso il cassetto del comodino ed estraendone una scatola di cleenex. Ne strappò un paio e la allungò a Sherlock, che fece lo stesso gesto, iniziando poi a ripulirsi un po’.

Una volta terminato, sempre in silenzio, Victor raggiunse il pacchetto di sigarette e se ne mise due fra la labbra. Sherlock osservò di sottecchi il movimento liscio e armonico delle sue dita mentre facevano scattare l’accendino, e l’alzarsi del suo petto quando inspirò la prima boccata di fumo. Una volta che furono accese, ne passò una a Sherlock, che la prese con muta gratitudine.

La nicotina dopo il sesso era anche meglio.

« Ieri sera non era in camera » cominciò poi Victor, soffiando fuori una nuvola di fumo grigio nella semi-oscurità della stanza, rischiarata solo dalla luce notturna del giardino del campus. « Speravo di passare la notte da te... » lasciò cadere nell’ovvietà del significato.

« L’hai fatto stanotte » rispose Sherlock, facendo cadere la cenere nel posacenere che l’altro aveva appoggiato in equilibrio sulla propria coscia.

Ma Victor non se la bevve. « Non è questo che intendo, Sherlock » disse.

« Allora sii più preciso, Victor » ribatté a tono l’altro.

Sherlock sapeva dove voleva andare a parare, per questo non si stupì troppo quando l’altro afferrò velocemente il suo braccio sinistro, sbottonando il polsino e sollevando di scatto la manica della camicia fino oltre il gomito. Una serie di punture rosse, alcune persino livide, macchiavano la sua pelle chiara in modo che si potessero vedere anche in quella poca luce.

« Sono preciso abbastanza? » domandò sarcastico il fisico, scotendogli leggermente il braccio come per sottolineare le proprie parole. « Cos’è questa volta? Di nuovo cocaina? Credevo che quella volta fosse solo per provare. Lo sai quant’è pericoloso? » domandò a raffica, uno sguardo a metà fra rabbia e preoccupazione sul viso.

Holmes, strappando via il proprio braccio dalle mani di Victor, prese fiato. « Cocaina. Benzoilmetilecgonina. Nomenclatura IUPAC: Metil-3-benzoilossi-8-metil-8-azabiclico-octan-2-carbossilato. Formula bruta: C17H21NO4. Alcaloide. Metabolismo epatico, un’ora di emivita. Dose massima compresa fra 1 e 1,5 milligrammi per chilogrammo di peso corpor– ».

« Va bene, va bene, basta! Ho capito, hai fatto i compiti. Cosa vorresti dimostrare? » lo interruppe Victor, ancora arrabbiato.

Sherlock continuò a fissare il soffitto. « Che sono completamente cosciente di quello che sto facendo, Victor. Non c’è pericolo che la situazione sfugga al mio controllo e sai benissimo che in quanto a igiene sono impeccabile » gli spiegò.

Trevor arricciò il naso. « Sì, lo so » dovette ammettere: « ma ciò non vuol dire che mi piaccia... » aggiunse, il tono amaro nel tornare a fumare la propria sigaretta in silenzio.

Sherlock rimase in silenzio per qualche minuto, gli occhi puntati e fissi sul soffitto, la sigaretta che si consumava da sola fra le sua dita. Solo dopo prese di nuovo parola, infrangendo il silenzio caduto fra loro.

« Aiuta » disse.

Victor, spegnendo il mozzicone nel posacenere, lo guardò con la coda dell’occhio. « Cosa aiuta? » domandò.

« Il caos » rispose Sherlock: « qui dentro » specificò, alzando la mano per battersi un indice sulla tempia.

Poté quasi vedere Victor aggrottare la fronte anche senza guardarlo direttamente in faccia. « Scusa Sherlock, ma non ci arrivo » disse infatti quello, confuso.

Holmes sospirò. « Infatti... » commentò solamente, spegnendo a sua volta la sigaretta e voltandosi sul fianco, dandogli le spalle.

Se il destino avesse voluto che Victor capisse, avrebbe avuto il suo nome tatuato sul proprio anulare sinistro.

 

 

 

John aveva già capito che la sua convocazione nell’ufficio del professor Hardman, insegnante di Oncologia Medica, non era strettamente attinente al suo programma di studi, né all’esame che si sarebbe svolto la settimana successiva. Così come non aveva sicuramente a che fare con la sua borsa di studio, dato che i suoi voti soddisfacevano i requisiti per il mantenimento della stessa lungo tutto l’anno accademico. La sua carriera scolastica era a posto.

Pensò a cos’altro potesse essere mentre aspettava nel corridoio, in piedi accanto alla finestra che dava sul cortile interno. Non gli veniva in mente niente.

Escluso tutto, rimaneva solo una cosa. Sperava che non si trattasse di ciò che temeva. Lo sperava davvero.

« Venga avanti, Watson » sentì il professore chiamarlo.

John, prendendo un profondo respiro, entrò e si chiuse la porta alle spalle.

Hardman non era di certo un giovanotto, ma per essere già responsabile di un corso di studi non era nemmeno anziano. Si portava molto bene i suoi sessantacinque anni, probabilmente grazie allo stile di vita sano che solo un medico zelante è in grado di mantenere con costanza (a volte lo vedeva fare jogging al mattino presto, passando davanti all’entrata dell’università). I capelli brizzolati e folti erano elegantemente pettinati con una riga a tre quarti sulla destra e i suoi occhi, di un particolare colore verde, non perdevano attrattiva da dietro le spesse lenti degli occhiali da vista.

Seduto alla sua scrivania, gli indicò una delle due sedie posizionate di fronte ad essa. John, con un breve cenno del capo, si sedette.

Hardman sospirò, lasciando perdere i documenti che aveva davanti al naso e massaggiandosi la radice del naso con due dita. Una sola occhiata bastò a John per capire che il fascicolo aperto fra loro, sul ripiano eburneo, era proprio il suo.

Deglutì silenziosamente mentre il professore cercava le parole.

« Sai John, prima di diventare professore ero un medico praticante, dunque ho dato molte brutte notizie a tanta gente. Dicono che per fare gli oncologi non bisogni provare troppa empatia per il paziente, ma in realtà non è così. L’empatia serve, quando dici ad una persona che sta morendo lentamente e che il suo corpo la sta tradendo a passo di marcia » disse, prendendo una breve pausa prima di continuare: « dunque mi capirai se mi permetto del tempo, per esporti il problema che il Consiglio Universitario mi ha irruentemente fatto notare solo ieri, e che riguarda te » aggiunse.

Non era per niente confortante. Il Consiglio si riuniva davvero e al completo solo per discutere casi importanti, che la maggior parte delle volte riguardavano una sicura espulsione.

L’hanno scoperto, cominciò a pensare senza poterselo impedire. L’hanno scoperto, l’hanno scoperto, l’hanno scoperto.

Inconsciamente, si stuzzicò con il pollice l’anello d’argento.

« È stato sottoposto alla mia attenzione, così come a quella di tutto il Consiglio, la tua domanda di iscrizione alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Inizialmente non ci vedevo assolutamente nulla di male: il format era compilato nel modo giusto, il test d’ammissione superato con ottimi voti, la domanda per la borsa di studio accettata senza problemi. Ai miei occhi, anche sulla carta, eri un perfetto studente di Medicina. Poi mi è stato allungato questo... » e, detto ciò, gli mise davanti un foglio bianco con al filigrana dell’Ufficio Anagrafe. Era una fotocopia, ma un timbro in inchiostro blu e la firma del funzionario addetto lo etichettavano come fotocopia riconosciuta del relativo documento ufficiale.

In giallo, era evidenziata una sola riga.

 

S.I.N. : Broken Connection Entity (“Sherlock”)

 

John non disse una parola. (L’hanno scoperto.)

Hardman sospirò. « Sei stato sfortunato. La London University raramente fa controlli a tappeto così radicali sui suoi studenti. Ma date le nuove statistiche in circolazione sui BCE, quest’anno sono stati adottati metodi più radicali » spiegò.

John rimase ancora in assoluto silenzio. Si limitava a guardare quella maledetta riga evidenziata in giallo e sperava, in cuor suo, che il Karma dell’universo restituisse a “Sherlock” i ventitre anni di merda che lui aveva dovuto subire.

Dopo alcuni istanti di silenzio, il professore riprese parola. « Devo chiederti di toglierti l’anello, John ».

Non che non se lo fosse già aspettato. Aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene ancora prima di varcare la soglia dell’ufficio. Si era sentito in colpa subito dopo aver barrato la casella “SIN positivo – in cerca” della domanda d’ammissione, quattro anni prima. Aveva sperato solo che il contraccolpo sull’orgoglio non fosse così terribile come lo dipingeva mentalmente...

Ma era anche peggio. Si vergognava come un ladro, più di un ladro, e si tolse l’anello dal dito come un condannato alla sedia elettrica che vorrebbe scusarsi con le vittime del suo sbaglio ma non può. Allungò la mano verso il professore, cerotto bianco in bella vista, ma non provò nemmeno ad alzare lo sguardo per vederne la reazione.

Quel gesto fu accolto dal silenzio.

« Deve fare male... » mormorò poi il professore, e John si stupì nel sentire una vena di dispiacere nella sua voce calda.

Dipende da cosa intende, pensò subito John, ma la risposta che diede fu differente. « Continuamente » sussurrò.

« Prendi degli antidolorifici? » domandò quello.

Watson annuì. « Paracetamolo alternato all’Ibuprofene. Nimesulide quando fa infezione » rispose.

Quello annuì. « Perché hai mentito, John? » domandò poi.

Watson non rispose subito. Cercò di pensare alle parole giuste da dire per non sembrare una povera vittima, ma dal suo punto di vista non aveva alcuna argomentazione che non lo facesse diventare tale. Optò per la sincerità.

« Alle elementari un mio compagno di classe disse alla maestra che sua madre gli aveva detto una bella cosa, la sera precedente. “Matt, se lo vuoi e ti impegni, puoi fare qualsiasi cosa”. Credo che ogni genitore dica più o meno le stesse parole al proprio figlio, una volta nella vita » cominciò a raccontare. « Mia madre non lo ha mai fatto. Ma non perché non fosse premurosa, piuttosto perché non voleva illudermi con delle false speranze. La verità è che se anche mi impegno, io non posso fare ciò che voglio perché ci sarà sempre qualcuno che me lo impedirà ».

Alzò gli occhi per incontrare quelli dell’oncologo che lo guardava con attenzione, le mani incrociate e appoggiate alle labbra, i gomiti sul ripiano della scrivania.

« E tutto per questo » aggiunse John, alzando la mano sinistra. « Volevo fare il medico perché è un mestiere nobile. Se avessi cominciato a curare le persone, e lo avessi fatto bene, probabilmente la gente avrebbe smesso di giudicarmi per pregiudizi e mi avrebbe riconosciuto i meriti del caso. Senza giustificazioni, senza distinzioni, senza dubbi. Ma sono poche, se non inesistenti a livello di pratica, le facoltà universitarie aperte ai Ribbons, e Medicina non è una di quelle. Ho mentito per avere una possibilità. Per avere la possibilità che hanno tutte le persone normali » disse, con la voce ora piena di rabbia.

Non diede tempo al professore di dire qualcosa, perché continuò, gli occhi assottigliati dal risentimento. « I giornali non fanno altro che sparare numeri sui Ribbons, declamando su come continuino ad aumentare i crimini ad opera loro. L’opinione pubblica è talmente concentrata su queste statistiche che evita di elencare quanti sono i crimini commessi dalle persone che non sono Ribbons, e si fidi se le dico che non sono pochi, li ho contati. Ci guardate con diffidenza solo per via di queste cifre, ma provi a mettersi nei nostri panni. Provi a crescere sapendo che quel nome sul dito, quello che non smette mai di sanguinare e continua a bruciare, probabilmente è la prova del fatto che l’unica persona che ci avrebbe davvero amati ha deciso di rifiutarci. E non si sa nemmeno quando, esattamente, o perché. Provi ad immaginare cosa significa sentirsi solo in mezzo alla gente. E noi così ci cresciamo. Peggio ancora: diventiamo grandi sotto gli sguardi diffidenti degli altri, continuamente bombardati dalle parole “mi dispiace ma non può”. Non c’è da stupirsi se arriviamo ai trent’anni con la voglia non solo di vedere il mondo bruciare, ma di alimentarne le fiamme con la benzina » terminò, stringendo forte i denti per impedire all’ira di sovrastarlo. Aveva chiuso le mani a pugno durante il discorso ed ora le unghie stavano lasciando solchi profondi sui suoi palmi.

Il professore non disse nulla per lunghi minuti, limitandosi a guardarlo attentamente. Forse stava cercando le parole adatte ma non esistevano, non erano mai esistite. Contavano solo i fatti, e Hardman puntò subito su quelli.

« John, questo ateneo ti riconoscerà gli anni di studio intrapresi e tutti gli esami già sostenuti » disse.

John, colto alla sprovvista da un moto di sorpresa, sgranò gli occhi.

Hardman continuò. « Purtroppo non posso cambiare le regole dell’ateneo. Il Sommo Rettore ha già dato ordine di certificare la tua espulsione, ma sono riuscito a convincere il Consiglio a riconoscerti ciò che avevi già guadagnato. Sei uno dei miei studenti migliori, e uno dei migliori dell’intero corso, non mi importa che tu sia o meno un BCE. Quei voti te li sei guadagnati impegnandoti quanto e forse più degli altri, dunque te li meriti » sentenziò.

John boccheggiò, indeciso su cosa dire, ma l’oncologo lo batté sul tempo.

« La London University riconoscerà i primi quattro anni del corso di laurea in Medicina e Chirurgia come premio alla costanza e all’impegno dimostrati. Ti verranno riconosciuti tutti gli esami, anche se ti verrà aggiunta una nota di demerito per aver dichiarato il falso in sede d’ammissione. A patto... » esitò: « ...che tu continui i tuoi studi all’Accademia Militare » disse infine.

John aggrottò le sopracciglia, l’espressione dubbiosa. « Nell’esercito? » domandò, stranito.

Hardman annuì. « Nella RAMC non fanno differenze. Se sei meritevole di proteggere la Corona, diventi un soldato uguale a tutti gli altri. Lì la pratica medica, nonostante sia limitata alla chirurgia di primo soccorso, è aperta a chiunque abbia i requisiti giusti per impararla e metterla in pratica sul campo di battaglia. E tu li hai » disse.

Non era diverso dall’entrare nei militari autonomamente. Era storia risaputa che l’Esercito non facesse differenze – come potevano, con una guerra in corso in Medio Oriente? – e alla fine la RAMC finiva comunque per essere l’ultimo porto salvo in cui i Ribbons, i Bondless e i pochi che davvero volevano fare carriera militare andavano a finire. Quella precisazione era più che altro un consiglio, perché nessun’altra università l’avrebbe ammesso, nonostante il riconoscimento degli esami e dei 4 anni già frequentati.

Alla fine, vinto dalla sorte, annuì e accettò l’offerta.

Per lo meno, sperava, come militare sarebbe valso qualcosa.

E se davvero esisteva un Dio, la sua preghiera era che gli piantasse una pallottola in mezzo agli occhi il prima possibile.

 

 

 

.o0o.

 

 

 

Voleva andare oltre.

Superare i limiti.

Gli esperimenti potevano essere replicabili ma le scoperte, quelle vere, avevano la loro percentuale di rischio. Ogni grande scienziato aveva superato la linea di guardia, il confine fra buon senso e ignoto; era questo che li aveva resi grandi: avevano rischiato.

Quello non era esattamente un esperimento. Non stava cercando di dimostrare niente. Era un rimedio per sconfiggere la noia, il tedio, ogni piccola cosa che lo assillava. Il passato che aveva lasciato, un presente senza forma concreta. Un futuro che non riusciva a vedere chiaramente. Era una fuga in silenzio.

Era adrenalina, sangue, estasi. Un’ora di pura perfezione assoluta. Tanti spilli nel cervello come aghi che stimolavano i punti giusti, che obnubilavano i concetti senza importanza, che gli facevano spalancare gli occhi su una realtà che vedeva già meglio degli altri per permettergli di osservarla fino nelle viscere, di carpirne la struttura che la sorreggeva. Tutto quanto usando solo una siringa ipodermica e un laccio emostatico.

Ma fu un attimo. Forse capì che qualcosa era stato storto, forse si pentì della scelta di ignorare le dosi, di provare quei pochi milligrammi in più con la convinzione di essere ormai assuefatto, abituato, di poterne reggere ancora un po’, quel tanto da fargli penetrare il senso stesso delle cose fin dentro gli atomi che le compongono.

Vedeva la pelle delle proprie dita sciogliersi e lasciare scoperto l’osso. Sentiva il dolore dell’acido invisibile che la corrodeva. Ne avvertiva persino il suono, lo sfrigolio sinistro, l’odore di carne cotta, carne umana, e per quanto gemesse ed urlasse l’acido non si fermava, e saliva, mangiandosi strati di epidermide e carne, prima sui polsi, poi sulle braccia...

Allucinazioni, una parte del suo cervello riuscì a dirgli. Visive, uditive, olfattive. Probabilmente le ultime due erano un estremo tentativo del suo cervello di compensare l’iperstimolazione sensoriale. Effetti collaterali della sostanza psicotropa iniettata in vena solo pochi istanti prima.

Sulla corsia preferenziale intra-venosa, sparata dritta dritta verso il cervello.

Capì di essere andato in overdose solo quando aprì gli occhi e ciò che vide fu il drappo di un letto a baldacchino.

« Credevo che non potessi cadere più in basso di così ».

Una voce arrivò dalla sua destra, dalla finestra che dava su di un cielo notturno prossimo all’alba. Aveva riconosciuto la casa dall’odore, e riconobbe quella voce dal tono.

« Mycroft... » gracchiò, la gola secca e dolorante.

Quello non diede nemmeno segno di averlo sentito. « Ho voluto credere che lasciare l’università senza laurearti, dopo aver passato tutti gli esami con voti perfetti, fosse la fine della tua “età della ribellione”. Ho voluto confidare nel fatto che come vendetta ti bastasse, che il tuo occasionale lavoro come consulente per l’Ispettore Lestrade fosse sufficiente a catalizzare la tua buona volontà. Probabilmente mi sbagliavo... » disse.

Un attimo di silenzio, poi l’aggiunta: « io mi preoccupo per te, Sherlock ».

Sherlock non rispose se non con una risatina ironica appena soffiata.

Mycroft ignorò la sua reazione e tutti i significati che metteva in evidenza. « Da oggi sei sotto stretta sorveglianza. Rimarrai qui finché non avrai concluso la terapia riabilitativa. I tuoi farmaci sono sul comodino ».

Senza aggiungere una parola, Mycroft Holmes, in camicia e vestaglia da camera, si staccò dalla finestra e camminò a schiena dritta verso la porta. Si fermò solamente sull’uscio, osservandolo con la coda dell’occhio.

« Io ci tengo a te, Sherlock. Che tu ci creda o no » gli disse, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle.

Sherlock, rigirandosi su di un fianco, chiuse gli occhi esausti e sospirò.

Chissà perché non riusciva a crederci.

 

Fece a malapena in tempo ad entrare nei bagni e a trovare un cubicolo vuoto.

Rigettò tutto ciò che aveva mangiato, con spasmi violenti allo stomaco e alla gola, e dovette aggrapparsi al water a causa di un forte giramento di testa. Le targhette tintinnarono fra la pelle e il tessuto verde della maglia, madida di sudore freddo sulla schiena.

Sentì la porta dei bagni aprirsi giusto prima che un altro conato di vomito lo investisse di nuovo.

« Doc, tutto bene? » la voce del sottotenente Tony Monroe echeggiò appena nella stanza vuota, acquisendo una nota quasi metallica.

John sputò, poi tirò lo scarico e si lasciò crollare a terra, la schiena contro la parete in plastica del cubicolo. Si sentiva improvvisamente senza forze. « Sì... sì, bene » rispose, abbandonando le mani sui pantaloni della mimetica: « dev’essere il cibo tradizionale afghano » ipotizzò.

Sentì l’altro appoggiarsi al muro di fianco alla porta, in attesa. « Mangiamo quella roba tutte le sere da anni e non ti ha mai dato fastidio. A me sembra più una Risonanza » disse quello, il tono tranquillo da chi sa cosa dice.

John roteò gli occhi sotto le palpebre chiuse.

Veniva chiamata “Risonanza” la speciale capacità di una coppia già Legata di poter percepire i forti sentimenti l’uno dell’altro. Nel caso che uno dei due avesse un grave incidente, o si ammalasse di una malattia molto grave, o comunque affrontasse una situazione che causava una gran sofferenza fisica, l’altro individuo della coppia poteva arrivare a subirne gli effetti attraverso vari tipi di malessere (più spesso nausea o febbre).

« Sai bene che per me è impossibile » gli rispose John, trattenendo il fiato al sentore di un altro attacco.

« Sarà... » rispose quello, e John poté quasi vederlo fare spallucce.

« Non è possibile scientificamente » precisò John: « dovresti saperne qualcosa in qualità di Bondless ».

« Ehi, anche se non ho un nome sul dito io credo nell’amore, amico » ribatté quello, e John scosse piano il capo alla filippica che l’altro cominciò sul fatto che se il Legame è vero rimane indissolubile nonostante le apparenze.

« E poi tu ce l’hai un nome, sul dito, dunque non è totalmente impossibile » terminò l’altro.

Watson sospirò, gli occhi chiusi. « È un ricevitore vuoto, Monroe. È impossibile ».

 

 

 

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Il dolore, simile ad un’ondata di marea, arrivò solo dopo, quando già era a terra.

Partì dalla spalla e si espanse in tutto il petto, facendo tremare le braccia e rimbombandogli in testa. Aveva fiato sufficiente per un solo gemito perché il dolore era semplicemente troppo, tanto da non permettergli nemmeno di prendere aria per urlare.

Strano. Aveva visto tanti soldati con ferite d’arma da fuoco prima ma nessuno, nessuno si era risparmiato di svuotare i polmoni in urla che andavano dal delirante all’isterico.

Lui sarebbe morto in silenzio. Tanto meglio.

« Watson! ».

Sentiva la sabbia sotto di lui, tutto intorno voci e urla e gemiti e colpi di pistola, di mortaio, di mitraglietta. Tutto lontano, distante, ovattato. Gocce di sudore freddo gli rigavano le tempie e gli incollavano la mimetica alla pelle – dove non ci pensava già il sangue a farlo, per lo meno.

« John! ».

« Chiamate un medico! ».

« Medico! MEDICO! ».

« Johnny, Johnny siamo qui, resta con noi! ».

Voleva alzare la mano per toccare la ferita, sentire quant’era profonda, dove era stato colpito esattamente... voleva dare una mano alle sagome sfocate ed indistinte chine sopra di lui – i suoi commilitoni, lo sapeva, ma grosse lacrime gli appannavano gli occhi e lui aveva paura di chiuderli e non riaprirli mai più – dire loro cosa fare, dove premere, di controllare se era stato colpito in punti vitali, se il proiettile era passato o no, se era ancora dentro... ma il suo braccio era pesante, la mano era pesante, la sua testa era pesante. Anemia. Probabilmente la succlavia, considerato quanto... quanto tempo era passato?

« Strappala, strappa la camicia ».

« Cristo... Cristo quanto sangue... ».

« Monroe, se devi sentirti male fallo altrove! ».

« Johnny resisti, ok? Il dottore sta arrivando, hanno chiamato un mezzo di trasporto. Ti porteranno via da qui. Ti tiriamo fuori da questo inferno, stai tranquillo, ok? ».

« Cristo... Oddio, Cristo... »

« La morfina, datemi la morfina dei vostri kit medici! ».

Le sagome si affaccendavano attorno a lui, mani sporche di sabbia e polvere premevano forte sulla sua spalla sinistra, che faceva un male fottuto ma lui non poteva comunicarlo perché non aveva aria abbastanza, solo a malapena per fare piccoli respiri fra i denti serrati.

Non voleva davvero morire ma era così che sarebbe finita. Da in mezzo alle teste sempre più sbiadite, sempre più somiglianti a delle ombre, uomini che gli sembrava di conoscere ma non sapeva più dirlo con esattezza, John guardò il sole.

Dicono sempre che prima di morire ti passa tutta la vita davanti, ma non è affatto così. Non pensi assolutamente a niente. La tua vita smette di esistere. C’è solo un eterno presente racchiuso in un battito di lancetta dilatato all’infinito e l’unica cosa che il tuo cervello è in grado di formare davvero è una supplica.

Per favore, Dio, fammi vivere.

 

Riaprì gli occhi quando un brivido freddo e violento gli corse lungo la schiena, facendogli tremare i muscoli. Riconobbe la sensazione come quel fastidioso galleggiare indefinito di quando gli veniva la febbre alta.

Aprì piano gli occhi, accecato dai fari e dalle luci d’emergenza della pattuglia esattamente davanti al parabrezza. Lui stesso sembrava steso sul sedile di una macchina della polizia, una borsa del ghiaccio appoggiata sulla fronte e avvolto – con cappotto e tutto – in una coperta arancione.

Arricciò il naso. « Ancora una di queste...? » biascicò, senza però togliersela di dosso. Aveva freddo, tanto per gradire.

« Ne porto sempre una nel bagagliaio » rispose una voce al suo fianco, al posto di guida: Lestrade: « come stai? » domandò.

Ma Sherlock ignorò la domanda. « Cos’è successo? » chiese invece. L’ultima cosa che ricordava era che stava analizzando un cadavere in una via secondaria di Bayswater, poi il vuoto.

« Sei svenuto » lo informò Lestrade: « all’improvviso, senza preavviso. Ti sei interrotto su uno dei tuoi elogi alla stupidità di Anderson e del Reparto Analisi Scientifiche e nel giro di due secondi hai perso conoscenza » spiegò.

Holmes emise un mugugno seccato. « Stavo bene prima » disse.

« Sembrava anche a me » annuì Lestrade.

Sherlock scostò la coperta quel tanto che bastò per farne uscire la mano, poi si tolse l’asciugamano bagnato dalla fronte. « La scena del crimine? ».

« Hai raccolto elementi a sufficienza, tranquillo. Il cadavere è già stato portato via, la Scientifica sta finendo il repertamento » gli rispose Greg.

Sherlock scosse il capo, scontento, ma il mondo girò troppo in fretta per i suoi gusti. Dovette richiudere gli occhi.

« Non mi chiedi se mi faccio? Dopotutto mio fratello ti ha eletto a mio tutore personale, no? » disse poi Sherlock, arricciando il naso in una smorfia di disgusto al sottolineare con la voce le due parole.

Lestrade sospirò. « Senti, faccio solo quello che tuo fratello mi dice di fare. E non sono il tuo tutore. E no, so che non ti stai facendo » disse.

Sherlock capì subito dove voleva andare a parare. « Non mi hai mandato all’aria l’ordine dei calzini come l’ultima volta, spero ».

« Non sto attento ai tuoi calzini durante una retata antidroga, mi dispiace » ribatté Lestrade. « In ogni caso, sei sicuro di sentirti bene? Vuoi andare in ospedale? » chiese.

Sherlock aggrottò le sopracciglia, scuotendo poi il capo in senso negativo.

« Sai almeno cosa possa essere stato? » insisté lo Yarder.

« Ho due teorie » cominciò Sherlock, aprendo la mano sinistra davanti a sé in modo da poter vedere il dorso del dito anulare: « una delle quali è impossibile ».

Lestrade non era uno stupido, e capì a cosa si riferiva. « Una Risonanza? » chiese conferma.

Holmes annuì.

Rimasero in silenzio per lunghi minuti, ognuno perso nei suoi pensieri, finché non fu di nuovo Greg ad interromperlo.

« Potrebbe essere invece » affermò.

Il sopracciglio di Sherlock si alzò di propria spontanea volontà in un’occhiata piena di scetticismo.

« Le leggende, sai? Quelle sui Legami talmente forti e puri da essere indissolubili nonostante le apparenze. Magari hai un Legame che trascende i secoli e le reincarnazioni e ora ne senti gli strascichi » disse.

Sherlock fece schioccare la lingua contro il palato. « Non dire assurdità Lestrade. Sono un Bondless. Niente SIN, niente Legame » sbottò seccato: « è un semplice quanto seccante principio d’influenza. Adesso portami a casa, se non ti dispiace ».

Greg sospirò e, preferendo il silenzio ad una discussione senza capo né cosa, accese il motore della pattuglia e cominciò a guidare verso casa di Mycroft, in cui Sherlock era ancora ospite (anche se non lo sarebbe rimasto ancora a lungo).

Guardando fuori dal finestrino, Sherlock si sfregò involontariamente il dorso dell’anulare sinistro da sotto la coperta.

No, là fuori non c’era nessuno con il suo nome sul dito. Non poteva.

Quando nasci per essere solo le regole sono regole, e sono quelle.

 

 

 

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A volte è semplicemente troppo.

La pressione, le aspettative, la delusione che ne segue.

Sono troppe le cose a cui pensare, troppi i problemi che ti affliggono, troppi gli sguardi che incontri e che prima non avresti notato.

La sua mano tremava. La sua gamba era diventata di sua iniziativa un arto completamente inutile. Il suo dito doleva come se dovesse staccarsi dalla mano. La spalla lanciava fitte dolorose ogni volta che muoveva male il braccio. Era un ex-soldato scartato dalla RAMC solo perché gli era stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico che era incredulo di possedere. Un’entità solitaria che si aggirava per Russel Square senza più uno scopo né speranza, in cerca di qualcosa che non sapeva che forma avesse, o cosa fosse.

Un eterno presente che non sfociava su alcun futuro.

« John? ».

Era diventato la personificazione dell’inutilità.

« John Watson? ».

Sentì una voce chiamare il suo nome solo dopo, quando tornò ad afferrare quella realtà da cui la mente era fuggita. Si voltò in direzione dell’uomo che lo aveva apostrofato, appena alzatosi da una panchina che lui non aveva nemmeno visto pochi istanti prima, e se anche la famigliarità di quel volto gli fece scattare qualcosa, non fu sufficiente per fargli davvero capire chi fosse.

Risolse l’altro. « Stamford. Mike Stamford, eravamo insieme al Barts ».

Ecco chi era.

« Sì, scusa, sì. Ciao, Mike » disse allora, stringendo la mano che gli veniva offerta dall’uomo in trench e occhiali. Se lo ricordava, durante il tirocinio del terzo anno di Medicina.

Certo che era ingrassato.

« Sì, lo so, sono ingrassato ».

Appunto.

« No, no... » negò in un soffio, palesemente falso, ma Mike decise di sorvolare.

Ovviamente nella direzione sbagliata. « Ho sentito che eri all’estero da qualche parte, e che ti hanno sparato. Cos’è successo? » gli domandò.

« Mi hanno sparato » disse solamente lui, come se fosse ovvio e non volesse aggiungere nient’altro. Mike non rispose.

Rivedere un vecchio amico era sempre meglio che girare per Londra senza avere la minima idea di cosa fare, così presero un caffè e si sedettero sulla panchina in cui si era accomodato Mike poco prima. Era evidente Stamford non avesse idea di cosa dire – pochi davvero sanno di cosa parlare di fronte ad un ex-soldato zoppo con l’aria di uno che potrebbe buttarsi dal London Bridge prima di sera – così fu John a trovare qualcosa di “innocuo” da dire.

« Allora, sei ancora al Barts? ».

« Ora ci insegno. Ci sono giovani brillanti, proprio com’eravamo noi, una volta. Dio, li odio! » ironizzò.

John ridacchiò per riflesso.

« Tu invece? Resti in città finché non trovi qualcosa da fare? » gli chiese poi Mike.

« Non posso permettermi Londra con la pensione dell’Esercito ».

« Nah, non sopporteresti di stare da nessun’altra parte. Questo non è il John Watson che conoscevo! » esclamò Stamford, forse per tirarlo un po’ su di morale, forse per fare una battuta.

Non fece altro che farlo scattare. « Sì, non sono più il John Watson che conoscevi... » rispose, ma fu incapace di pronunciare la frase per intero, che divenne un sussurro inudibile. La sua mano tremò di nuovo e lui aprì e chiuse le dita, sperando che il tremore passasse prima che Stamford se ne accorgesse.

La situazione era già abbastanza tesa senza che l’altro lo compatisse anche per quello.

« Harry non ha potuto darti una mano? » gli chiese poi.

John lasciò andare una risata amara. « Come no, non accadrà mai ».

« Non lo so... perché non ti cerchi un coinquilino, o una cosa del genere? » ipotizzò poi.

« Oh, andiamo. Chi mi vorrebbe come coinquilino? » rispose lui, scettico.

Mike rispose con una risatina divertita.

John aggrottò le sopracciglia. « Cosa c’è? ».

« Sei la seconda persona che me lo dice, oggi ».

Se Watson fosse stato una persona meno curiosa, probabilmente avrebbe lasciato correre o avrebbe ridacchiato per la coincidenza avvenuta nella vita di quell’uomo nell’arco delle ultime ventiquattr’ore. Se fosse stato davvero disperato, non gliene sarebbe fregato niente e non avrebbe fatto la domanda che, effettivamente, fece.

Col senno di poi, il fatto che non si fosse ancora arreso cambiò tutto.

« Chi è stato, il primo? ».

 

 

 

 

   
 
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