Vodka and dry ice*:
Then I’ll do it, baby
Whatever happens I'll leave it all to chance
Another heartache another failed romance
On and on
Does anybody know what we are living for
Invece il lungomare era pieno di vita, di ombrelloni colorati, turisti e
cittadini in costume che facevano il bagno nel mare di Zanzibar o che
prendevano il sole distesi sui loro asciugamani variopinti. I bambini di Stone
Town avevano invece il loro angolino, nel bagnasciuga, in cui si sedevano a
costruire castelli di sabbia o semplicemente a fissare la distesa d’acqua
salata, indecisi fra la voglia di entrarci e la paura di quelle onde troppo
grandi per loro. Solo un bambino, di nome Farrokh Bulsara e di tre anni e mezzo,
stava sotto l’ombrellone in compagnia della propria madre. Non che non gli
interessasse giocare con gli altri bambini, ma semplicemente la sua attenzione
era stata attratta da qualcos’altro. Con gli occhi scuri puntati verso il cielo
azzurro e reso limpido dal sole, fissava un aquilone rosso che elegantemente si
muoveva mosso dal vento. A causa della troppa luce, si distinguevano con fatica
i contorni, ma Farrokh sforzava la sua vista sottigliando gli occhi, cercando
di non perderlo di vista nemmeno un momento. Non ricordava di averne mai visto
uno e all’inizio non era riuscito a capire cosa fosse, tanto che pensava fosse
uno strano uccello di fuoco tenuto prigioniero da quel ragazzo con un lungo
filo fra le mani. Poi sua madre, con un sorriso divertito, gli aveva spiegato
che in realtà quello era un aquilone, e che se voleva gliene avrebbero regalato
uno per il suo compleanno. Farrokh aveva annuito, senza smettere di guardare in
alto.
Si chiedeva cosa si provasse a volare, a
sentirsi trascinati dal vento e a desiderare di andare sempre più in alto, ma
allo stesso tempo ad essere costantemente legati alla terra attraverso un filo
sottile, se lui sarebbe mai stato in grado di provare quelle emozioni. Per la
prima volta, dopo 3 anni e mezzo di vita, si chiese cosa fosse la libertà e
perché non si potesse tagliare quel filo che tratteneva l’aquilone, ma non
riuscì a trovare una risposta alla sua domanda. Infondo era solo un bambino e
ancora non conosceva tutti i segreti della vita e i problemi dei grandi, così
semplicemente distolse lo sguardo e si avviò verso il bagnasciuga, dove un
bambino più coraggioso stava tentando di affrontare quelle onde così
spaventose.
Negli anni che seguirono, cose imprevedibili
accaddero a Farrokh Bulsara. Dopo aver vissuto dieci anni a Bombey con la nonna
e la zia, nel 1964 era tornato a Zanzibar con la propria famiglia per scoprire
che era scoppiata la rivoluzione. Preoccupati per la pericolosa situazione
politica, i Bulsara si traferirono in Inghilterra e si stabilirono nei pressi
di Londra. Dopo aver conseguito il diploma, Farrokh, che aveva scoperto una
passione per la musica durante il periodo trascorso in India, decise che quella
sarebbe stata la sua strada. Dopo vari tentativi, nel 1970 formò un gruppo
chiamato Queen con Brian May e
Roger Taylor. Fu così che Farrokh Bulsara divenne Freddie Mercury.
Dopo 20 anni dalla prima volta in cui
aveva visto quell’aquilone rosso e sognato di volare, per un attimo gli sembrò
di esserci riuscito. Cantando su un palco, liberando la voce e seguendo la sua
musica, guardando i volti di quegli spettatori che ricambiavano lo sguardo con
ammirazione, per la prima volta ebbe
l’impressione di volare ed essere libero di esprimersi, di mostrarsi per l’uomo
che era veramente. E mentre passavano gli anni e gli album dei Queen scalavano
le classifiche ed erano accolti dalla critica musicale di tutto il mondo,
Freddie brindava al successo, godendosi quegli attimi di libertà che, sentiva,
non sarebbero durati.
I guess I’ m learning
I must be warmer now
I’ll soon be turning round the
corner now
Outside the dawn is breaking
But inside in the dark I’m
aching to be free
1989. Freddie stava seduto tranquillamente su una scomoda sedia dalla forma squadrata dello studio di registrazione , che rendeva le sue ossa ancora più doloranti. Squadrava con un sorriso mesto i suoi amici, i suoi fratelli, quegli uomini con cui per anni aveva condiviso sogni, speranze e nottate insonni, fra bicchieri di troppo e improvvise ispirazioni. Li guardava però segretamente insoddisfatto, perché si era aspettato di vedere più sorpresa nei loro volti, oltre che tristezza, nel momento in cui avrebbe mostrato loro quei fogli. Ma infondo lo sapeva già. Sapeva che loro ne erano già a conoscenza, che avevano già capito il motivo della sua debolezza, della sua fragilità, del fatto che non riusciva più a liberare la voce come faceva un tempo. E soprattutto, avevano capito l’origine di quel male che giorno dopo giorno aveva rubato quel che restava della sua energia, della sua forza e del suo desiderio di dare tutto se stesso sul palco. «Il test è risultato positivo. Ho l’ HIV» disse Freddie, sporgendosi sopra il tavolo per versarsi un bicchiere di acqua naturale. Da quando aveva detto loro di essere malato, si rifiutavano categoricamente di fargli bere alcoolici ed era la cosa che più gli dispiaceva di tutta quella situazione. Be’, a parte il resto. «Freddie, mi dispiace tanto» cominciò a dire Roger, ma l’amico lo fermò con un gesto della mano. Calò uno strano silenzio fra i quattro. Freddie sentiva su di lui i loro sguardi, che non lo lasciavano un secondo. Mentre chiudeva la bottiglia d’acqua e prendeva il bicchiere di vetro in mano, si sentì per un attimo come un aquilone strattonato da un filo invisibile, incatenato e prigioniero. Voleva urlare, ma si limitò a fissare la superfice trasparente d’acqua, che quasi fuoriusciva dall’orlo del bicchiere. «Dovremo interrompere il tour» disse infine Brian, rompendo il silenzio. «Lo so» disse piano Freddie, prima di portarsi alle labbra il bicchiere. Mentre sentiva l’acqua fresca scivolare giù per la gola, immaginò fosse Vodka. «Non potresti mai affrontare un tale stress fisico» aggiunse John Deacon, continuando a seguire con lo sguardo ogni movimento del cantante, quasi con la paura che potesse cadere a terra da un momento all’altro. «Lo so!». Il tono improvvisamente alto di Freddie fece sobbalzare tutti i presenti. Questo appoggiò con calma il bicchiere sul tavolo e poi, non senza fatica, si alzò dalla sedia e si avvicinò al vetro che lo separava dal suo microfono. «Cosa diremo ai fan?» disse qualcuno, che Freddie non seppe riconoscere. Che anche la perdita dell’udito fosse un sintomo dell’HIV? Prese un lungo sospiro, prima di rispondere «Diremo loro che sono ormai troppo vecchio per saltellare su un palco in calzamaglia. Ho 40 anni, per Dio!». Per un momento un sorriso si increspò sulle loro labbra, ma sparì più in fretta di un battito di ciglia.
Freddie aveva raggiunto la sua apparente libertà, cantando su quel palco,
mentre aggiungeva un premio dietro
l’altro alla sua parete, mentre girava il mondo e scorgeva volti sempre nuovi.
Si era illuso di essere riuscito a tagliare quel filo che non lo lasciava
volare via. Ma era bastato un foglio bianco con delle lettere nere per far
crollare tutto a pezzi. Si sentì di nuovo come quel bambino chiamato Farrokh
Bulsara che da sotto un ombrellone stringeva gli occhi per vedere un aquilone
rosso. Solo che in quel momento, l’aquilone non riusciva più a vederlo.
The show must go on
Inside my heart is breaking
My make-up may be
flacking
But my smile still stays
on
1990. Freddie aveva letto il testo di “The show
must go on qualche giorno prima”. Brian May l’aveva appoggiato in bella vista
sopra il tavolo dello studio, con la frase “Per F.” scritta con quella sua
scrittura sgangherata. Dopo aver letto le parole di quella canzone, aveva
dovuto fingere di dover andare al bagno per non farsi vedere piangere dai suoi
amici. Sapeva che non era sfuggita loro la sua voce tremante, ma aveva pur un
orgoglio da difendere, e quella briciola di dignità che ancora gli era rimasta.
I giorni seguenti, aveva ringraziato Brian silenziosamente per l’ultimo regalo
che aveva voluto fargli. I tre erano preoccupati che non riuscisse a cantare, che la voce fosse
troppo poca e debole per raggiungere quelle note alte che un tempo superavano senza
difficoltà. E infatti, i primi tentativi erano stati deludenti e, invece della
potente voce di Freddie, si udivano solo dei falsetti. Quando giunse l’ultimo giorno di registrazione, i ragazzi avevano preparato una
bottiglia di Vodka sul tavolino, invece dell’acqua. Vent’anni prima avevano
formato quel gruppo che ora era conosciuto in tutto il mondo, occorreva
festeggiare. E questo era anche un debole pretesto per rendere felice Freddie,
che aveva parlato della mancanza che provava verso il suo liquore
preferito. Il cantante, infatti, vedendo
quella bottiglia sorrise
soddisfatto. Tutto
era pronto. Roger era alla batteria, John finiva di accordare il basso e
l’assistente era pronto a registrare. Solo Brian e Freddie sembravano
indugiare. «Sei sicuro di farcela? Non devi avere riserve con me, Freddie, ci
conosciamo da vent’anni. Se qualcosa non va, dimmelo subito». L’amico mise nel
bicchiere due cubetti di ghiaccio e poi
ci versò dentro il forte alcolico, fino a riempire per metà il bicchiere. «God
save the Queen!» disse, brindando, prima di bere la Vodka in un solo sorso. Il
liquido corse giù lungo la gola, lasciando una scia infuocata. «La farò, baby».
Disse questo, mentre metteva giù il bicchiere e raggiungeva i suoi compagni,
lasciando dietro di sé un Brian incredulo.
Era consapevole che quella sarebbe stata
l’ultima volta in cui avrebbe cantato. Eppure non si sentiva minimamente
infelice o depresso. Stranamente, mentre cantava con la stessa voce di un
tempo, che all’improvviso uscì prepotente dai suoi polmoni, si rese conto di
non essere mai stato felice come allora. Mentre cantava I can fly lui lo credette davvero. Poteva sentire
l’aria avvolgerlo, trascinarlo lontano, mentre le ultime note risuonavano
dentro di lui. Forse era quella la libertà. La morte era l’unica che avrebbe
potuto rompere quel filo, permettergli di andarsene, di tornare a quella
spiaggia e all’innocenza di quei tempi. Forse era sempre stata questa la
risposta, e finalmente l’aveva trovata. Non gli importò più di nascondere le
sue lacrime, ma le lasciò scorrere libere sulle sue guance. La memoria dei
Queen sarebbe sopravvissuta e lui sarebbe sempre stato ricordato. Chiunque
avrebbe potuto sentirlo, dentro le sue canzoni, nella sua voce, anche dopo la
sua morte. Lui non era mai stato solo e non lo sarebbe mai stato. La morte
forse era davvero una liberazione. Finalmente
il suo sogno si sarebbe realizzato.
My soul is painted like
the wings of butterflies
Fairy tales of yesterday
will grow but never die
I can fly, my friends