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Autore: Snehvide    27/02/2013    7 recensioni
Mycroft Holmes è un gatto.
O almeno, questo è quel che crede di essere.
Un grosso gatto rosso con le palpebre a mezz’asta e un debole per la poltrona del padre.
Ha sei anni, compiuti da poco.
Sarà piccolo come umano ma, come gatto, può già tranquillamente considerarsi un felino maturo.
L’impeccabile contegno che dimostra quando gli adulti, rapiti dagli eccezionali contenuti della sua testolina rotonda, si profondono in una serie di pompose adulazioni è insolito, fuorviante.
Ancor di più è riconoscere come non ci sia niente di più genuino di quella compostezza.
Non è frutto di modestia o timidezza come in un primo momento potrebbe sembrare, no.
E’ educazione. E’ etichetta.
E’ il comportamento che qualsiasi gatto degno di questo nome adotterebbe.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Mycroft Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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吾 輩は猫である

Wagahai wa neko de aru

(Io sono un gatto)

 

 

Mycroft Holmes è un gatto.
Un gattone che ha imparato ad ottimizzare al meglio le risorse fruibili dagli altri.

 

Durante la giornata non si vede, non si sente, e la gente pensa non sia lontano il giorno in cui l'arredamento lo reclamerà come parte integrante di esso.

 

Dona alla casa l'aspetto di una cartolina di Natale stilizzata.

La quiete e l'atmosfera di nostalgica serenità che vi si può rimirare intorno è la stessa.

Espleta la sua vita nella più completa autonomia e non vi trova nulla di così triste nel fatto che gli altri intorno a sé tendano a dimenticarsi della sua presenza, anzi: è più conveniente di quanto le loro piccole, normodotate menti possano immaginare.

È stato testimone di gesti e conversazioni decisamente insolite (la vecchia bambinaia  sorpresa a rubare l'argenteria proprio sotto ai suoi occhi, per citare il più significativo) che hanno comportato benefici a lungo termine e traguardi altrimenti invalicabili (niente più bambinaie da accudire).

 

Ma lo slancio con cui corre verso la mamma quando dalla cucina cominciano a provenire i primi rumori delle stoviglie compensa ogni mancanza, e ricorda ai presenti che in fondo, la casa è ancora viva; e che lo strano bambino-gatto che vi abita dentro non si è ancora fuso del tutto con la tappezzeria.

 

Da un paio di mesi a questa parte, quando la cena sta per esser servita, nei suoi occhietti grigi brilla una luce nuova.  La madre non lo sa, ma è lei la causa di tanta eccitazione.

Il suo pancione ha cominciato a vedersi anche sotto strati e strati di stoffa, ma è già da un po' che tende a raddoppiare le proprie porzioni di cibo.  Inavvertitamente, fa lo stesso anche con quelle degli altri.

Dal momento in cui l'impalpabile esistenza di suo fratello è stata resa nota, in casa regna un'atmosfera differente.

E Mycroft ne è felice.

Grazie a lui, la mamma non va più al lavoro.
Le sue giornate sono scandite da un lento ping-pong che la vede muoversi dalla camera da letto alla cucina, dalla cucina alla camera da letto.

Mangia cibo malsano capace di mettere in dubbio la sua capacità olfattiva, ascolta alla radio programmi di discutibile utilità e, adesso che non ha più le nausee, la si può scorgere per la maggior parte del tempo di buon umore, sempre pronta a distribuire sorrisi dolci come le caramelle di cui profuma.

 

Mycroft, Mycroft.’

 

Cantilena leziosa, mentre lo accoglie accanto a sé e lo avvicina al grembo gonfio.

Con il cuore del feto tra i timpani e l'olfatto diretto verso il budino alla ciliegia del vassoio che poggia sulle lenzuola, l'imperfetto felino ruota i suoi occhi pieni di amore verso la madre.

Preme su quella figura con una innocenza impura, delicata e assolutamente non disinteressata.

 

Tra non molto arriverà il fratellino, e tu non sarai più costretto a startene da solo tutto il giorno. Sei contento, darling?

 

Chiede serafica mentre, quasi senza accorgersene, fa il gioco di quello sguardo e lascia scivolare un cucchiaio di budino tra le labbra golose del figlio.

 

Inebriato dal frizzante sapore esploso in bocca, e coccolato dalla soave mano della madre che gratta la sua testolina rossa fino a fargli emettere quei mugolii, quei piccoli, indecenti suoni gutturali che solo lei riusciva a strappargli, Mycroft Holmes non riesce a partorire nient'altro che un sì.

Sì.

Sì, ed ancora sì.  È contento. Davvero contento.

Sgombro da qualsiasi dubbio, Mycroft giunge alla felice conclusione che non c'è cosa più bella dell'arrivo di un fratellino.

Soprattutto se il bambino ha intenzione di restar dentro la pancia ancora per molto.

 

 

*****

 

 

Mycroft Holmes è un gatto.

Un piccolo suddito di sua Maestà che, tutto sommato, può anche eccedere nell’utilizzo dell’aggettivo ‘felice’ per descrivere il suo stato  senza apparire inopportuno.

 

Solo una condizione, di recente, lo inquieta.

Che non è esattamente una bazzecola, nonostante non superi i quarantotto chilogrammi.

 

Adèle.
Il suo passaporto la vorrebbe in Francia, ma per ragioni apparentemente incomprensibili, lei è lì.

A rovistare tra il suo materiale scolastico in cerca di una pecca da cui tessere una paternale che avrebbe dato un senso al suo stipendio, a confermare inutilmente l’ordine in territori già in perfetto ordine, e a cercare di inculcare nella sua persona un’anima umana, piuttosto che riconoscere quella felina a cui tutti ormai si son sensatamente adeguati.

 

Non una tata, non una colf.

Non si sa esattamente quale ruolo quell’essere d’oltremanica ricopra all’interno della famiglia Holmes.

Una cosa è certa: è la classica amante dei gatti.

La mamma l’aveva presentata come una persona che le avrebbe dato una mano finché il bambino non fosse nato, ma la verità è che quella donnina scialba, dalle vesti quasi unicamente color lavanda, sembra provare il masochistico impulso di trascorrere gran parte del tempo in compagnia del ‘piccolo di casa’, ed è davvero pronta a tutto pur di non ammettere come non vi è necessità primaria che quel gatto sornione non sia perfettamente in grado di assolvere da solo.

 

Una piccola soddisfazione le viene servita su un piatto d’argento ogni sabato pomeriggio, quando Mycroft Holmes deve raccogliere il suo lungo broncio – così lungo da rischiare puntualmente di inciamparvi sopra-  e soffocare l’istinto di schizzare via da quelle braccia che lentamente lo guidano nella odiata vasca da bagno.

 

Bolle di sapone, inutili paperelle di gomma dall’aria antipatica…

Non può neanche lontanamente immaginare l’immane sforzo a cui quel gatto è costretto pur di tenere a bada i suoi artigli, che adesso più che mai vorrebbero sfoderarsi e graffiare, e poi graffiare e graffiare ancora quell’essere pusillanime che, tra ritornelli e filastrocche in un inglese che non è inglese, strofina con insolente allegria ogni centimetro della sua pelle ‘rosa-porcellino’, così come lei osa etichettare.

 

È un gatto. E da un gatto non ci si può certo aspettare che ami l’acqua e chi lo costringe a bagnarsi.

Ma il britannico guscio umano che ricopre il suo spirito richiede un certo rigore, un certo contegno.

E sotto il termine ‘contegno’ nessuna fuga è concessa.  Sarebbe quantomai sconveniente.

Perciò lascia che a fuggire sia qualcos’altro, qualcosa che può farlo anche senza mettere a repentaglio la sua reputazione più di quanto non stia già facendo la ridicola pettinatura appuntita che il Male d’oltremanica ha modellato  sulla sua testa insaponata.

Così mentre quel cinguettio scivola e dilaga irritante come il bagnoschiuma, la sua mente è già lontana; è già al vestito della domenica che sua madre ha di recente  fatto confezionare e che domani indosserà per ricevere i parenti in visita dal Sussex.

E’ un gatto pigro e vanitoso, Mycroft.

Ma ahimé, l’eleganza richiede dei sacrifici; i rivoli di shampoo che Adèle fa scivolare nei suoi occhi non fanno che ribadire il concetto.  Allora Mycroft piega avanti la testa, porta i pugni agli occhi e dei lamenti deboli, simili a dei miagolii si levano nell’aria tra i vapori. Lamenti che lei, sadica, è pronta a sminuire con una serie di sogghigni.

 

‘Su, smetti di fare il bambino piccolo. Presto sarai un fratello maggiore, Mycroft. Sarà un grande impegno per te.’

 

E diradando le bolle, lui sbuffa.

Sbuffa e giura che finché avrà vita, mai mai e poi mai costringerà suo fratello a subire una cosa tanto odiosa come il bagno del sabato pomeriggio.

 

*****

 

Mycroft Holmes è un gatto,  e non ama i limiti.

 

‘Finito’ è un termine che gli sta stretto; un concetto scomodo da cui preferisce mantenersi distante.

Guarda con diffidenza a tutto ciò che non è perenne; non ha amore per quanto di fugace il mondo ha da offrirgli.

Vive nella ferma convinzione che, prima di nutrire aspettative verso qualcosa, servono delle garanzie ben precise; delle sicurezze che devono portare il marchio dell’eternità.

Se esso non è presente o comprovabile, allora si tratta di materiale esauribile, limitato.

E qualsiasi legame di affetto si sceglie di stabilire con codesti fenomeni, è sinonimo di uno svantaggio che fa orrore anche solo a pensarlo.

 

Ed  è per questo che ama le stelle, Mycroft.

Ama quei piccoli bagliori davanti ai quali anche un gatto sente il peso della propria limitata esistenza.

 

Sono la primissima preda di un felino, il primissimo scintillio che innesta nei loro occhi ancora privi di luce l’ardente bramosia di possedere qualcosa.

Salterà per raggiungerle.

Arrancherà. Si arrampicherà, minaccerà il cielo con i suoi piccoli artigli e poi salterà ancora.
E ancora e ancora e ancora.

Brucerà una delle sue nove vite, in quella sua corsa disperata. Una perdita importante, certo. 

Ma l’idea di appuntare sul suo manto qualcosa il cui bagliore potrà ergere l’intera razza dalle tenebre del regno animale è, a suo dire così, una causa così nobile da far passare tutto il resto in secondo piano.


Si fermerà solo quando sarà ormai troppo tardi. Quando nei suoi occhi, quei freddi barlumi avranno già acquisito un riflesso differente, e insinuato nel cuore la primissima, grande delusione che giunge a ridimensionare la forza di quell’ego presuntuoso.

Perché la consapevolezza che nulla in suo potere gli permetterà di portare quei luccichii tra le zampe, non è un’operazione indolore.

 

La resa alle stelle ha la forma di un gatto che, sotto il severo sguardo del firmamento, con capo chino e coda tra le zampe, ammette la sua umiliante sconfitta e si lascia miseramente spogliare da qualsiasi mandato divino si credeva investito.

Nudo, scevro di sacralità, egli verrà abbandonato ad un mondo mediocre e immeritevole della sua presenza.

Un tugurio in cui dovrà trovare qualcosa a cui ambire, un ripiego discreto abbastanza per cui vale la pena alzarsi ogni giorno da un cuscino morbido e accontentarsi.

 

Ma è solo un armistizio, quello proclamato con la volta celeste. Non una sconfitta.

Per il resto dei suoi giorni guarderà a quelle stelle inavvicinabili e domanderà loro la ragione di vivere nove vite pur essendo tale e quale a quegli esseri che di materia celeste non si infetteranno mai.

 

 

Alle sue udienze con il cielo, Mycroft Holmes non era quasi mai solo come lo è questa notte.

La vecchia soriana senza nome che puntualmente presiedeva insieme a lui, era una presenza garantita.

Sedeva sempre su di un angolo del davanzale, mimetizzata dai i damaschi delle tende.

Nonostante l’orecchio mozzo ed il ventre sformato dalle gravidanze, era sempre lì. E faceva la cosa che meglio sapeva fare: attendeva. Non aveva fatto altro per tutta la sua intera esistenza.

Quando l’ultima delle sue nove vite volgeva al termine, nei suoi occhi rivolti al cielo, il grosso gattone Mycroft Holmes aveva scorto una insolita quanto compiaciuta accettazione.

Come se, infine, di quell’assaggio di eternità spicciola, si fosse accontentata.

 

Oggi che ha dovuto seppellirla in giardino, non fa che pensare a quanto sia stata patetica la vita di quella gatta. Non aveva avuto risposta, da quelle stelle. Ma alla fine, ci aveva fatto amicizia.

 

Patetica davvero.

 

Mycroft Holmes è un gatto, sì.  Ma non uno qualunque.

Lui quelle stelle senza cuore le desidera. E se desidera qualcosa, egli la ottiene.
In un modo o nell’altro.

 

 ‘Mycroft! Cosa fai in giardino a quest’ora? Dovresti essere a letto, mon petit chou.’  (*)

 

 

Una tazza di latte contornata da una decina di madeleinette.

Decisamente lauto come pasto fuori orario.

Decisamente troppo gradevole perché quel gatto ciccione di Mycroft Holmes indugiasse più di tanto a farlo suo.

Scruta un po’ la tazza con apparente indifferenza, ruota le pupille intorno alla corolla di dolcetti e cerca in tutti i modi di schermare al mondo esterno  la sanguinaria lotta tra ragione e acquolina che si consuma dentro di sé.

Non lo sfiora neppure, se non dopo un lungo, amaro sospiro giunto a celebrare la sconfitta della sua alleata più cara.

Con lentezza, chiude gli occhi.

Ispira profondamente quando, tiepido e zuccherino, il latte giunge a lambire le sue labbra.

La quantità di odio che riversa nel modo in cui Adèle lo sta fissando è qualcosa a cui cerca di non pensare.

Dopotutto è un gatto, e non dovrebbe curarsi di quel lampo di vittoria che era certo sarebbe apparso nello sguardo di lei – e infatti così è stato – quando avrebbe accettato finalmente l’inaspettato premio consolatorio.

 

‘Era una gatta molto cara, ma era anche anziana e malata, mon chéri. La tua maman mi ha detto che si prendeva cura di lei prima ancora che tu nascessi. Sono sicura che anche adesso che è in cielo, ti vorrà sempre, sempre bene!

 

Adèle sorride.

Sorride e neanche immagina quanto le sue madeleine si stiano rivelando salvifiche.

Mycroft avrebbe smontato pezzetto per pezzetto quel suo discorso, se le sue guance non fossero occupate dalle soffici brioches.

 

Quella gatta non lo amava. Non amava nessuno.

Amava la casa in cui le permetteva di rifugiarsi, e amava le stelle.

Quei piccoli gesti di affetto mostrati nei suoi confronti altro non erano che misere illusioni con cui dall’alto della sua intangibilità osava gratificare la fragile esistenza umana.

Esistenza che non concepisce la comodità di amare  e non soffrire.

 

Le vite finiscono. I cuori si fermano.

Amare non è mai un vantaggio.

 

 ‘E’ normale sentirsi tristi, Mycroft.’

 

La sentenza arriva insieme ad una carezza, e se da questa riesce a scansarsi con una mossa della testa, lo stesso non è per la prima, che giunge alle sue orecchie come un dardo, letale e velenoso.

 

No, non è normale per un gatto.
E infatti lui non è triste. È solo deluso.

Ha lasciato che la sua parte umana inquinasse quella felina più di quanto immaginasse.

 

Che mi sia di lezione, dice a sé stesso l’impuro micione di Mycroft Holmes.
Amareggiato da sé più che mai.

 

Va a letto con le orecchie basse e la coda tra le gambe, come quei gatti che si sono arresi.

Ma per lui non è così. Oh no.

 

La sua sfida con le stelle non è affatto conclusa. Solo rimandata.

Perché lui non è, un gatto qualunque.

 


---

 

WAGAHAI WA NEKO DE ARU  (IO SONO UN GATTO)

吾輩は猫である

 

Fine secondo capitolo.

 

 

 

Note :

 

·         (*) Adèle è francese. “Mon petit chou” (letteralmente “Mio piccolo cavoletto”) è un modo affettuoso usato dai francesi per rivolgersi ai bambini.

 

 

Credits:

 

·          Scritta da: Snehvide  (ex - Reichan86) // Beta: Narcy

 

·          吾 輩は猫である(WAGAHAI WA NEKO DE ARU) è il titolo di un romanzo di Natsume Souseki (EDO, 1867 – 1916) .

 

 

Ringraziamenti:

 

·         Come al solito, i miei ringraziamenti più grandi vanno alla mia beta-reader Narcy, che sommergo di chiacchiere inutili ogni giorno, e al mio meraviglioso gruppo che riempie le mie giornate come poche cose riescono a fare  

 

·         Un altro ringraziamento speciale va a tutti coloro così coraggiosi da proseguire nella lettura di questa fanfiction! E’ un vero trip mentale, lo so, e non posso neppure promettere che andando avanti con i capitolo la situazione migliorerà! XD
Il terzo lo vedrete tra un po’, in quanto in questo momento sono super-impegnata con lo studio.

 

 

 

~ Snehvide

 

   
 
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