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Autore: Maiwe    27/02/2013    15 recensioni
La storia di Thranduil e Legolas, dalla loro fuga dal Doriath alla IV Era.
Una mia visione delle loro vite ispirata ai vari Racconti tolkeniani, cercando di rispondere alle tante domande che avvolgono le loro figure, così importanti eppure così schive e poco inclini a farsi raccontare.
Genere: Angst, Malinconico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Ebbene sì, prima pubblicazione. Spero non mi toglierete il saluto.
Mi auguro vi piaccia, davvero, e non aggiungo altro, per non tediarvi oltre.
 
Questo capitolo è dedicato a Ida, dolcissima amica mia che se ne è volata via troppo, troppo presto. Non eravamo preparati.
 
Un bacio a chi vorrà leggere, due a chi vorrà anche commentare!
Siate pure cattivi, devo farmi le ossa!
Maiwe
 
 

 

 


L’universo si era paralizzato.
Persi il controllo del respiro, immobile, tutto il resto del mondo che mi vorticava intorno e addosso. Dentro.
La vidi cadere. La vidi colpita. Crollare inerme in ginocchio, un rivolo di sangue lungo le guance, e accasciarsi a terra. Mi parve di fluttuare, in quell’istante infinito, in cui la mia mente stava già rifiutando quanto appena visto, come se non fosse mai accaduto. I capelli castani, così scuri alla luce del giorno che moriva, le donavano un’aura di eleganza che l’aveva sempre resa meravigliosa, ai miei occhi.
I suoi occhi. Chiusi. Aveva gli occhi chiusi. Perché?
Mi mossi in avanti, stentai un passo, ma non riuscivo a reagire. Lei era a terra, un braccio verso di me.
In testa continuavo a sentire ancora e ancora il tonfo che aveva prodotto accasciandosi al suolo, nella polvere che sempre costellava il pavimento di quel chiostro.
La sua veste blu, con i ricami d’oro.
La sua bocca. Era sporca di sangue.
‘Ti amo, devi alzarti’, pensai. Non uscì un suono, dalla mia bocca, se non un gemito.
Perché le gambe non mi seguivano? Cos’era successo? Cosa mi stava trattenendo?
Me ne stavo ancora in piedi, fermo, immobile, come se, intorno a me, niente stesse succedendo. Niente di niente, tutto era congelato. Persino quello schifoso orco, quella feccia disgustosa che stava brandendo una spada in direzione della mia gola. Lo vidi arrivare, alzando lo sguardo, piano, lentamente, come se mi trovassi in un sogno. Una lama lo trafisse da parte a parte prima che mi raggiungesse, mentre io me ne restavo ancora lì.
Mi riscossi. Guardai lo schifoso essere crollare a terra, mentre qualcuno, che non seppi riconoscere, davanti a me e che mi aveva appena salvato la vita, mi lanciava uno sguardo vuoto, senza capire perché me ne stessi così immobile, io, Thranduil, figlio di Oropher. Esule nel Doriat, un re senza trono. Figlio di un re scomparso troppo presto. Non poteva capire, non poteva sapere, perché non aveva visto mia moglie cadere a terra, non l’aveva appena vista morire.
Finalmente le gambe mi risposero, e feci un passo in direzione di Rua. Forse aveva solo perso i sensi, forse potevo ancora salvarle la vita. Forse ero ancora in tempo. Forse…
Mentre l’ennesimo orco si faceva avanti, mirando a me, brandendo una spada mozza, una lama nera intrisa di sangue della mia gente, dei miei amici e probabilmente della mia stessa famiglia, abbassai gli occhi.
Un piccolo volto mi ricambiò lo sguardo. Un volto pallido, imbevuto nella paura, nel terrore, un bambino troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo, cosa fosse appena successo. Era abbracciato alle mie ginocchia, tenendomi stretto. Da quanto era lì? Aveva visto tutto? … Quanto tempo era passato? Una lacrima gli solcò le guance, mentre allungava una mano verso di me, emettendo solo un piccolo, debole suono strozzato.
Ada.”
L’orco era talmente vicino che sentii il suo odore arrivare sulla mia pelle.
Strinsi la presa attorno all’elsa della spada e, premendo con una mano il volto di mio figlio contro le mie gambe perché non vedesse, trafissi quell’essere mostruoso da parte a parte, gridando, gli mozzai la testa. D’istinto, quindi, feci l’unica cosa che a quel punto mi parve possibile.
Raccolsi mio figlio, lo presi in braccio.
E scappai.
Corsi via. Dovevo metterlo al sicuro. Tenendolo con un braccio solo, una ferita alla mia gamba sinistra che non avevo notato e che emanava fitte che mi mozzavano il fiato, rinfoderai la spada, e corsi in direzione del giardino della reggia, verso l’esterno.
Mi voltai soltanto quando fui abbastanza lontano da aver raggiunto le mura della corte. Mi voltai e vidi il palazzo in fiamme. La reggia del mio amico e mentore, che in quegli anni mi aveva accolto come un padre, dato una nuova vita e una nuova famiglia, seppur momentanea, era in gran parte devastata, violata, distrutta, tradita. Avevamo perso tutto. Io e quel bambino che guardava le fiamme senza capire, le guance sporche di sangue, cenere e polvere, avevamo appena perso tutto.
Che cosa potevo fare?
“Rua”, piansi, guardando il palazzo bruciare. “Rua”.
Nana?”
Coprii gli occhi a mio figlio. Non doveva ricordare quelle cose. Forse io stesso avrei fatto meglio a… come avevo anche solo potuto pensarlo.
Forse Rua era davvero ancora viva. Forse mia moglie non era morta, non poteva esser vero. Non poteva essere successo. Non avevo la forza di crederci.
Mio figlio, il mio bambino, quel bambino così bello, così intelligente e sveglio, mi passò una sua manina sul volto, nonostante la vista oscurata dalla mia mano, portandosi via una lacrima, e ripulendomi da un po’ di cenere, e sangue nero di orco. Gli sorrisi, non riuscendo a smettere di piangere.
Avevo un bambino piccolo in braccio, e quale era la mia alternativa? Entrare nella loggia in fiamme, cercare il cadavere di mia moglie… e poi? Dove avrei lasciato mio figlio? Non potevo nasconderlo, gli orchi erano ovunque.
Mi acquattai dietro uno degli ultimi alberi e attesi. Attesi la notte. Era il tramonto. Non avrebbero tardato a calare le prime stelle. Fortunatamente avevo la mia cappa, che, per quanto lacerata e sporca, lercia, ma la usai per avvolgere mio figlio, che, pian piano, era crollato addormentato.
E lì, nascosto nell’incavo di un albero, lontano dalla reggia, a un passo dalla foresta di Region, uno dei boschi più oscuri del Doriat, lo guardai dormire. Così beato. Così tranquillo. Non aveva idea di cosa fosse appena successo.
E forse, neanche io. Lo abbracciai, me lo portai vicino al volto e lo cullai, non potendo fare a meno di versare lacrime.
Cercai di ricostruire come potesse essere accaduto. Le avevo detto perentoriamente di non muoversi dal loro rifugio, di tenere il bambino con sé, era soltanto un attacco di orchi, l’avremmo respinto. E, se le cose si fossero messe male, di scappare con lui, e non aspettarmi. Non voltarsi indietro. Prendere la via a ovest lungo il fiume Sirion e raggiungere il mare, farsi portare via, tornare lontano, a casa nostra, finalmente. Era l’occasione buona per tornare. E non voltarsi per nessuna ragione al mondo.
E allora perché era venuta a cercarmi? Perché aveva portato il bambino con sé, esponendolo ad un pericolo immane, dal quale solo miracolosamente era scampato? Ringraziai i Valar di essermi trovato proprio accanto a lei, in quel momento, un istante prima che la ama nera la trafiggesse da parte a parte. Un istante prima di vederla cadere. Ringraziai, davvero, così il mio bambino aveva avuto il tempo di vedermi e venirmi subito incontro, percorrendo quella frazione di spazio che ci aveva separati in quell’ultimo istante.
Nel sonno, si agitava, il mio piccolino. Lo coprii meglio. E me lo strinsi ancora di più al petto, mentre mi alzavo e mi incamminavo verso l’interno della foresta di Region. L’oscurità ci avvolse immediatamente, ma conoscevo bene quelle terre, l’ambiente boschivo era il mio ambiente naturale, avrei sfruttato l’ombra a nostro favore.
Mi incamminai che già le prime scorribande ci stavano cercando. Volevano me, l’ultimo esponente di una casata potenzialmente molto pericolosa. Volevano il mio bambino. Era per me che erano venuti, anche per me, soprattutto per me. Non soltanto per saccheggiare la reggia e intimidire il suo sovrano, erano venuti per noi.
Cominciai a correre, un braccio impossibilitato dal peso di quel fagotto che dormiva tranquillo, l’altra ad afferrare rami bassi e pruni, in cerca del sentiero, della via, nell’oscurità. Il sole era calato davvero, ma quanto era passato da che mi ero nascosto? Pochi minuti, non di più. Il tempo di recuperare le forze e mi ero rimesso a correre verso ovest, stavolta senza guardarmi indietro. Non fu facile trovare la via, il sentiero, all’interno di quella boscaglia. Mi ripromisi che, quando sarei finalmente ritornato a casa, a casa mia, dove era mio diritto trovarmi, restare e regnare sulla mia gente, la strada sarebbe stata facilissima da trovare: ci sarebbe stato un sentiero netto e preciso, un camminamento da seguire per arrivare fino dall’altra parte della selva in tutta tranquillità.
 
Il mio piccolo amore si svegliò di soprassalto. Stavo ancora correndo nel bosco, lungo lo stretto e nascosto percorso che portava dritto fino al fiume Aros. Fu svegliato dalla grida degli orchi che ci erano alle calcagna.
“Non ti preoccupare, tesoro. Tuo padre sa come non farsi trovare. Vedrai che ce ne libereremo. Quel kaima. Dormi.”
In tutta risposta, mi giunse uno sguardo smarrito, ma fiducioso. Si morse il pugno, e chiuse di nuovo gli occhi, appoggiandosi alla mia spalla.
Il senso di vuoto che avevo dentro era indecifrabile, incolmabile. Stavo scappando. Stavo fuggendo. Ma non avevo alternativa, se volevo salvare quel che restava della nostra vita, quel che restava della mia famiglia. I miei ospiti avevano sicuramente già fatto rientrare l’attacco, nonostante alcune ali della reggia fossero devastate. Dovevo andarmene, e non mettere più in pericolo la vita di nessuno.
Kwertet nana uma delm’en”, mi fede notare mio figlio, mezzo addormentato.
La mamma gli aveva detto di non preoccuparsi.
Nurta min adar
Gli aveva detto di andare a nascondersi dal papà.
Uma dela!”
Di non preoccuparsi.
Tira ten’ rashwe astar
E di stare attento.
Lle vesta Ada?
Quell’ultima frase era tutta per me. Aveva riaperto gli occhi.
“Te lo prometto, piccolo.”

  
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