Desclaimer: La serie di
Sherlock e tutti i suoi personaggi non sono di mia proprietà ma appartengono
prima a sir Doyle, che li ha creati, e poi a Moffat e Gatiss, che li hanno
adottati. Non scrivo per soldi ma per scaricare lo stress dovuto ai sequenziali
fallimenti di conquista del mondo.
Note:
Nuovo giro, nuovo kink.
Lo SoulBond!AU
è qualcosa che ho scoperto nel fandom inglese, e l’ho
amato da subito. Personalmente non mi ritengo esattamente in grado di
scriverlo... non so, ho dei forti dubbi, ma ci provo comunque.
Sarà di 3/4 capitoli
(vedrò andando avanti). Johnlock principalmente,
sofferto fino in fondo, ma c’è qualche pezzetto di Sherlock/Victor e John/Mary.
Non sono assolutamente influenti per la trama ma esistono.
È un po’ un esperimento
stilistico, in realtà... sto cercando di cambiare qualcosa al mio solito modo
di scrivere.
Sperando che sia gradito,
auguro buona lettura ♥
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1.
Adagio
Da
un’intervista al dottor Joseph C. Williams, docente di Biologia Molecolare e
Cellulare alla University of
Michigan, per Nature:
I: potrebbe spiegarci, in parole povere, cos’è
un’Anima Gemella?
J.C.W.: in termini comuni viene chiamata “Anima Gemella” colei, o
colui, destinati ad essere la nostra
metà perfetta, la persona più adatta a noi sotto ogni profilo. Più
precisamente, è la persona il cui nome ognuno di noi ha tatuato sull’anulare
sinistro fin dalla nascita.
In
termini tecnici viene chiamato SIN.
I: e cos’è un SIN?
J.C.W.: SIN sta per “Soulbond Identification Name”. In poche
parole è un metodo di classificazione burocratico come potrebbe esserlo il
codice fiscale, o il codice di previdenza sociale. Viene registrato
privatamente intorno ai 5 anni, età in cui comincia ad essere pienamente
visibile sulla pelle.
I: cos’è un Legame?
J.C.W.: viene comunemente chiamato “Legame” l’incontro fra due Anime
Gemelle predestinate. Esso scatta tramite un semplice contatto pelle contro
pelle, come una stretta di mano, che innesca una reazione chimica all’interno
di alcuni centri recettivi cerebrali. Si manifesta come una piccola scarica
elettrica a bassissimo voltaggio, percepita solo marginalmente dall’epidermide,
ma identificata spesso come un brivido, o un piccolo spasmo muscolare. Essa
crea, appunto, il Legame, ovvero una sorta di co-dipendenza
chimica e biologica che va intensificandosi con il tempo e la vicinanza.
Conseguentemente, potrebbe anche diminuire con la lontananza, ma non sparirebbe
mai del tutto.
I: quali sono gli effetti del Legame?
J.C.W.: i più conosciuti sono sicuramente gli squilibri emotivi nei
confronti dell’altra persona. Protezione, affetto, senso di appartenenza. Nei
casi di Legami più profondi è stato riscontrato anche un incremento del
potenziale psichico, come mutuo riconoscimento e intendimento, profonda
empatia. A volte si arriva a dei veri e propri “scambi psichici” in cui un
componente della coppia è in grado di sentire il dolore provato dall’altro e
viceversa.
I: qual è la spiegazione scientifica di questo
fenomeno?
J.C.W.: al momento non esiste una vera e propria spiegazione scientifica,
solo ipotesi che, purtroppo, non stanno portando a risultati apprezzabili. Un
po’ perché ogni Legame è diverso così come sono diverse le persone che lo
compongono, e un po’ perché le coppie che arrivano a questo tipo estremo di
Legame sono veramente poche. Al momento sappiamo solo che il nome che compare
sull’anulare sinistro è formato da particolari cellule melaniniche,
e che a seconda dell’intensità del Legame e dei sentimenti provati il colore
diventa più o meno scuro secondo un rapporto diretto. Il pigmento è quello
ematico, dunque cresce e decresce su una scala di rossi, dal rosa chiaro al
bordeaux. Diventa nero nella vedovanza, e sparisce gradualmente dopo la morte
nel giro di poche ore.
Per
quanto riguarda la formazione del Legame, le ipotesi più diffuse sono quelle
che riguardano il rilascio nel corpo di un particolare ormone che reagisce
all’odore dell’altra persona. Test di misurazione ormonale denotano un
mutamento del quadro generale, dunque è difficile capire esattamente quale sia.
Alcuni scienziati radicali ipotizzano che si vengano a creare delle vere e
proprie modifiche a livello di DNA, o di RNA messaggero, ma a mio parere si tratta
di speculazioni esagerate. Probabilmente la mutazione del DNA è già avvenuta
quando i primi SIN hanno cominciato ad apparire, secoli fa.
I: come spiega la Scienza il fatto che il
Legame si formi esattamente con la persona il cui nome abbiamo inciso sul dito?
Come fa il nostro corpo, se solo di esso si tratta, a capire chi è la persona
più adatta a noi?
J.C.W.: anche in questo caso, posso rispondere solo a livello puramente
teorico.
Alcune
teorie puntano il dito verso il caso, dicendo che il nome che compare sul dito
alla nascita sia semplicemente frutto di una “lotteria” statistica fra i nomi
più usati negli ultimi secoli. Secondo questo esempio, noi cercheremo legami
stabili solo con le persone che detengono il nome che ci è capitato per caso,
non preoccupandoci nemmeno di cercarne altre con altri nomi. Tuttavia, teorie
puramente matematiche e statistiche come questa non spiegano il Legame e tutto il processo che vi è dietro.
Temo
che sia una di quelle cose che la Scienza non può ancora spiegare.
I: Esistono eccezioni alla comparsa del SIN?
J.C.W.: sì, esistono. Alcune persone non sviluppano il nome sulla propria
pelle, che rimane perfettamente pulita. Questi individui vengono chiamati “Bondless”, o “Senza Legame”. Al contrario, altre persone
nascono sì con un nome sul dito, ma esso si presenta già da subito come una
ferita costantemente aperta e sanguinante, come un’incisione su pelle viva. Gli
scienziati hanno potuto constatare che, in questi casi, le cellule pigmentate
che formano il nome impediscono alle piastrine di far coagulare il sangue e, di
conseguenza, alla ferita di guarire. Individui di questo tipo vengono
comunemente chiamati “BCE” che sta per “Broken
Connection Entity”, anche se la cultura popolare ha
recentemente coniato il termine dispregiativo “Ribbon”,
derivato dalla storpiatura di “Rejected Bond”, ovvero
“Legame Rifiutato”.
In
entrambi i casi la normale reazione chimica del Legame non avviene.
I: ci sono stati casi in cui un Bondless sia riuscito a sviluppare un Legame, o di un BCE
la cui ferita sia guarita ed il Legame ristabilito?
J.C.W.: finora no. E se sono esistite situazioni di questo tipo non sono
state riportate su documentazioni storiche consultabili.
Dal
libro “Società del Legame” di Rajat Nara, Sociologo della
Devianza, Nuova Delhi; capitolo 3 “mutamenti sociali comunemente accettati e
nuove minoranze”.
“Il mutamento delle
società umane e del comportamento delle masse dopo la comparsa del Legame è
imponente.
Supponiamo per esempio
di dover fare un’analisi sociale superficiale, tralasciando le variabili di
mutamento specifico e concentrandoci solamente sul funzionamento di base
dell’animale Società. Si può dire che qualsiasi gruppo sociale, e vale ora come
in passato, funzioni basandosi su un insieme di costrutti specifici comunemente
accettati da tutti i membri della comunità. Questi costrutti definiscono la
Morale – termine del tutto differente da quello di morale religiosa, sia chiaro
– del gruppo sociale in questione.
Analizzando reperti e
registri storici gli studiosi di tutto il mondo hanno potuto constatare che
l’avvento del Legame e di quello che modernamente chiamiamo “Soulbond Identification Name” (SIN) ha provocato un cambiamento radicale della
Morale comune e, di conseguenza, anche di quei gruppi sociologicamente definiti
“devianti” che formavano le cosiddette minoranze.
In una società in cui
la normalità è l’avere sul dito il nome della propria Anima Gemella (poiché è
così per l’85% della popolazione mondiale) ovviamente i gruppi di minoranza
vengono identificati nei Bondless e nei BCE. Ma non
solo, vengono operate distinzioni specifiche all’interno di questi stessi
sottogruppi.
Studi statistici
operati sulla popolazione carceraria mondiale hanno portato alla luce dati
allarmanti sulla percentuale di BCE presente all’interno delle carceri, il 70%
della quale è condannata all’ergastolo o accusata di crimini gravi come
l’omicidio, il pluri-omicidio o l’omicidio seriale.
La pubblicazione di questi risultati ha provocato, come effetto domino, una
generale diffidenza nei confronti di questi individui, che si ritrovano ad
avere problemi con cose semplici come l’ammissione all’università o il trovare
lavori gratificanti.
D’altro canto, la
comparsa del SIN e dei Legami ha causato un mutamento nel modo di pensare delle
persone, portando alla scomparsa di problemi sociali quali l’omofobia, la
xenofobia e il sessismo.”
Dal
forum on-line “Parole al Vento”.
JasMine90:
Questa storia dei Rabbit mi disturba molto, devo
dire. Avete sentito che ce ne sono sempre di più? Tutti quei Legami Spezzati
non sono normali. E credo che la colpa sia di quelle persone che decidono di
ignorare il proprio SIN.
Arabesque: @JasMine90
ormai l’obbligo di mettersi insieme al nostro SIN è superato. È come il fatto
di non fare sesso prima del matrimonio, arcaico! Il SIN non è un sostituto del
libero arbitrio... voglio dire, tu il tuo SIN lo incontri, ci esci un paio di
volte, poi se non ti piace non lo tocchi e non crei il Legame. Mi sembra
semplice.
Cactus742: @JasMine90 @Arabesque guardate che il SIN non è come scegliere
uno yogurt al banco frigo del supermercato! E le vostre sono parole di chi il
Legame non lo ha ancora formato. C’è un motivo se la maggior parte delle
persone ancora si unisce con la propria Anima Gemella... poi posso capire che
ci siano situazioni, come abusi e violenze domestiche, che spingono coppie a
separarsi... o anche il fatto che due Anime Gemelle non riescano ad incontrarsi
entro una certa età... però non ha niente a che fare con i Rabbit.
JasMine90: @Cactus742
è scritto anche in molti libri che il fatto di non legarsi al proprio SIN porta
a lungo andare allo spezzarsi del legame, nel ciclo di morte e rinascita. Non
me lo sto inventando.
Cactus742: @JasMine90
mai detto. Però il tuo punto di vista fa molto casa-e-chiesa.
Soprattutto Chiesa (quella con la C maiuscola).
CumbaGirl: Io non voglio che sia un
mucchio di melanina sul mio dito a decidere chi dovrà essere il compagno della
mia vita.
Cactus742: @CumbaGirl aspetta di incontrarlo poi ne riparliamo.
Dalla
conferenza del dott. Giancarlo Bellini, professore di Teologia all’Università
“La Sapienza”, Roma.
“Tutte le religioni del mondo rappresentano il Legame come qualcosa
di unico e significativo per il credo stesso, ma al contempo sembrano
concordare su di un fatto unico: il Legame è qualcosa di indissolubile, un filo
che lega due anime nel ciclo di nascita/morte/rinascita.
Sapere di poter affrontare la morte senza perdere traccia della
persona amata non è consolatorio? Molte persone trovano la pace nella morte
sapendo che, anche nella prossima vita, la loro Anima Gemella sarà al loro
fianco, seppur con un altro nome o con un altro aspetto. Ciò che lega due anime
diviene talmente indissolubile, secondo alcuni culti religiosi, che esse
possono persino fondersi insieme. Molti fedeli di molte religioni sostengono
che i Legami più forti, quelli che sviluppano connessioni psichiche ed
empatiche fra loro, non siano altro che l’evoluzione di due anime che sono
divenute una sola attraverso diversi cicli vitali, attraverso l’unione
spirituale, dei sensi e del corpo. Un’unione totale protrattasi da una vita
all’altra.
Ovviamente, di conseguenza, questi Legami sono per essi qualcosa di
sacro. Non si debbono spezzare.
Molti culti infatti proibiscono il credo praticato ai Bondless e ai BCE.”
.o0o.
Violet e Siger Holmes
si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra, quando non avevano
visto alcun nome comparire all’anulare sinistro del piccolo Sherlock il giorno
del suo quinto compleanno.
Mycroft, il figlio maggiore, a quell’età aveva
già avuto il suo SIN pienamente visibile.
«
Non si preoccupi, signora Holmes » aveva però detto il dottor Abbott: « alcuni
bambini sviluppano SIN talmente chiari da rimanere praticamente invisibili per
tutto il quinto anno di vita. Il termine massimo di registrazione è il
compimento del sesto anno d’età, c’è ancora tempo ».
Era
suonato rassicurante, nella sua voce calma e posata da medico tutto d’un pezzo;
ma quando il sesto compleanno di Sherlock arrivò e non vi era ancora traccia
del suo SIN, il medico dovette per forza sottoporre il piccolo ad un’ecografia
per contrasto, in modo da confermare o meno la presenza dell’iscrizione. Era
strano che rimanesse sottopelle anche dopo il quinto anno d’età, ma non essendo
l’unico caso al mondo tutto era possibile. E la speranza è sempre l’ultima a
morire.
Ma
la sua voce fu molto meno rassicurante quando disse alla famiglia Holmes, una
delle più facoltose dell’Essex, che il piccolo di
casa non aveva alcun nome sul suo dito, e che per questo aveva l’obbligo di
registrarlo ufficialmente all’anagrafe statale come Senza Legame.
Violet non fu felice di avere un Bondless
nell’albero genealogico (altrimenti perfetto) della famiglia.
Jonathan
e Margaret Watson si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra,
la terza notte in cui il piccolo John non dormiva a causa di un male alla mano
sinistra che nessuno di loro sapeva spiegarsi. C’era solo una piccola
macchiolina rossa sull’anulare, ma credevano che fosse del tutto normale;
dopotutto il bambino aveva appena quattro anni, probabilmente era solo la pelle
che cominciava a scurirsi per poi formare il nome che sarebbe apparso al
compimento dei cinque anni.
Anche
Harriett, la loro figlia maggiore, aveva provato un
po’ di dolore alla formazione del suo SIN. Poteva succedere.
Ma
la voce del medico non fu per nulla rassicurante quando ordinò loro di portarlo
in ambulatorio il prima possibile, non importava che fosse notte.
I
due uscirono di casa in tutta fretta, portando con loro il piccolo John ancora
in pigiama, e all’arrivo in ambulatorio il medico lo fece sedere sul lettino e
si chinò con una lente d’ingrandimento sulla mano del bambino, focalizzandosi
sulla macchia rossa che colorava il dorso dell’anulare sinistro.
Con
un sospiro affranto, si tolse gli occhiali e si stronfiò gli occhi. « È un BCE
» disse ai due genitori, che cercavano in tutti i modi di tenere calmo John in
mezzo alle sue crisi di pianto : « e anche uno precoce, riesco già a vedere il
suo SIN sotto la pelle infiammata. La mano gli fa male perché c’è un’infezione
in corso... probabilmente il nome comparirà entro le prossime due settimane.
Comincerà anche a sanguinare. Vi darò degli antinfiammatori per calmare
l’infezione e far diminuire il dolore, ma... » non aggiunse nient’altro,
scuotendo piano il capo.
Margaret
abbracciò forte il bambino, le prime luci dell’alba all’orizzonte.
Una
vita da BCE non era esattamente ciò che si era aspettata per il suo piccolo
angelo biondo.
.o0o.
Sherlock
osservò in silenzio suo fratello ricevere la piccola scatolina di velluto rosso
contenente l’anello d’argento che segnava il suo passaggio alla maggiore età.
Sua madre sorrideva, suo padre gli batteva la mano sulle spalle e gli ospiti
chiamati per il party di celebrazione applaudivano con rispetto.
Sherlock
arricciò le labbra, infossandosi ancora di più nel divano dall’altro capo della
sala.
L’anello
d’argento era più un simbolo sociale che una vera e propria utilità. Veniva
indossato al posto di quelli di metallo colorato, portati nell’infanzia per
coprire il SIN, e significava letteralmente “in cerca”. Lo avrebbe portato fino
a che non avesse trovato la sua Anima Gemella, o fino al matrimonio, momento in
cui sarebbe stato sostituito con la fede d’oro.
Non
aveva mai capito la necessità di seguire esattamente questa prassi, ma funzionava
così. E da una famiglia come la loro, con contatti sociali in ogni parte dell’Essex, ci si aspettava una certa “aderenza agli standard”.
Ovviamente
questo concetto non si applicava a lui. Sherlock non aveva bisogno di portare
alcun anello, dopotutto, dunque queste cose le aveva dovute imparare dai libri,
non gliele aveva dette sua madre (come invece aveva fatto con Mycrfot). Aveva 11 anni, certo, ma non era stato difficile
capire che sua madre preferisse Mycroft a lui.
Così
come non era stato difficile capire il perché.
«
Non vai a fare gli auguri a tuo fratello? ».
La
voce calda e baritonale di suo padre arrivò un attimo prima della sua mano
salda sulla spalla, e Sherlock sbuffò dal naso. « No » rispose semplicemente.
«
Perché? » domandò Siger, il tono calmo e, di fondo,
forse anche divertito.
«
Perché no » gli rispose il bambino, coprendo inconsapevolmente la mano sinistra
con quella destra. E Sherlock poteva aver ereditato l’incredibile intelligenza
dalla madre, ma di sicuro l’arte dell’osservazione l’aveva imparata dal padre.
«
Non vuoi perché non hai il SIN come lui? » domandò l’uomo.
Sherlock
scosse la testa. « Non mi interessa » rispose in fretta, ma aggrottò le
sopracciglia in un moto di fastidio.
Siger strinse un po’ di più la mano sulla sua
spalla. « Sono sicuro, invece, che Mycroft lo
apprezzerebbe. Lo sai che ti vuole bene, anche se non lo dice. Ha lo stesso
carattere di tua madre » commentò.
«
No che non mi vuole bene » rispose però Sherlock, chiudendosi a riccio ancora
di più: « nemmeno la mamma » aggiunse poi, allacciando forte le braccia al
petto.
Il
signor Holmes sospirò mesto. « Non dirlo nemmeno per scherzo, Sherlock. Ti
assicuro che non è così ».
«
Sì invece » ribatté però il bambino: « li vedo,
papà. È perché sono... diverso » disse, soffocando l’ultima parola in un tono
di voce più sommesso.
Questa
volta, Siger esitò un po’ prima di riprendere parola.
Osservarono entrambi Mycroft ricevere abbracci e
complimenti da tutti gli invitati sotto lo sguardo palesemente fiero e felice
di Violet, che non perdeva occasione per vantarsi
della brillante carriera scolastica del figlio e del futuro altrettanto
luminoso che lo attendeva.
«
Vedi, Sherlock... » cominciò poi: « tua madre segue un Credo molto... puritano.
È una di quelle persone che credono che la vera unione sia il Legame e che ogni
unione al di fuori di quella fra Anime Gemelle sia immorale. Conseguentemente,
fa anche parte di un gruppo di persone che credono che la nobiltà di famiglie
come la nostra scorra all’interno dei loro alberi genealogici, e che essi
debbano essere perfetti, ovvero composti solo da unioni legittime e spurie
di... rami morti » spiegò con calma,
continuando a guardare la moglie da lontano ma senza mai togliere la mano dalla
spalla del figlio minore. « Condizioni come la tua sono sviluppi prevedibili
dell’evoluzione, Sherlock. Anche se rari, sono del tutto normali. Solo che
certe persone, per quanto intelligenti, su certi argomenti faticano a vedere
oltre la punta del loro naso ».
Non
aveva mai sentito suo padre dare opinioni così sincere su sua madre, e
soprattutto non l’aveva mai fatto in confidenza con lui. Girò la testa piena di
ricci in direzione di suo padre, che rispose allo sguardo con un sorriso
sbieco.
Era
un segreto fra loro due, capì Sherlock. E ricambiò il sorriso.
«
Ora vai a fare gli auguri a tuo fratello, questa sera ti racconto dei pirati
del mare cinese » disse l’uomo, accendendo in Sherlock un brivido d’eccitazione
all’aspettativa di una nuova storia sui pirati.
Sua
madre gli aveva ripetuto molte volte che origliare era sbagliato, ma questa
volta non aveva fatto apposta.
Doveva
solo andare in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, perché la mano faceva
davvero tanto, tanto male. Non riusciva a dormire – il dito bruciava e il
cerotto era già sporco di sangue – e Harry lo aveva minacciato di colorargli la
faccia nel sonno con il pennarello indelebile se non avesse fatto silenzio;
ecco perché non poteva chiedere aiuto a lei, anche se dormiva nel letto di
fronte al suo.
Di
solito i suoi genitori erano già a letto a quell’ora, ma non era un problema.
Anche se aveva otto anni, John era abituato a cambiarsi il cerotto da solo e a
riconoscere dalla scatola quali erano le pastiglie che sua madre gli dava
sempre quando aveva male alla mano. Riusciva anche ad arrivare alla credenza
dei bicchieri – spostando la sedia e poi salendoci in piedi sopra – dunque no,
non aveva davvero bisogno dell’aiuto dei suoi genitori, né di quello di sua
sorella.
Ma
quella sera la luce della cucina al piano di sotto era accesa, e la porta
chiusa. Le voci di sua madre e di suo padre provenivano dall’interno, ovattate
ma intuibili, e rimanendo in piedi davanti alla porta con la mano sinistra
stretta forte al petto lui non poté fare a meno di ascoltare ciò che stavano
dicendo.
«
Jonathan, non è colpa sua » stava
dicendo sua madre, il tono serio ma controllato.
«
Certo, no, non è colpa sua. Ma è la terza
scuola che rifiuta l’iscrizione. Ci deve essere un maledetto motivo, perché non
riesco a pensare che sia solo perché è un Ribbon. È
un bambino, cazzo! » imprecò il padre, il tono duro di quando era
arrabbiato per qualcosa, e John sobbalzò appena alla parolaccia – perché non si
dicono le parolacce!
« Non chiamarlo
così
» intervenne subito sua madre.
«
...BCE » si corresse allora suo
padre.
Un
minuto carico di silenzio riempì la cucina e John, in piedi nel corridoio
davanti alla porta, trattenne il respiro nel timore che facesse troppo rumore.
Non dovevano scoprirlo, altrimenti si sarebbe preso una bella sgridata.
«
Quali sono le alternative? » chiese
sua madre dopo un silenzio che sembrò lungo secoli.
«
La scuola in città. Forse faranno meno
storie ».
«
È un’ora andata e ritorno, Jonathan
».
«
Lo accompagnerò finché non sarà
abbastanza grande da prendere l’autobus da solo ».
«
Non è detto che lo prendano... ».
«
Dobbiamo provarci. Non abbiamo i soldi
per la scuola privata, Maggie ».
«
Lo so... ».
«
Senti, Harriett
comincia la seconda media quest’anno. Possiamo farle cambiare scuola e
iscriverla in città. Così potrebbe accompagnare suo fratello e tu dovresti solo
portarli e andarli a prendere dalla fermata dell’autobus. Che ne dici? ».
«
Ma tutti i suoi amici, amore? Harry sta
con loro dalle scuole elementari... ».
«
Se vogliamo mandare a scuola John, è
l’unico modo. Non voglio mettere mio figlio su di una cattiva strada che è già
destinato a percorrere ».
«
John non è destinato a nessuna cattiva
strada! » urlò sua madre, e John sobbalzò per il repentino cambio di tono.
« Smetti di parlare come quegli studiosi
da quattro soldi in televisione. Tuo figlio non è un criminale, non ha ancora
fatto niente! » gridò.
«
Ma potrebbe diventarlo, Margaret, bisogna
prendere seriamente in considerazione questa possibilità! È un Ribbon, sai benissimo anche tu che la maggior parte di loro
non va a finire bene! E i problemi con la scuola sono solo una piccola parte di
ciò che ci toccherà in futuro, è ora di farsene una ragione! ».
«
Ti ho detto di non chiamarlo così! ».
La
discussone continuò, ma John non rimase ad ascoltare oltre. Aveva capito forse
metà di ciò che i suoi genitori stavano dicendo, ma il senso generale era più
che sufficiente.
Risalì
le scale in silenzio, gli occhi lucidi e pieni di lacrime che minacciavano di
rotolargli giù dalle guance, e nonostante il dolore acuto alla mano e la sete
disperata si rifugiò fra le coperte del suo letto, affondando il volto nel
cuscino.
Non
era colpa sua, se era diverso.
Non
era colpa sua.
Sherlock
si chiuse a chiave nel bagno la notte in cui suo padre morì, rifiutandosi di
aprire la porta anche quando Mycroft cominciò a
prenderla rumorosamente a pugni.
Aprì
il getto della doccia e si infilò sotto l’acqua completamente vestito, senza
dare importanza a quanto fosse fredda. Si sedette sul fondo della vasca da
bagno e, con una spugna di crine, cominciò a sfregarsi la pelle sull’anulare
sinistro.
Sfregò
con tutta la forza che aveva, fino a graffiarsi. Sfregò finché non uscì il
sangue. « Vieni fuori... vieni fuori! » pregava con voce rotta, trasformando
silenziose lacrime di tristezza in un pianto isterico dato dalla rabbia e dal
dolore.
«
Vieni fuori! » gridò disperato, ma il suo dito rimaneva, in mezzo ai graffi,
indubbiamente pulito.
Non
poteva rimanere un Bondless, non più. Non senza suo
padre.
Sua
madre lo avrebbe mandato via, lo avrebbe messo in collegio. L’aveva sentita
parlarne a suo padre, una sera, e non importava che Mycroft
dicesse di no, che non era vero, che ci avrebbe pensato lui: ora sua madre
aveva carta bianca senza suo padre a vietarle anche il solo pensiero.
Non
voleva andarsene. Non era colpa sua se quel maledetto nome semplicemente non
usciva.
Non
era colpa sua.
John
si chiuse nel bagno la notte in cui suo padre se ne andò, rintanandosi sotto al
lavandino con il disinfettante e la sua scatola di cerotti. Non chiuse a chiave
la porta, ma nessuno lo venne mai a cercare. Sua madre era fin troppo distrutta
per occuparsi di lui, e Harry semplicemente troppo arrabbiata.
Aveva
la febbre, ma era bassa e poteva facilmente ignorarla, ormai. Il dottore gli
aveva detto che la ferita sul dito poteva infettarsi spesso, dunque dargli un
po’ di febbre. Alla fine, gli veniva come minimo una volta al mese.
Lasciò
che un paio di lacrime gli scivolassero silenziosamente lungo le guance mentre
rimuoveva con attenzione il cerotto da sopra il dito, faticando un po’ dove un
lato si era attaccato sull’altro. Come sempre il suo SIN era ricoperto di
sangue secco, e con un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante lo pulì,
riportandolo alla luce. Il nome sanguinava – sanguinava sempre – e bruciava –
bruciava sempre – ma era lì, in evidenza, dolorosamente presente e rosso, vivo,
come una maledizione.
Era
per quello, per quella ferita a forma di “Sherlock”, che suo padre se ne era
andato. Che lui e sua madre avevano litigato ogni notte per più di un anno. Che
Harry aveva dovuto cambiare scuola per accompagnarlo in città ed ora non gli
parlava praticamente più.
Tutto
perché era diverso.
Era
tutta colpa sua.
.o0o.
A
scuola le sue compagne di classe passavano giornate intere a parlare di come
sarebbe stato il loro incontro con l’Anima Gemella.
Si
immaginavano in situazioni degne della peggiore soap-opera o commedia romantica
mai girata; lunghi sguardi d’intesa con il ragazzo all’altro capo della classe,
un formicolio eccitato al pensiero che possa essere lui il “Jack” giusto, quello
il cui nome risiedeva in rosso ciliegia sotto l’anello di metallo rosa. Lunghe
passeggiate e risate e, finalmente, il prendersi per mano. La scossa positiva
al contatto e la sensazione del Legame che cominciava a formarsi. Un bacio
appassionato al tramonto, il matrimonio, sei pargoli sbavanti e vissero per
sempre felici e contenti.
E
i discorsi non variavano molto sul tema. Gli facevano venire la nausea.
Dal
lato maschile della faccenda non era diverso, se non che i maschi preferivano
un approccio più “fisico”. A sentire i loro discorsi, sembravano tutti
destinati a sposare una modella di Playboy con seno prosperoso e perennemente
in costume da bagno. Non sarebbe stato di certo lui a dire loro che la maggior
parte della popolazione femminile del pianeta non arrivava ad avere fattezze da
Barbie se non sottoponendosi ad operazioni chirurgiche e usando litri di tinta
per capelli. Ridicoli.
Lui
non aveva di questi problemi. Non avendo né un nome né un anello da indossare
per coprirlo, aveva la fortuna immensa di non doversi abbassare a livello della
massa, che nel caso della sua classe rappresentava un estratto notevole di
stupidità umana.
A
volte, solo a volte, cercava di
immaginare come sarebbe stato avere un nome sul dito. Essere come tutti gli
altri. Erano quei momenti in cui i suoi cosiddetti “compagni di classe” avevano
di meglio da fare che stuzzicare il freak
–perché così lo chiamavano da dietro le spalle, facendo però in modo che
potesse sentirli chiaramente – e quindi lui veniva lasciato in pace, e poteva
passare i pomeriggi nel laboratorio di chimica saltando lezioni inutili e
ripetitive e al diavolo l’avvertimento del preside, la sua media più che
eccellente era il perfetto lasciapassare per dedicare il suo tempo a cose più
istruttive.
Era
quasi sicuro che il suo SIN, nell’ipotesi che ne avesse avuto uno, sarebbe
stato un nome maschile. I suoi 16 anni d’esperienza erano più che sufficienti
al suo quoziente intellettivo plus-dotato per capire di non poter sopportare le
femmine e i loro cambi d’umore imprevedibili. Poco importava se fisicamente non
provava repulsione – non aveva provato niente, in realtà, le volte in cui aveva
sperimentato un bacio, o vari contatti intimi, con ragazze e ragazzi a cui del
SIN non importava assolutamente niente –, il suo (modico) apprezzamento degli
altri avveniva prima di tutto a livello intellettuale, ed intellettualmente
parlando non le sopportava. Perciò un uomo.
Sarebbe
stato meno intelligente di lui, ma comunque sopra la media. La competizione lo
eccitava solo da un certo punto di vista e non avrebbe apprezzato una
competitività elevata nell’uomo con cui (seguendo le logiche sociali) avrebbe
dovuto passare la vita. Non poteva apprezzare una persona che avrebbe dovuto
sconfiggere, soprattutto dopo averla sconfitta. Avrebbe perso completamente
d’attrattiva. Quelli erano i nemici, non i compagni.
Sarebbe
stato una persona poco schizzinosa e a cui non avrebbero dato fastidio i suoi
esperimenti. Se lo immaginava anche di carattere forte, perché lui sarebbe
diventato un detective, dunque il suo compagno non poteva essere da meno e
rifiutare l’azione. Anzi, lo avrebbe quasi voluto dipendente dall’azione. Sì.
L’aspetto
fisico non era importante. Difficilmente avrebbe potuto essere più alto di lui
– Sherlock era già molto alto per la sua età – e sarebbe stato di nazionalità
inglese (anche se quest’ultima era più una sua preferenza personale).
La
realtà era che poteva immaginarsi ogni persona, ogni nome, ma nessuna di esse
sarebbe mai stato al suo fianco. Lui era un Bondless,
un Senza Legame, il che voleva dire solo una cosa.
Il
suo destino era essere solo.
John
aveva presto capito che se voleva evitare guai, doveva mentire.
Sua
madre gli aveva comprato un anello di metallo verde, uguale a quello di tutti i
suoi compagni di scuola; era a fascia, dunque abbastanza largo per coprire una
discreta porzione di dito. O un cerotto.
John
cominciò a passare almeno due giorni a settimana rifinendo con le forbici tutti
i cerotti in suo possesso, tagliandone i lati per adeguarli alla larghezza del
proprio anello. Purtroppo doveva cambiarli molte volte al giorno, dato che il
sangue li imbrattava in fretta, e per farlo doveva essere sicuro che non ci
fosse nessuno in giro, soprattutto a scuola. Per questo di solito usciva
durante le lezioni, chiedendo di poter andare in bagno, e chiudendosi in un
cubicolo si toglieva l’anello e cambiava velocemente il cerotto.
Molte
volte non bastava – si rendeva necessario anche il disinfettante, soprattutto
nei brutti giorni, in cui la ferita bruciava a causa di un’infezione (cosa
frequente per quelli come lui) – ma doveva arrangiarsi con ciò che aveva. Gli
insegnanti sapevano della sua condizione e non facevano domande, ma
fortunatamente i suoi compagni di classe ne erano all’oscuro e nell’ignoranza
sarebbero dovuti rimanere. Per il suo bene.
Evitare
di rispondere alle domande era molto meno difficile.
Il
SIN era un argomento privato che molti preferivano non discutere, se non ad un
livello teorico. Chi si rifiutava di confidarlo a qualcuno non veniva guardato
con sospetto, ma con una muta comprensione. Per certe persone il SIN era una
cosa molto intima, e lui non faceva differenza (per forza di cose).
Per
lui era più che intimo: era pericoloso. Solo una volta aveva fatto l’errore di
confidare a qualcuno di essere un Ribbon – alle
scuole elementari lo aveva detto al suo migliore amico – ma quello si era
spaventato ed era corso in lacrime dalla maestra. Non gli aveva più parlato, né
lo aveva più avvicinato, e ad un certo punto suo padre aveva ricevuto una telefonata
in cui gli dicevano che non poteva più frequentare quella scuola per via di
alcune lamentele arrivate dai genitori.
Inutile
spiegare che non aveva fatto niente (niente di male, per lo meno), suo padre lo
sapeva. Era semplicemente la maledizione dei Ribbon e
anche se Jonathan si sforzava, alla fine lo stress era stato troppo.
Alcool
e delusione vanno d’accordo. Alcool e famiglia di 4 persone un po’ meno.
Dal
momento in cui suo padre se ne era andato di casa, John aveva giurato che non
avrebbe più causato guai a nessuno. O, se ci fosse finito, che li avrebbe
risolti da solo. Loro madre era una donna in gamba, ma senza un marito e con
due figli da crescere aveva già troppo per la testa, quindi non si meritava
anche le grane che immancabilmente un figlio Ribbon
porta a casa. Si sarebbe nascosto, avrebbe finto, avrebbe mentito. Non era un
problema.
Per
questo aveva molti amici (ignari), aveva avuto alcune ragazze (ignare), faceva
parte di una squadra di rugby con un coach in gamba (ignaro) e guardava con apprensione
ai moduli per la scelta del percorso universitario da intraprendere (molti di
loro non arrivavano nemmeno a finire il liceo, figuriamoci a fare
l’università).
Ma
così come aveva sopportato bene quella bugia, per 17 anni John Watson aveva
visto ombre ed ostacoli dietro ogni angolo.
Cercava
di essere uno studente modello ma non era insolito che si trovasse immischiato
in risse di qualche tipo, anche con ragazzi più grandi. Sua sorella, a dispetto
delle sue parole d’acido sul criminale che sarebbe sicuramente diventato, aveva
cominciato ad alzare il gomito e aveva lasciato l’università ancora prima di
cominciarla, portando lei a casa i problemi che John riusciva a lasciare fuori
dalla porta. Il suo ennesimo fallimento, ovvero il non aver passato il terzo
colloquio di lavoro, non fere altro che aumentare la sua rabbia.
Non
volle sentire ragioni. E bevve.
Una
sera bevve fin troppo. Finì in ospedale a due passi dal coma etilico e John,
che era dovuto andare al suo capezzale nel cuore della notte per risparmiare a
sua madre la vista, la guardò dalla porta della camera con astio.
Persone
come Harry Watson non si meritavano di avere un’Anima Gemella.
Il
giorno del suo diciottesimo compleanno, Sherlock non ricevette un anello
d’argento.
Non
fu organizzato nessun party, e non ci fu nessun invitato e nessuna torta. Sua
madre si limitò a fargli gli auguri e a dargli un bacio sulla fronte, mentre
suo fratello gli fece arrivare un pacchetto da Londra che lui nemmeno aprì.
Non
si sentiva più a suo agio, in quella casa. Il suo posto fra quelle mura era
pian piano svanito con la morte di suo padre e dopo un’adolescenza passata
fuori casa finché poteva, e nella sua stanza per il tempo restante, ne era
sempre più convinto.
Era
conscio che sua madre mal sopportasse la sua presenza, nonostante si sforzasse
di non darlo a vedere. Probabilmente il suo istinto materno era forte,
nonostante tutto, o forse lottava contro le regole sociali tipiche del ruolo di
madre, che tuttavia non le impedivano di non farsi vedere dal figlio minore per
più di venti minuti al giorno. Mycroft era l’unico
che si sforzasse per lo meno a cenare con lui, ma da quando era partito per
frequentare l’università Sherlock aveva passato anni a tavola da solo con la
sola compagnia del telegiornale della sera.
Non
si poteva dire che l’odio non fosse reciproco.
Il
mondo di Sherlock era chiuso fra le quattro pareti della sua camera, in mezzo
alle ampolle di distillati di piante tossiche e farfalle magistralmente
catturate ed incorniciate, e lui aveva trovato nella Chimica la figura amica
che non aveva mai avuto. Troppo distante la famiglia e troppo ignoranti i suoi
compagni di classe, per non riuscire a passare sopra al fatto che lui era
diverso dagli altri (più libero di tutti gli altri).
Lui
non aveva legami, non aveva obblighi, non aveva il destino alle costole. Non si
sarebbe legato con nessuno, non avrebbe dovuto condividere la propria vita e la
propria mente con nessuno e se questo era il prezzo della libertà, non era di
certo un sacrificio. Tutt’altro.
Se
era nato per vivere solo, allora tanto meglio.
Il
giorno del suo diciottesimo compleanno, John ricevette dalle mani di sua madre
una scatolina di velluto blu contenente il suo personale anello d’argento.
Sua
madre lo aveva preso leggermente più largo degli altri – in modo da riuscire a
coprire il cerotto – ma tutto sommato era fine ed elegante, classico si poteva
dire. Ci aveva anche fatto incidere le sue iniziali ( J.H.W. sulla parte superiore, in
grafia corsiva ) e nell’insieme era il regalo più bello che John avesse mai
ricevuto.
Sapeva
che sua madre aveva speso per quell’anello più di quello che si poteva
permettere, ma nel vedere la felicità nel suo sguardo non ebbe cuore di
lamentarsene. Dopo che Harry se ne era andata definitivamente di casa, diretta
a Londra per cercare “Clara” (o almeno la ragione ufficiale era quella), vedere
sua madre sorridere poteva rendere perfetta la giornata di John.
«
Non ricopre esattamente il suo ruolo » gli disse Margaret, incorniciandogli il
volto con le mani e baciandolo su di una guancia: « per te non sarà mai una
vera e propria Ricerca, probabilmente. Ma volevo che ti sentissi come tutti gli
altri, perché non sei diverso. Sei davvero un bravo ragazzo John... quelli che
pensano per pregiudizi hanno torto » aggiunse.
John
sorrise a sua volta, abbracciando la madre e cambiandosi subito l’anello. Evitò
di mostrare per troppo tempo alla donna il cerotto bianco già macchiato di
sangue, che venne perfettamente coperto dall’anello d’argento scivolato come
acqua sul suo anulare sinistro.
«
È perfetto mamma, grazie » la ringraziò John, sedendosi a tavola quando lei si
voltò per tirare fuori la torta dal forno.
Erano
giorni come quello che lo ripagavano di tutti gli sforzi, e gli facevano
dimenticare la rabbia e l’odio che provava per quello “Sherlock” che non
avrebbe mai conosciuto, ma che comunque riusciva a rendergli la vita un
inferno.
.o0o.
Victor
aveva le mani da violinista.
Fini
dita affusolate dalla pelle leggermente scura, unghie curate e tocco delicato.
Trattava ogni cosa toccasse così come suonava il violino: con eleganza ed
assoluta gentilezza. Sfogliando la pagina di un libro, tirando fuori una
sigaretta dal pacchetto... se la delicatezza avesse avuto un nome, sarebbe
stato Victor Trevor.
Ciò
che a Sherlock piaceva, però, era che non trattava lui con la medesima finezza.
Anzi, tutto l’opposto.
Perché
Victor poteva anche avere le mani delicate, ma la sua musica era passionale,
irruenta. La prima volta che lo aveva incontrato stava suonando Mozart, il
primo movimento del Violin Concerto no.3, e dalla maestria con cui
lo stava eseguendo Sherlock aveva capito subito che non sarebbe mai stato in
grado di suonare qualcosa al di sotto di un Allegro con la medesima bravura. Le
mani di Victor erano state fatte per la precisione e la velocità.
E,
avrebbe ammesso più tardi, per rimanere sempre in contatto con la sua pelle.
Caratterialmente
era tutto l’opposto di lui. Solare ed estroverso, era talmente socievole che
pochissime persone all’interno del campus non sapevano chi fosse, o non lo
avessero saputo da altri. Studente di Fisica, non modello ma comunque con voti
molto alti, Trevor era l’esempio del ragazzo di famiglia medio-borghese
che riusciva senza fatica a trovare un posto nella vita. Di bell’aspetto, i
suoi occhi azzurri e i capelli ricci biondo-ramato lo rendevano il centro delle
attenzioni sia di donne che di uomini.
Ma
a Victor piacevano le cose strane, e per questo conobbe Sherlock.
Ovviamente
Holmes non si era fatto mancare alcune dicerie su di lui, all’interno del
campus. Voci che per lo più narravano il suo piccolo diverbio tecnico con il
professore di Chimica Organica, a cui Sherlock aveva corretto più di metà della
lezione (a ragione, persino).
Era
stato Victor ad avvicinarlo, e nonostante inizialmente Sherlock non ne volesse
sapere, con il passare del tempo trovò la sua compagnia piacevole in un modo
strano.
Piacevole
in un modo fisico, capì più tardi.
Non
c’erano molte cose che Sherlock apprezzava di Victor – al di fuori della musica
e della sua innata passione per i guai – ma una di quelle che gradiva di più
era il fatto che il ragazzo non avesse alcun tipo di pregiudizio, e che non si
affiancasse a nessun tipo di convenzione sociale. SIN compresi.
Non
aveva fatto mistero con Sherlock del proprio SIN: “Chris”. Così come non aveva
fatto battute o espressioni strane quando aveva verificato ciò che tutta
l’università già mormorava, ovvero che lui fosse un Bondless.
Aveva semplicemente sorriso – un sorriso sornione – e da sotto al tavolo aveva
allungato un piede a sfiorare la caviglia di Sherlock.
Fu
così che Holmes, al suo secondo anno di Chimica al King’s
College, scoprì il lato piacevole del sesso. Fra le mani di un Fisico
violinista di nome Victor Trevor.
Ad
entrambi piaceva sperimentare – essendo studenti di Chimica e Fisica era
immancabile – e il sesso non faceva eccezione. A volte era veloce ed irruento,
altre preceduto da lenti ed eccitanti preliminari, altre ancora seguito da
languidi baci che portavano immancabilmente ad un secondo round ma fra loro
rimase sempre e solo quello: sesso. Nonostante non credesse in tutte le
convenzioni sociali legate al SIN (come il non fare sesso con altri se non con
l’Anima Gemella, per esempio) aveva la convinzione che quel “Chris” fosse
l’unica persona che avrebbe davvero mai amato, e metteva con chiunque avesse
dei rapporti le cose bene in chiaro.
A
Sherlock non importava. Il sesso con Victor era gradevole e senza impegno e lo
distraeva per un po’ da un cervello sempre sovraccarico, dunque tanto bastava.
Poteva dire che fossero amici, esserlo anche “con benefici” era solo un’utile
aggiunta.
Le
reti del letto di Victor cigolarono rumorosamente durante le ultime spinte,
alla fine delle quali raggiunse Sherlock in un orgasmo che li lasciò entrambi
spossati. Sherlock aveva ancora indosso la camicia, Victor la maglietta e i
calzini, e prima di uscire da lui e stendersi al suo fianco gli posò un bacio
sul collo, che Sherlock non ricambiò in alcun modo.
Respirarono
profondamente – fuori sincrono – per qualche istante prima che Victor si
mettesse seduto con la schiena contro la testiera del letto, allungando la mano
verso il cassetto del comodino ed estraendone una scatola di cleenex. Ne strappò un paio e la allungò a Sherlock, che
fece lo stesso gesto, iniziando poi a ripulirsi un po’.
Una
volta terminato, sempre in silenzio, Victor raggiunse il pacchetto di sigarette
e se ne mise due fra la labbra. Sherlock osservò di sottecchi il movimento
liscio e armonico delle sue dita mentre facevano scattare l’accendino, e
l’alzarsi del suo petto quando inspirò la prima boccata di fumo. Una volta che
furono accese, ne passò una a Sherlock, che la prese con muta gratitudine.
La
nicotina dopo il sesso era anche meglio.
«
Ieri sera non era in camera » cominciò poi Victor, soffiando fuori una nuvola
di fumo grigio nella semi-oscurità della stanza, rischiarata solo dalla luce
notturna del giardino del campus. « Speravo di passare la notte da te... »
lasciò cadere nell’ovvietà del significato.
«
L’hai fatto stanotte » rispose Sherlock, facendo cadere la cenere nel
posacenere che l’altro aveva appoggiato in equilibrio sulla propria coscia.
Ma
Victor non se la bevve. « Non è questo che intendo, Sherlock » disse.
«
Allora sii più preciso, Victor » ribatté a tono l’altro.
Sherlock
sapeva dove voleva andare a parare, per questo non si stupì troppo quando
l’altro afferrò velocemente il suo braccio sinistro, sbottonando il polsino e
sollevando di scatto la manica della camicia fino oltre il gomito. Una serie di
punture rosse, alcune persino livide, macchiavano la sua pelle chiara in modo
che si potessero vedere anche in quella poca luce.
«
Sono preciso abbastanza? » domandò sarcastico il fisico, scotendogli
leggermente il braccio come per sottolineare le proprie parole. « Cos’è questa
volta? Di nuovo cocaina? Credevo che quella volta fosse solo per provare. Lo
sai quant’è pericoloso? » domandò a raffica, uno sguardo a metà fra rabbia e
preoccupazione sul viso.
Holmes,
strappando via il proprio braccio dalle mani di Victor, prese fiato. « Cocaina.
Benzoilmetilecgonina. Nomenclatura IUPAC:
Metil-3-benzoilossi-8-metil-8-azabiclico-octan-2-carbossilato. Formula bruta:
C17H21NO4. Alcaloide. Metabolismo epatico, un’ora di emivita. Dose massima compresa
fra 1 e 1,5 milligrammi per chilogrammo di peso corpor–
».
«
Va bene, va bene, basta! Ho capito, hai fatto i compiti. Cosa vorresti
dimostrare? » lo interruppe Victor, ancora arrabbiato.
Sherlock
continuò a fissare il soffitto. « Che sono completamente cosciente di quello
che sto facendo, Victor. Non c’è pericolo che la situazione sfugga al mio
controllo e sai benissimo che in quanto a igiene sono impeccabile » gli spiegò.
Trevor
arricciò il naso. « Sì, lo so » dovette ammettere: « ma ciò non vuol dire che
mi piaccia... » aggiunse, il tono amaro nel tornare a fumare la propria
sigaretta in silenzio.
Sherlock
rimase in silenzio per qualche minuto, gli occhi puntati e fissi sul soffitto,
la sigaretta che si consumava da sola fra le sua dita. Solo dopo prese di nuovo
parola, infrangendo il silenzio caduto fra loro.
«
Aiuta » disse.
Victor,
spegnendo il mozzicone nel posacenere, lo guardò con la coda dell’occhio. «
Cosa aiuta? » domandò.
«
Il caos » rispose Sherlock: « qui dentro » specificò, alzando la mano per
battersi un indice sulla tempia.
Poté
quasi vedere Victor aggrottare la fronte anche senza guardarlo direttamente in
faccia. « Scusa Sherlock, ma non ci arrivo » disse infatti quello, confuso.
Holmes
sospirò. « Infatti... » commentò solamente, spegnendo a sua volta la sigaretta
e voltandosi sul fianco, dandogli le spalle.
Se
il destino avesse voluto che Victor capisse,
avrebbe avuto il suo nome tatuato sul proprio anulare sinistro.
John
aveva già capito che la sua convocazione nell’ufficio del professor Hardman, insegnante di Oncologia Medica, non era
strettamente attinente al suo programma di studi, né all’esame che si sarebbe
svolto la settimana successiva. Così come non aveva sicuramente a che fare con
la sua borsa di studio, dato che i suoi voti soddisfacevano i requisiti per il
mantenimento della stessa lungo tutto l’anno accademico. La sua carriera
scolastica era a posto.
Pensò
a cos’altro potesse essere mentre aspettava nel corridoio, in piedi accanto
alla finestra che dava sul cortile interno. Non gli veniva in mente niente.
Escluso
tutto, rimaneva solo una cosa.
Sperava che non si trattasse di ciò che temeva. Lo sperava davvero.
«
Venga avanti, Watson » sentì il professore chiamarlo.
John,
prendendo un profondo respiro, entrò e si chiuse la porta alle spalle.
Hardman non era di certo un giovanotto, ma per
essere già responsabile di un corso di studi non era nemmeno anziano. Si
portava molto bene i suoi sessantacinque anni, probabilmente grazie allo stile
di vita sano che solo un medico zelante è in grado di mantenere con costanza (a
volte lo vedeva fare jogging al mattino presto, passando davanti all’entrata
dell’università). I capelli brizzolati e folti erano elegantemente pettinati
con una riga a tre quarti sulla destra e i suoi occhi, di un particolare colore
verde, non perdevano attrattiva da dietro le spesse lenti degli occhiali da
vista.
Seduto
alla sua scrivania, gli indicò una delle due sedie posizionate di fronte ad
essa. John, con un breve cenno del capo, si sedette.
Hardman sospirò, lasciando perdere i documenti
che aveva davanti al naso e massaggiandosi la radice del naso con due dita. Una
sola occhiata bastò a John per capire che il fascicolo aperto fra loro, sul
ripiano eburneo, era proprio il suo.
Deglutì
silenziosamente mentre il professore cercava le parole.
«
Sai John, prima di diventare professore ero un medico praticante, dunque ho
dato molte brutte notizie a tanta gente. Dicono che per fare gli oncologi non
bisogni provare troppa empatia per il paziente, ma in realtà non è così.
L’empatia serve, quando dici ad una persona che sta morendo lentamente e che il
suo corpo la sta tradendo a passo di marcia » disse, prendendo una breve pausa
prima di continuare: « dunque mi capirai se mi permetto del tempo, per esporti
il problema che il Consiglio Universitario mi ha irruentemente fatto notare
solo ieri, e che riguarda te » aggiunse.
Non
era per niente confortante. Il Consiglio si riuniva davvero e al completo solo
per discutere casi importanti, che la maggior parte delle volte riguardavano
una sicura espulsione.
L’hanno scoperto, cominciò a
pensare senza poterselo impedire. L’hanno
scoperto, l’hanno scoperto, l’hanno scoperto.
Inconsciamente,
si stuzzicò con il pollice l’anello d’argento.
«
È stato sottoposto alla mia attenzione, così come a quella di tutto il
Consiglio, la tua domanda di iscrizione alla facoltà di Medicina e Chirurgia.
Inizialmente non ci vedevo assolutamente nulla di male: il format era compilato
nel modo giusto, il test d’ammissione superato con ottimi voti, la domanda per
la borsa di studio accettata senza problemi. Ai miei occhi, anche sulla carta,
eri un perfetto studente di Medicina. Poi mi è stato allungato questo... » e,
detto ciò, gli mise davanti un foglio bianco con al filigrana dell’Ufficio
Anagrafe. Era una fotocopia, ma un timbro in inchiostro blu e la firma del
funzionario addetto lo etichettavano come fotocopia riconosciuta del relativo
documento ufficiale.
In
giallo, era evidenziata una sola riga.
S.I.N. : Broken
Connection Entity (“Sherlock”)
John
non disse una parola. (L’hanno scoperto.)
Hardman sospirò. « Sei stato sfortunato. La
London University raramente fa controlli a tappeto
così radicali sui suoi studenti. Ma date le nuove statistiche in circolazione
sui BCE, quest’anno sono stati adottati metodi più radicali » spiegò.
John
rimase ancora in assoluto silenzio. Si limitava a guardare quella maledetta
riga evidenziata in giallo e sperava, in cuor suo, che il Karma dell’universo
restituisse a “Sherlock” i ventitre anni di merda che lui aveva dovuto subire.
Dopo
alcuni istanti di silenzio, il professore riprese parola. « Devo chiederti di
toglierti l’anello, John ».
Non
che non se lo fosse già aspettato. Aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene
ancora prima di varcare la soglia dell’ufficio. Si era sentito in colpa subito
dopo aver barrato la casella “SIN positivo – in cerca” della domanda
d’ammissione, quattro anni prima. Aveva sperato solo che il contraccolpo
sull’orgoglio non fosse così terribile come lo dipingeva mentalmente...
Ma
era anche peggio. Si vergognava come un ladro, più di un ladro, e si tolse l’anello dal dito come un condannato
alla sedia elettrica che vorrebbe scusarsi con le vittime del suo sbaglio ma
non può. Allungò la mano verso il professore, cerotto bianco in bella vista, ma
non provò nemmeno ad alzare lo sguardo per vederne la reazione.
Quel
gesto fu accolto dal silenzio.
«
Deve fare male... » mormorò poi il professore, e John si stupì nel sentire una
vena di dispiacere nella sua voce calda.
Dipende da cosa
intende,
pensò subito John, ma la risposta che diede fu differente. « Continuamente »
sussurrò.
«
Prendi degli antidolorifici? » domandò quello.
Watson
annuì. « Paracetamolo alternato all’Ibuprofene. Nimesulide quando fa infezione » rispose.
Quello
annuì. « Perché hai mentito, John? » domandò poi.
Watson
non rispose subito. Cercò di pensare alle parole giuste da dire per non
sembrare una povera vittima, ma dal suo punto di vista non aveva alcuna
argomentazione che non lo facesse diventare tale. Optò per la sincerità.
«
Alle elementari un mio compagno di classe disse alla maestra che sua madre gli
aveva detto una bella cosa, la sera precedente. “Matt, se lo vuoi e ti impegni,
puoi fare qualsiasi cosa”. Credo che ogni genitore dica più o meno le stesse
parole al proprio figlio, una volta nella vita » cominciò a raccontare. « Mia
madre non lo ha mai fatto. Ma non perché non fosse premurosa, piuttosto perché
non voleva illudermi con delle false speranze. La verità è che se anche mi
impegno, io non posso fare ciò che voglio perché ci sarà sempre qualcuno che me
lo impedirà ».
Alzò
gli occhi per incontrare quelli dell’oncologo che lo guardava con attenzione,
le mani incrociate e appoggiate alle labbra, i gomiti sul ripiano della
scrivania.
«
E tutto per questo » aggiunse John,
alzando la mano sinistra. « Volevo fare il medico perché è un mestiere nobile.
Se avessi cominciato a curare le persone, e lo avessi fatto bene, probabilmente
la gente avrebbe smesso di giudicarmi per pregiudizi e mi avrebbe riconosciuto
i meriti del caso. Senza giustificazioni, senza distinzioni, senza dubbi. Ma
sono poche, se non inesistenti a livello di pratica, le facoltà universitarie
aperte ai Ribbons, e Medicina non è una di quelle. Ho
mentito per avere una possibilità. Per avere la possibilità che hanno tutte le
persone normali » disse, con la voce
ora piena di rabbia.
Non
diede tempo al professore di dire qualcosa, perché continuò, gli occhi
assottigliati dal risentimento. « I giornali non fanno altro che sparare numeri
sui Ribbons, declamando su come continuino ad
aumentare i crimini ad opera loro. L’opinione pubblica è talmente concentrata
su queste statistiche che evita di elencare quanti sono i crimini commessi
dalle persone che non sono Ribbons, e si fidi se le dico che non sono pochi, li ho
contati. Ci guardate con diffidenza solo per via di queste cifre, ma provi a
mettersi nei nostri panni. Provi a crescere sapendo che quel nome sul dito,
quello che non smette mai di sanguinare e continua a bruciare, probabilmente è
la prova del fatto che l’unica persona che ci avrebbe davvero amati ha deciso
di rifiutarci. E non si sa nemmeno quando, esattamente, o perché. Provi ad
immaginare cosa significa sentirsi solo in mezzo alla gente. E noi così ci
cresciamo. Peggio ancora: diventiamo grandi sotto gli sguardi diffidenti degli
altri, continuamente bombardati dalle parole “mi dispiace ma non può”. Non c’è
da stupirsi se arriviamo ai trent’anni con la voglia non solo di vedere il
mondo bruciare, ma di alimentarne le fiamme con la benzina » terminò,
stringendo forte i denti per impedire all’ira di sovrastarlo. Aveva chiuso le
mani a pugno durante il discorso ed ora le unghie stavano lasciando solchi
profondi sui suoi palmi.
Il
professore non disse nulla per lunghi minuti, limitandosi a guardarlo
attentamente. Forse stava cercando le parole adatte ma non esistevano, non
erano mai esistite. Contavano solo i fatti, e Hardman
puntò subito su quelli.
«
John, questo ateneo ti riconoscerà gli anni di studio intrapresi e tutti gli
esami già sostenuti » disse.
John,
colto alla sprovvista da un moto di sorpresa, sgranò gli occhi.
Hardman continuò. « Purtroppo non posso cambiare
le regole dell’ateneo. Il Sommo Rettore ha già dato ordine di certificare la
tua espulsione, ma sono riuscito a convincere il Consiglio a riconoscerti ciò
che avevi già guadagnato. Sei uno dei miei studenti migliori, e uno dei
migliori dell’intero corso, non mi importa che tu sia o meno un BCE. Quei voti
te li sei guadagnati impegnandoti quanto e forse più degli altri, dunque te li
meriti » sentenziò.
John
boccheggiò, indeciso su cosa dire, ma l’oncologo lo batté sul tempo.
«
La London University riconoscerà i primi quattro anni
del corso di laurea in Medicina e Chirurgia come premio alla costanza e
all’impegno dimostrati. Ti verranno riconosciuti tutti gli esami, anche se ti
verrà aggiunta una nota di demerito per aver dichiarato il falso in sede
d’ammissione. A patto... » esitò: « ...che tu continui i tuoi studi
all’Accademia Militare » disse infine.
John
aggrottò le sopracciglia, l’espressione dubbiosa. « Nell’esercito? » domandò,
stranito.
Hardman annuì. « Nella RAMC non fanno differenze.
Se sei meritevole di proteggere la Corona, diventi un soldato uguale a tutti
gli altri. Lì la pratica medica, nonostante sia limitata alla chirurgia di
primo soccorso, è aperta a chiunque abbia i requisiti giusti per impararla e
metterla in pratica sul campo di battaglia. E tu li hai » disse.
Non
era diverso dall’entrare nei militari autonomamente. Era storia risaputa che
l’Esercito non facesse differenze – come potevano, con una guerra in corso in
Medio Oriente? – e alla fine la RAMC finiva comunque per essere l’ultimo porto
salvo in cui i Ribbons, i Bondless
e i pochi che davvero volevano fare
carriera militare andavano a finire. Quella precisazione era più che altro un
consiglio, perché nessun’altra università l’avrebbe ammesso, nonostante il
riconoscimento degli esami e dei 4 anni già frequentati.
Alla
fine, vinto dalla sorte, annuì e accettò l’offerta.
Per
lo meno, sperava, come militare sarebbe valso qualcosa.
E
se davvero esisteva un Dio, la sua preghiera era che gli piantasse una
pallottola in mezzo agli occhi il prima possibile.
.o0o.
Voleva
andare oltre.
Superare
i limiti.
Gli
esperimenti potevano essere replicabili ma le scoperte, quelle vere, avevano la
loro percentuale di rischio. Ogni grande scienziato aveva superato la linea di
guardia, il confine fra buon senso e ignoto; era questo che li aveva resi grandi: avevano rischiato.
Quello
non era esattamente un esperimento. Non stava cercando di dimostrare niente.
Era un rimedio per sconfiggere la noia, il tedio, ogni piccola cosa che lo
assillava. Il passato che aveva lasciato, un presente senza forma concreta. Un
futuro che non riusciva a vedere chiaramente. Era una fuga in silenzio.
Era
adrenalina, sangue, estasi. Un’ora di pura perfezione assoluta. Tanti spilli
nel cervello come aghi che stimolavano i punti giusti, che obnubilavano i
concetti senza importanza, che gli facevano spalancare gli occhi su una realtà
che vedeva già meglio degli altri per permettergli di osservarla fino nelle
viscere, di carpirne la struttura che la sorreggeva. Tutto quanto usando solo
una siringa ipodermica e un laccio emostatico.
Ma
fu un attimo. Forse capì che qualcosa era stato storto, forse si pentì della
scelta di ignorare le dosi, di provare quei pochi milligrammi in più con la
convinzione di essere ormai assuefatto, abituato, di poterne reggere ancora un
po’, quel tanto da fargli penetrare il senso stesso delle cose fin dentro gli
atomi che le compongono.
Vedeva
la pelle delle proprie dita sciogliersi e lasciare scoperto l’osso. Sentiva il
dolore dell’acido invisibile che la corrodeva. Ne avvertiva persino il suono,
lo sfrigolio sinistro, l’odore di carne cotta, carne umana, e per quanto
gemesse ed urlasse l’acido non si fermava, e saliva, mangiandosi strati di
epidermide e carne, prima sui polsi, poi sulle braccia...
Allucinazioni,
una parte del suo cervello riuscì a dirgli. Visive, uditive, olfattive. Probabilmente
le ultime due erano un estremo tentativo del suo cervello di compensare l’iperstimolazione sensoriale. Effetti collaterali della
sostanza psicotropa iniettata in vena solo pochi istanti prima.
Sulla
corsia preferenziale intra-venosa, sparata dritta dritta
verso il cervello.
Capì
di essere andato in overdose solo quando aprì gli occhi e ciò che vide fu il
drappo di un letto a baldacchino.
«
Credevo che non potessi cadere più in basso di così ».
Una
voce arrivò dalla sua destra, dalla finestra che dava su di un cielo notturno
prossimo all’alba. Aveva riconosciuto la casa dall’odore, e riconobbe quella
voce dal tono.
«
Mycroft... » gracchiò, la gola secca e dolorante.
Quello
non diede nemmeno segno di averlo sentito. « Ho voluto credere che lasciare
l’università senza laurearti, dopo aver passato tutti gli esami con voti
perfetti, fosse la fine della tua “età della ribellione”. Ho voluto confidare
nel fatto che come vendetta ti bastasse, che il tuo occasionale lavoro come
consulente per l’Ispettore Lestrade fosse sufficiente
a catalizzare la tua buona volontà. Probabilmente mi sbagliavo... » disse.
Un
attimo di silenzio, poi l’aggiunta: « io mi preoccupo per te, Sherlock ».
Sherlock
non rispose se non con una risatina ironica appena soffiata.
Mycroft ignorò la sua reazione e tutti i
significati che metteva in evidenza. « Da oggi sei sotto stretta sorveglianza.
Rimarrai qui finché non avrai concluso la terapia riabilitativa. I tuoi farmaci
sono sul comodino ».
Senza
aggiungere una parola, Mycroft Holmes, in camicia e
vestaglia da camera, si staccò dalla finestra e camminò a schiena dritta verso
la porta. Si fermò solamente sull’uscio, osservandolo con la coda dell’occhio.
«
Io ci tengo a te, Sherlock. Che tu ci creda o no » gli disse, uscendo e
chiudendosi la porta alle spalle.
Sherlock,
rigirandosi su di un fianco, chiuse gli occhi esausti e sospirò.
Chissà
perché non riusciva a crederci.
Fece
a malapena in tempo ad entrare nei bagni e a trovare un cubicolo vuoto.
Rigettò
tutto ciò che aveva mangiato, con spasmi violenti allo stomaco e alla gola, e
dovette aggrapparsi al water a causa di un forte giramento di testa. Le
targhette tintinnarono fra la pelle e il tessuto verde della maglia, madida di
sudore freddo sulla schiena.
Sentì
la porta dei bagni aprirsi giusto prima che un altro conato di vomito lo
investisse di nuovo.
«
Doc, tutto bene? » la voce del sottotenente Tony
Monroe echeggiò appena nella stanza vuota, acquisendo una nota quasi metallica.
John
sputò, poi tirò lo scarico e si lasciò crollare a terra, la schiena contro la
parete in plastica del cubicolo. Si sentiva improvvisamente senza forze. «
Sì... sì, bene » rispose, abbandonando le mani sui pantaloni della mimetica: « dev’essere il cibo tradizionale afghano » ipotizzò.
Sentì
l’altro appoggiarsi al muro di fianco alla porta, in attesa. « Mangiamo quella
roba tutte le sere da anni e non ti ha mai dato fastidio. A me sembra più una
Risonanza » disse quello, il tono tranquillo da chi sa cosa dice.
John
roteò gli occhi sotto le palpebre chiuse.
Veniva
chiamata “Risonanza” la speciale capacità di una coppia già Legata di poter
percepire i forti sentimenti l’uno dell’altro. Nel caso che uno dei due avesse
un grave incidente, o si ammalasse di una malattia molto grave, o comunque
affrontasse una situazione che causava una gran sofferenza fisica, l’altro
individuo della coppia poteva arrivare a subirne gli effetti attraverso vari
tipi di malessere (più spesso nausea o febbre).
«
Sai bene che per me è impossibile » gli rispose John, trattenendo il fiato al sentore
di un altro attacco.
«
Sarà... » rispose quello, e John poté quasi vederlo fare spallucce.
«
Non è possibile scientificamente »
precisò John: « dovresti saperne qualcosa in qualità di Bondless
».
«
Ehi, anche se non ho un nome sul dito io credo nell’amore, amico » ribatté
quello, e John scosse piano il capo alla filippica che l’altro cominciò sul
fatto che se il Legame è vero rimane indissolubile nonostante le apparenze.
«
E poi tu ce l’hai un nome, sul dito, dunque non è totalmente impossibile »
terminò l’altro.
Watson
sospirò, gli occhi chiusi. « È un ricevitore vuoto, Monroe. È impossibile ».
.o0o.
Il
dolore, simile ad un’ondata di marea, arrivò solo dopo, quando già era a terra.
Partì
dalla spalla e si espanse in tutto il petto, facendo tremare le braccia e
rimbombandogli in testa. Aveva fiato sufficiente per un solo gemito perché il
dolore era semplicemente troppo, tanto da non permettergli nemmeno di prendere
aria per urlare.
Strano.
Aveva visto tanti soldati con ferite d’arma da fuoco prima ma nessuno, nessuno si era risparmiato di svuotare i
polmoni in urla che andavano dal delirante all’isterico.
Lui
sarebbe morto in silenzio. Tanto meglio.
«
Watson! ».
Sentiva
la sabbia sotto di lui, tutto intorno voci e urla e gemiti e colpi di pistola,
di mortaio, di mitraglietta. Tutto lontano, distante, ovattato. Gocce di sudore
freddo gli rigavano le tempie e gli incollavano la mimetica alla pelle – dove
non ci pensava già il sangue a farlo, per lo meno.
«
John! ».
«
Chiamate un medico! ».
«
Medico! MEDICO! ».
«
Johnny, Johnny siamo qui, resta con noi! ».
Voleva
alzare la mano per toccare la ferita, sentire quant’era profonda, dove era
stato colpito esattamente... voleva dare una mano alle sagome sfocate ed
indistinte chine sopra di lui – i suoi commilitoni, lo sapeva, ma grosse
lacrime gli appannavano gli occhi e lui aveva paura di chiuderli e non
riaprirli mai più – dire loro cosa fare, dove premere, di controllare se era
stato colpito in punti vitali, se il proiettile era passato o no, se era ancora
dentro... ma il suo braccio era pesante, la mano era pesante, la sua testa era
pesante. Anemia. Probabilmente la succlavia, considerato quanto... quanto tempo
era passato?
«
Strappala, strappa la camicia ».
«
Cristo... Cristo quanto sangue... ».
«
Monroe, se devi sentirti male fallo altrove! ».
«
Johnny resisti, ok? Il dottore sta arrivando, hanno chiamato un mezzo di
trasporto. Ti porteranno via da qui. Ti tiriamo fuori da questo inferno, stai
tranquillo, ok? ».
«
Cristo... Oddio, Cristo... »
«
La morfina, datemi la morfina dei vostri kit medici! ».
Le
sagome si affaccendavano attorno a lui, mani sporche di sabbia e polvere
premevano forte sulla sua spalla sinistra, che faceva un male fottuto ma lui
non poteva comunicarlo perché non aveva aria abbastanza, solo a malapena per
fare piccoli respiri fra i denti serrati.
Non
voleva davvero morire ma era così che sarebbe finita. Da in mezzo alle teste
sempre più sbiadite, sempre più somiglianti a delle ombre, uomini che gli
sembrava di conoscere ma non sapeva più dirlo con esattezza, John guardò il
sole.
Dicono
sempre che prima di morire ti passa tutta la vita davanti, ma non è affatto
così. Non pensi assolutamente a niente. La tua vita smette di esistere. C’è
solo un eterno presente racchiuso in un battito di lancetta dilatato
all’infinito e l’unica cosa che il tuo cervello è in grado di formare davvero è
una supplica.
Per favore, Dio,
fammi vivere.
Riaprì
gli occhi quando un brivido freddo e violento gli corse lungo la schiena,
facendogli tremare i muscoli. Riconobbe la sensazione come quel fastidioso
galleggiare indefinito di quando gli veniva la febbre alta.
Aprì
piano gli occhi, accecato dai fari e dalle luci d’emergenza della pattuglia
esattamente davanti al parabrezza. Lui stesso sembrava steso sul sedile di una
macchina della polizia, una borsa del ghiaccio appoggiata sulla fronte e
avvolto – con cappotto e tutto – in una coperta arancione.
Arricciò
il naso. « Ancora una di queste...? » biascicò, senza però togliersela di
dosso. Aveva freddo, tanto per gradire.
«
Ne porto sempre una nel bagagliaio » rispose una voce al suo fianco, al posto
di guida: Lestrade: « come stai? » domandò.
Ma
Sherlock ignorò la domanda. « Cos’è successo? » chiese invece. L’ultima cosa
che ricordava era che stava analizzando un cadavere in una via secondaria di Bayswater, poi il vuoto.
«
Sei svenuto » lo informò Lestrade: « all’improvviso,
senza preavviso. Ti sei interrotto su uno dei tuoi elogi alla stupidità di
Anderson e del Reparto Analisi Scientifiche e nel giro di due secondi hai perso
conoscenza » spiegò.
Holmes
emise un mugugno seccato. « Stavo bene prima » disse.
«
Sembrava anche a me » annuì Lestrade.
Sherlock
scostò la coperta quel tanto che bastò per farne uscire la mano, poi si tolse
l’asciugamano bagnato dalla fronte. « La scena del crimine? ».
«
Hai raccolto elementi a sufficienza, tranquillo. Il cadavere è già stato
portato via, la Scientifica sta finendo il repertamento
» gli rispose Greg.
Sherlock
scosse il capo, scontento, ma il mondo girò troppo in fretta per i suoi gusti.
Dovette richiudere gli occhi.
«
Non mi chiedi se mi faccio? Dopotutto mio fratello ti ha eletto a mio tutore personale, no? » disse poi
Sherlock, arricciando il naso in una smorfia di disgusto al sottolineare con la
voce le due parole.
Lestrade sospirò. « Senti, faccio solo quello che
tuo fratello mi dice di fare. E non sono il tuo tutore. E no, so che non ti stai facendo » disse.
Sherlock
capì subito dove voleva andare a parare. « Non mi hai mandato all’aria l’ordine
dei calzini come l’ultima volta, spero ».
«
Non sto attento ai tuoi calzini durante una retata antidroga, mi dispiace »
ribatté Lestrade. « In ogni caso, sei sicuro di
sentirti bene? Vuoi andare in ospedale? » chiese.
Sherlock
aggrottò le sopracciglia, scuotendo poi il capo in senso negativo.
«
Sai almeno cosa possa essere stato? » insisté lo Yarder.
«
Ho due teorie » cominciò Sherlock, aprendo la mano sinistra davanti a sé in
modo da poter vedere il dorso del dito anulare: « una delle quali è impossibile
».
Lestrade non era uno stupido, e capì a cosa si
riferiva. « Una Risonanza? » chiese conferma.
Holmes
annuì.
Rimasero
in silenzio per lunghi minuti, ognuno perso nei suoi pensieri, finché non fu di
nuovo Greg ad interromperlo.
«
Potrebbe essere invece » affermò.
Il
sopracciglio di Sherlock si alzò di propria spontanea volontà in un’occhiata
piena di scetticismo.
«
Le leggende, sai? Quelle sui Legami talmente forti e puri da essere
indissolubili nonostante le apparenze. Magari hai un Legame che trascende i
secoli e le reincarnazioni e ora ne senti gli strascichi » disse.
Sherlock
fece schioccare la lingua contro il palato. « Non dire assurdità Lestrade. Sono un Bondless.
Niente SIN, niente Legame » sbottò seccato: « è un semplice quanto seccante
principio d’influenza. Adesso portami a casa, se non ti dispiace ».
Greg
sospirò e, preferendo il silenzio ad una discussione senza capo né cosa, accese
il motore della pattuglia e cominciò a guidare verso casa di Mycroft, in cui Sherlock era ancora ospite (anche se non lo
sarebbe rimasto ancora a lungo).
Guardando
fuori dal finestrino, Sherlock si sfregò involontariamente il dorso
dell’anulare sinistro da sotto la coperta.
No,
là fuori non c’era nessuno con il suo nome sul dito. Non poteva.
Quando
nasci per essere solo le regole sono regole, e sono quelle.
.o0o.
A
volte è semplicemente troppo.
La
pressione, le aspettative, la delusione che ne segue.
Sono
troppe le cose a cui pensare, troppi i problemi che ti affliggono, troppi gli
sguardi che incontri e che prima non avresti notato.
La
sua mano tremava. La sua gamba era diventata di sua iniziativa un arto
completamente inutile. Il suo dito doleva come se dovesse staccarsi dalla mano.
La spalla lanciava fitte dolorose ogni volta che muoveva male il braccio. Era
un ex-soldato scartato dalla RAMC solo perché gli era stato diagnosticato un
disturbo da stress post-traumatico che era incredulo di possedere. Un’entità
solitaria che si aggirava per Russel Square senza più uno scopo né speranza, in cerca di
qualcosa che non sapeva che forma avesse, o cosa fosse.
Un
eterno presente che non sfociava su alcun futuro.
«
John? ».
Era
diventato la personificazione dell’inutilità.
«
John Watson? ».
Sentì
una voce chiamare il suo nome solo dopo, quando tornò ad afferrare quella
realtà da cui la mente era fuggita. Si voltò in direzione dell’uomo che lo
aveva apostrofato, appena alzatosi da una panchina che lui non aveva nemmeno
visto pochi istanti prima, e se anche la famigliarità di quel volto gli fece
scattare qualcosa, non fu sufficiente per fargli davvero capire chi fosse.
Risolse
l’altro. « Stamford. Mike Stamford, eravamo insieme al Barts
».
Ecco
chi era.
«
Sì, scusa, sì. Ciao, Mike » disse allora, stringendo la mano che gli veniva
offerta dall’uomo in trench e occhiali. Se lo ricordava, durante il tirocinio
del terzo anno di Medicina.
Certo
che era ingrassato.
«
Sì, lo so, sono ingrassato ».
Appunto.
«
No, no... » negò in un soffio, palesemente falso, ma Mike decise di sorvolare.
Ovviamente
nella direzione sbagliata. « Ho sentito che eri all’estero da qualche parte, e
che ti hanno sparato. Cos’è successo? » gli domandò.
«
Mi hanno sparato » disse solamente lui, come se fosse ovvio e non volesse
aggiungere nient’altro. Mike non rispose.
Rivedere
un vecchio amico era sempre meglio che girare per Londra senza avere la minima
idea di cosa fare, così presero un caffè e si sedettero sulla panchina in cui
si era accomodato Mike poco prima. Era evidente Stamford non avesse idea di
cosa dire – pochi davvero sanno di cosa parlare di fronte ad un ex-soldato
zoppo con l’aria di uno che potrebbe buttarsi dal London Bridge prima di sera –
così fu John a trovare qualcosa di “innocuo” da dire.
«
Allora, sei ancora al Barts? ».
«
Ora ci insegno. Ci sono giovani brillanti, proprio com’eravamo noi, una volta. Dio,
li odio! » ironizzò.
John
ridacchiò per riflesso.
«
Tu invece? Resti in città finché non trovi qualcosa da fare? » gli chiese poi
Mike.
«
Non posso permettermi Londra con la pensione dell’Esercito ».
«
Nah, non sopporteresti di stare da nessun’altra parte.
Questo non è il John Watson che conoscevo! » esclamò Stamford, forse per
tirarlo un po’ su di morale, forse per fare una battuta.
Non
fece altro che farlo scattare. « Sì, non sono più il John Watson che
conoscevi... » rispose, ma fu incapace di pronunciare la frase per intero, che
divenne un sussurro inudibile. La sua mano tremò di nuovo e lui aprì e chiuse
le dita, sperando che il tremore passasse prima che Stamford se ne accorgesse.
La
situazione era già abbastanza tesa senza che l’altro lo compatisse anche per
quello.
«
Harry non ha potuto darti una mano? » gli chiese poi.
John
lasciò andare una risata amara. « Come no, non accadrà mai ».
«
Non lo so... perché non ti cerchi un coinquilino, o una cosa del genere? »
ipotizzò poi.
«
Oh, andiamo. Chi mi vorrebbe come coinquilino? » rispose lui, scettico.
Mike
rispose con una risatina divertita.
John
aggrottò le sopracciglia. « Cosa c’è? ».
«
Sei la seconda persona che me lo dice, oggi ».
Se
Watson fosse stato una persona meno curiosa, probabilmente avrebbe lasciato
correre o avrebbe ridacchiato per la coincidenza avvenuta nella vita di
quell’uomo nell’arco delle ultime ventiquattr’ore. Se
fosse stato davvero disperato, non gliene sarebbe fregato niente e non avrebbe
fatto la domanda che, effettivamente, fece.
Col
senno di poi, il fatto che non si fosse ancora arreso cambiò tutto.
«
Chi è stato, il primo? ».