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Autore: _World_    28/02/2013    3 recensioni
Cosa sarebbe successo se Lizzie non fosse morta nell'incidente? Cosa avrebbe fatto?
"Ricordo bene quella notte, come se ogni singolo secondo fosse stato inciso nella mia mente e scolpito nel mio cuore. Ricordo anche cosa avvenne prima di esso."
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note dell’autrice: Ciao a tutti nel capitolo ho messo anche diverse immagini tra uno stacco di scenario e l’altro. Questa FF tratterà di un What If che mi sono sempre immaginata. Cosa sarebbe successo se Elisabeth fosse sopravvissuta, soffermandomi anche sulla giornata della presunta morte che nel videogioco lascia comunque intendere, non dice con certezza se Bumby la uccise in camera o l’avesse solo tramortita lasciando alle fiamme il resto..


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Ricordo bene quella notte, come se ogni singolo secondo fosse stato inciso nella mia mente e scolpito nel mio cuore. Ricordo anche cosa avvenne prima di esso.

Era una di quelle uggiose mattinate che spesso si vedono a Londra, eppure ero più decisa che mai.
Entrai nella stanza che gli faceva da studio, era ancora un universitario apprendista, non gli era concesso un reale ufficio. Seduto dietro la scrivania consultava cartelle di diversi pazienti. Alzò lo sguardo imperscrutabile e vigile sorridendomi. Il mio viso s’indurì immediatamente guardandolo , – se possibile – ancora peggio.
<< Mia cara >> disse alzandosi avvicinandosi a me.
Mi ritrassi non distogliendo i miei occhi verdi su di lui. Troppo tempo ero stata alle sue regole, troppo tempo mi ero abbassata ai suoi soprusi. Troppo tempo mi controllava e troppo tempo non ero più padrona della mia vita.
<< Non avvicinarti. >> proferii gelida.
Ghignò soddisfatto di quella presa di posizione. Mi trattava come un’amante, come se volessi tutto questo.
<< Immagino sarai qui per qualcosa >>
<< Si. Ti invito nuovamente a non avvicinarti più a me. O le conseguenze saranno drastiche. >>
Inarcò un sopracciglio scettico << Illuminami. >> fece ironico.
<< Non c’è bisogno che aggiunga altro. A buon intenditore poche parole. >> conclusi tenendo quella mia nuova facciata fredda e intoccabile. Mi voltai per andarmene, fu li che mi sentii afferrare per il braccio. Il panico scattò in me quando sentii la sua vicinanza, quando mi afferrò il volto con le dita e inchiodò quegli occhi infidi su di me. Mi teneva stretta e ghignava. Gli spregevoli ricordi di ciò che mi fece non troppo tempo fa riemersero, lo spinsi via, forte e urlai.


Ero felice di aver concluso quella storia, mi sentivo quasi liberata di un peso ma al contrario ancora angosciata, quasi una parte di me sapesse che non era ancora finita.
Andai a dormire e quando ormai il silenzio e la notte calarono sentii dei rumori. Passi esili e quasi inudibili per chi dormiva. Volli sparire o semplicemente credere che stessi vivendo qualche allucinazione. La porta che solitamente lasciavo accostata si aprì lentamente. Il sangue si raggelò dentro di me, persi un battito vedendo la sua figura slanciata stagliarsi lungo la porta.
Non ebbi tempo nemmeno d’urlare perché lui fu li, li davanti a me a tapparmi la bocca. << Mi duole davvero. >> sussurrò fingendosi affranto. << Ma è necessario. >>
Mi diede un ultimo bacio, uno di quei suoi luridi e vili baci, prepotenti e subdoli. Uno di quelli che dà solo ai fanciulli da cui puntualmente è attratto. Non razionalizzai davvero ciò che accadde in seguito, cercai di levarmelo di dosso, di chiamare aiuto o almeno farmi sentire mentre le sue mani scorrevano lungo il mio corpo, ancora.
Un dolore lancinante alla testa mi stordì, quando mi colpì forte con qualcosa di indefinito nell’oscurità.
Mi baciò la fronte con ipocrita protezione quando lottavo per rimanere sveglia. Chiuse la porta e lo scatto della serratura decretò la mia fine.
Rimasi inerme nel letto, ansimando e distrutta. Con la dignità e lo spirito a pezzi, aveva vinto. Vinto su tutti i fronti. Mi aveva piegato al suo volere, a ricattarmi e a farmi fare cose contro la mia volontà. Ormai ero sconveniente, mi stavo ribellando, non poteva certo perdere il controllo della situazione. Era necessaria la mia morte.
Mi bruciarono gli occhi mentre il cuore batteva a mille. Forse era giusto così, pensai infine. Forse morendo ogni dannata sofferenza, ogni maledetto passo falso e ogni dolore finiranno. Sorrisi amaramente sentendo puzza di fumo e grida. Erano i miei genitori. Mi chiamavano. Chiusi gli occhi abbandonando il mio corpo sfinita. Quando infine mi sentii chiamare.
<< Non andrà come pensi tu. >> disse la voce accattivante di fianco a me, mi voltai per scorgere un gatto scheletrico e inquietante. Stavo impazzendo, ma infondo ormai stavo morendo mi sarei dovuta meravigliare, eppure risposi.
<< Cosa intendi? >>
<< Non finirà tutto con la tua morte. Al contrario. Alice è scappata, proprio poco fa. Vegliala segretamente, salvala. >> infine scomparve con il suo ghigno per ultimo.
Quelle parole mi colpirono forte, più forte di tutti i colpi ricevuti in vita mia da quel viscido verme. Mi fecero riflettere, forse davvero non sarebbe finita. Forse Alice avrebbe avuto davvero bisogno del mio aiuto. Forse…troppi forse.
Mi alzai sentendo le gambe cedere e la testa girare vorticosamente, ma mi alzai. Il fumo era penetrato da sotto la porta e le fiamme minacciavano di corroderla presto. Mi affrettai a spalancare la finestra, l’aria era fredda e pungente, tipica di quella stagione.
Strinsi forte gli occhi e mi gettai, la neve attutì la mia caduta. Osservai per l’ultima volta la mia casa bruciare, udii gli ultimi gridi disperati dei miei genitori e dopo, vidi il corpo di Alice che lentamente si rialzava e veniva affiancato da molta gente. Me ne andai con qualche lacrima a rigare il viso.
Ma ora avevo unica priorità.
Salvare Alice.


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Erano passati svariati anni, mi ero creata una nuova identità e ormai tutti a Londra mi credevano morta. Alice come mi predisse il gatto impazzì, purtroppo aveva ragione a credere che quello non fosse solo un incidente. Era ossessionata dalla nostra morte e il suo paese delle meraviglie era in subbuglio. Dopo essersene andata dal manicomio andò in orfanotrofio, seguita da uno psichiatra.
Bumby, quel maledetto assassino aveva fatto carriera, ora possedeva un suo studio personale e prestigioso, dove la stessa Alice andava. Voleva farle dimenticare tutto, questo mi preoccupava.
Il gatto qualche volta mi appariva, portandomi nel paese delle meraviglie dentro la testa di mia sorella. Dovevo seguirla di nascosto, proteggerla e cercare di non far decadere ulteriormente la sua mente.
Alle volte avrei voluto farmi riconoscere, almeno da lei. Ma quella bizzarra creatura che mi salvò me lo impediva, sosteneva che il mio ruolo fosse secondario ma essenziale, che la riuscita della mia missione dipendeva in primo luogo dalla sua segretezza.
Feci come richiesto, seguendola in ogni luogo e apparendole di tanto in tanto solo per assicurarmi che non dimenticasse. Nel suo lungo viaggio dentro di sé notai con piacere che qualche ricordo, qualche frase ancora le era rimasta. Era assetata di verità e affamata di giustizia, proprio come me.
Voleva disperatamente rimembrare cosa accadde quella volta, ma farlo significava ammettere la sua colpa d’omertà. Non la giudicai mai per questo, anzi, fui contenta che non fu proprio lei a intervenire. Ma Alice non la pensava al mio stesso modo.
Ed infine, la mia più grande paura si realizzò.
Era in una delle sue tante sedute, parlava di ciò che vedeva nel suo mondo e ancora una volta, Bumby le ripeteva di dimenticare.
Vi fu uno scambio di battute tra i due, infine lui la guardò rassicurante.
<< Alice, dimentica il passato. Sei bella e giovane, devi andare avanti. >>
Lei abbassò lo sguardo combattuta e frustrata, appoggiò la testa al petto dell’uomo che l’avvolse in un abbraccio. Mi sentii cedere, era stata soggiogata, era stata usata e illusa.
Il gatto mi apparve vicino, mi guardò anche lui seriamente preoccupato.
<< Ora puoi intervenire. >> disse infine.


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Come uno dei tanti viaggi in cui feci mi ritrovai all’interno di quel mondo. Era diverso però, conoscevo la casa delle bambole, ma quella era una stanza diversa.
Un unico trono risiedeva alto e imponente, sopra di esso Bumby teneva Alice in braccio svenuta. Non indossava l’abito con cui solitamente combatteva. Il suo volto arrendevole e le vesti indossate esplicitavano la sua sconfitta.
Aveva vinto anche su di lei.
Uscii dall’ombra che mi nascondeva avanzando verso di lui. Quegli occhi scuri, che prima puntavano in un punto indefinito tra le miriadi bambole si posarono su di me.
<< Elisabeth. >> disse in un sussurro sgranando gli occhi, non sembrava spaventato né preoccupato. Al contrario, un flebile tono nella sua voce smascherò la sua felicità.
Si alzò lasciando Alice accomodata sul trono avanzando verso di me.
<< Sei viva. >>
<< Ovviamente ti aspettavi il contrario. >> feci notare tagliente. << Si. Sono viva…e sono qui per riprendermi ciò che mi spetta. >>
Lui ghignò. << Sarebbe a dire? >>
<< Mia sorella, e la mia rivincita. >> la lama vorpale comparve nel mio palmo aperta. I miei occhi verdi luccicarono di nuova luce, avventandomi successivamente verso di lui.
Provai a conficcargli la lama nel petto, ma si scansò colpendomi allo stomaco. Mi bloccai un attimo per il dolore, questo gli diede un giusto vantaggio. M’immobilizzò con le mani dietro la schiena.
<< Ho già vinto una volta, cosa ti fa credere di potermi battere? >> sussurrò suadente e retorico.
Nonostante fossero passati anni, ricordavo fin troppo bene quelle mani sporche di peccato e dolore. Con una forza non mia mi voltai di scatto riuscendo a ferirlo. Dalla sua carne uscì liquido nero e viscoso, che generò diverse rovine.
Ringhiai combattendo contro tutti. Colpendo quei mostri e al contempo vigile verso Bumby. Parai diversi suoi attacchi e uccisi altre creature.
Lanciai uno sguardo verso mia sorella ancora priva di sensi e ne fui grata, aveva visto e patito troppo in quegli ultimi anni, me la sarei cavata da sola.
<< Sai, sono contento che tu ti sia salvata. >> disse attaccandomi. << Ora sei sufficientemente grande per una reale e ufficiosa proposta di matrimonio. >>
<< Se intendevi sposarmi non avresti dovuto tentare il mio omicidio, maledetto porco. >> ruggii riuscendo a colpirgli il fianco mentre diverse rovine si addossavano a me, rallentandomi e immobilizzandomi.
Cercai di liberarmi ma fu inutile. Lui si avvicinò vittorioso a me, mi alzò il volto con l’indice. << Sei molto cambiata, ma non importa. Mi piaci ugualmente. >>
Non riuscii a fermarmi, la rabbia, il rancore, l’odio, la frustrazione mi accecarono, mi ricordarono quanto quell'uomo mi avesse rovinato la vita, ad Alice e a tutti gli altri bambini al quale aveva privato la memoria e abusato di loro.
Gli sputai in pieno volto gridandogli tutto ciò che non ero riuscita a dirgli prima. Mi diede un poderoso schiaffo, potente a tal punto da farmi bruciare la guancia e farmi voltare la testa.
<< Abbiamo molto su cui lavorare, Lizzie. Dovrai essere una moglie perfetta. >> m’informò passeggiando avanti e indietro non accortosi che alice era nuovamente cosciente.


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Rimandammo a dopo i convenevoli e la rimpatriata. Ci trovavamo in una stanza aperta del treno infernale. Alice, più combattiva che mai impugnava il macina pepe lasciando a me il cannone teiera. Le enormi mani manovrate da fili attaccati alle braccia del Dollmaker, non ci davano tregua.
Schiena contro schiena combattevamo coprendosi l’un l’altra. Unite come non mai in vita nostra, ora condividevamo un obbiettivo. Salvarci.

Nella stazione regnava il silenzio. Alice urlava ingiurie tenendomi stretta per mano, frivole minacce che non lo scalfirono, anzi lo fecero solo ridere.
<< Siete due pazze, a te credono morta e tu invece sei finita in manicomio e dallo psichiatra, chi mai potrebbe credervi? >> disse sarcastico << Oh Lizzie, come sei sciocca. Ti avevo offerto un’opportunità, diventare mia moglie, avresti avuto soldi fama e prestigio. >>
<< Non ho bisogno di tutto questo, né tanto meno di un marito tanto vile. >>
<< Beh, andatevene ora sto aspettando un altro paziente. >> fece annoiato prendendo l’orologio, dal quale pendeva la mia chiave della stanza, la chiave con il quale credeva di avermi ucciso.
Alice mi guardò, si avvicinò e la prese. Mi strinse la mano avviandoci quando entrambe, quasi colte dalla stessa idea ci fermammo. Non poteva vincere così. Doveva pagarla, in un modo o nell’altro.
Ci voltammo con un sadico sorriso sghembo. Non avevo mai visto lo stupore misto alla preoccupazione nei suoi occhi, non l’avevo mai visto spaesato e spaventato e ne fui soddisfatta.
Li davanti a lui con i vestiti del paese delle meraviglie, quello di Alice celeste, il mio verde chiaro. Indietreggiò ad ogni nostro passo. Alice ed io allungammo la mano aperta e poggiando i nostri palmi sul suo petto, lo buttammo in mezzo alle rotaie, nell’esatto momento in cui il treno passò.
Ora era davvero finita, ora avevamo davvero vinto.
Ci guardammo con nuova speranza sorridendo per aver trovato nuovamente la nostra famiglia. Ci legammo in un abbraccio che ci riscaldò come non era da anni.
<< È finita. >> disse Alice uscendo dalla stazione. Londra sembrava invasa dal paese delle meraviglie. Funghi enormi, colori sgargianti e strane creature popolavamo la grigia città.
Il gatto del Cheschieré apparve nuovamente e sospirò saggiamente. << Alice non possiamo ancora andare a casa e non mi stupisce. Sono pochi quelli che trovano la via e molti di loro non la riconoscono quando la vedono. Anche le illusioni sono dure a morire. Solo i selvaggi misurano il valore con la sopportazione del dolore. Dimenticarlo è facile, ricordarlo è…angosciante. Ma per ritrovare la verità vale la pena soffrire. E il nostro paese delle meraviglie, anche se provato, è salvo nei ricordi…per ora. >> infine mi guardò. << A proposito Elisabeth, benvenuta nel nostro mondo. >>


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