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Autore: Fusterya    02/03/2013    13 recensioni
Le promesse vanno mantenute.
Nonostante la bocca si serri per soffocare i singulti.
Nonostante le ginocchia cedano e il battente della porta scorra lungo la schiena mentre Q scivola per terra, anche se non vuole.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Dedicata al mio gruppo 00Q



Credits: il nome del gatto, Stravinsky, non è mio, ma liberamente "preso in prestito" da questa favolosa, incredibile, splendida Fanfic di Stereobone che trovate su A03: LINK QUI

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“Double-oh-seven.”


E’ estate, ed è pomeriggio, e James gli sorride con gli occhi. Tante piccole rughe attorno a quegli occhi dalla trasparenza impossibile.


“Double-oh-seven.”


E’ inverno, solo tre settimane fa, e James profuma di cognac e caffè del dopocena, e accarezza Stravinsky, il gatto.


“Double-oh-seven.”


E’ notte, e James respira piano. Il suo alito caldo e dalla cadenza regolare gli solletica la base della nuca.


“Double-oh-seven... ”


“Q...”


“Double-oh-seven!”


Eve Moneypenny è dietro di lui. Le sue mani piccole e ghiacciate calano improvvisamente sulle sue nocche.


“Double-oh-seven... mi ricevi? Double-oh-seven.”


“Q. Basta.”


E’ mattina, solo due mattine fa, e James è vicino, così vicino che può respirare il suo odore, assaggiare la sua lingua. Calda.


 

“Double-oh-seven... mi ricevi... ”



Le mani di Eve si stringono attorno alle sue dita e le fanno smettere di digitare impazzite sulla tastiera.


Il muro di monitor davanti a loro è nero, attraversato qua e là da spasmi di interferenze.


“Q. Basta così.”  


E’ ancora mattina e James gli entra dentro, piano, con grande cura. Ma gli fa male lo stesso.

“Perdonami, piccolo.” dice la sua voce. Appena un sussurro. Dolce.


“Double-oh-seven... “



“Vieni con me, Q... vieni qui,  allontaniamoci dalla postazione.”



E’ ancora mattina, e lui sta sorridendo contro il collo sudato di James.

Profuma di vetyver e allegria, e ad ogni battito del cuore l’odore si fa più intenso. E buono. E Q lo sta mordendo.

E James morde lui.



“Double...”



E’ lo stesso M che gli sfila le cuffie, mentre Eve gli tiene forte le mani.



“Portalo via, Eve. Nel mio ufficio. Il cognac sai dov’è.”



Estate. Forse questa appena passata.

E’ sera, e profuma di vite e di ouzo, e di mare .

James lo abbraccia da dietro e gli posa il mento sulla spalla.

Ti amo, dice lui.

E le dita di James premono di più sulle sue costole.




                ***




E’ sera anche adesso, apparentemente.

Le luci artificiali del HQ non permettono di recuperare il senso del tempo.

Q lo ha perso, insieme a tutto il resto.


“Dobbiamo aspettare, Q. “

Le mani di M sui suoi omeri sono grandi e paterne.

“Sappiamo com’è, con lui. Non possiamo mai essere certi di niente.”  


Oh, non stavolta.

Stavolta lui l’ha visto. Il suo corpo sbalzato via dall’esplosione.

La colonna di fuoco ruggente, furibonda.


“Come Moneypenny lo vide cadere da quel viadotto,” obietta M.


Ma lei non aveva i miei occhi. Il mio istinto. La mia competenza.

E adesso non ha il mio cuore.

Non può sapere cosa vuol dire avere il mio cuore, in questo momento.


Q si ripiega su sé stesso, sulla piccola poltrona nell’ufficio di M, e smette di esistere.



   

    ***



Non c’è verso di portarlo a casa.

Eve le prova tutte, anche se sa che non avrà successo.


Q resta tutta la notte sul divanetto del salotto privato di M, una tazza di té via l’altra, in perfetto silenzio.

Nella sala operativa non lo fanno rientrare.

Lasciali lavorare, ha detto Eve. Si sentiranno troppo sotto pressione, se ci sei tu. Lasciali fare. Sei stanco.


Lui sa benissimo che non vogliono che sia presente quando le telecamere della squadra speciale mandata sul posto inquadreranno il corpo di Bond.


Aspetta. Sorseggia.


Tace.


Non riesce a chiudere gli occhi se non per sbattere meccanicamente le palpebre.


Alle 5 e 27 del mattino, M è di nuovo davanti a lui, perentorio.

E stavolta non può non obbedire.


“Non a casa mia... nostra. No.”


Sono le sue prime parole dopo la sequenza di “Double-oh-seven” di quasi sette ore prima.



    ***



John apre la porta in pigiama e guarda Moneypenny con gli occhi spalancati.

E poi guarda Q.


A uno come lui non ci vuole molto per capire.


“Sherlock!”



    ***


John ha le tazze bollenti in mano, ma non è per quello che gli tremano leggermente.

E’ per come Q è seduto sul loro divano e si gira piano, e posa un palmo sull’avambraccio di suo fratello.

E’ per come dice : “Devi trovarlo, Sherlock.”

Deglutisce come se stesse imparando ora a farlo.


“Trovalo.”


Trovalo, Sherlock. Trova il suo corpo.


Sherlock è impotente, come al solito. Non sa come farle, queste cose.

Ci prova posando le mani sulle spalle di Q.

“Carlton...”


Finalmente un singhiozzo rompe il silenzio nell’aria.

La fronte del ragazzo si appoggia sulla vestaglia di Sherlock.


“Mi chiamo Q.”



    ***



John guarda Q che si tiene la testa tra le mani.

Guarda le sue spalle che sussultano.

Ascolta la voce spezzata che ansima, e geme.

Osserva il viso imbarazzato di Sherlock, che timidamente massaggia la schiena del suo fratello minore, e sembra il più smarrito degli uomini.


John vuole chiudere quel buco sanguinante con le mani, come farebbe da medico militare sul campo di battaglia.

Vuole infilare le dita nel petto di Q e fermare l’emorragia.

Clampare l’aorta senza strumenti.

Fermare tutto quel sangue, in qualunque modo.


Non può fare niente.

Come nessuno ha potuto farlo per lui, quando gli è toccato.



    ***



Ore dopo, John stende una leggera coperta sul corpo esausto di Q, che ha ceduto al sonno della consunzione.

Sherlock è nella sua poltrona, ad occhi chiusi e dita sulle labbra.

John pensa che ci sono cose crudeli che accadono alle persone, e il fatto che queste se l’aspettino, non le rende meno crudeli.

James Bond aveva un bersaglio luminoso disegnato sulla fronte, come ce l’ha Sherlock.

Come ce l’ha lui.

Q avrebbe dovuto saperlo. Lo sapeva.


Il punto è che, in realtà, dentro di te non lo sai mai.



    ***



Il cellulare squilla.

Non è di Sherlock, non è di John.

E’ una strana musica, forse la sigla di qualche serie tv geek. O nerd. O come diavolo si dice.

Q non si muove.

Il suo cervello, la sua anima, e il corpo, non vogliono tornare alla realtà, ed è una sensazione conosciuta da tutti, in quella stanza.


John prende il telefono di Q abbandonato sul tavolino da caffè, e legge il nome che lampeggia.

Gareth Mallory.  


“Sherlock...”



            ***



L’auto nera mandata da M si dirige al MI6.



Vola sull’asfalto, nel traffico.

Vola con i lampeggianti di emergenza accesi e l’arroganza della grossa berlina governativa.

Vola perchè M ha detto all’autista qualcosa tipo: ”ti stacco la testa personalmente se non lo porterai qui in 5 minuti precisi di orologio.”

Ed M è uno di parola.


Eve è seduta accanto a lui.

Dolce Eve.

Se Q ha mai pensato a una donna adatta per James, questa è lei.

Lei, che lo ha quasi ammazzato e non ha perso il controllo.

Non ha perso di vista l’obiettivo.

Lei, non sé stesso.

Fragile. Inutile. Disperato, nonostante tutte le promesse.


I pneumatici stridono quando l’auto si ferma nel parcheggio sotterraneo dell’immenso palazzo di vetro e cemento che sembra poggiare sul Tamigi stesso, come un buddah squadrato e indifferente.

Eve non accenna nemmeno a uscire dalla macchina.

“Resterò qui per un po’.” dice.


Ma Q sta già correndo verso uno degli ascensori interni, da ore.

Da tutta una vita.



        ***


E quando lo vede, James resta fermo e abbandona le braccia lungo i fianchi.

E’ una saletta angusta, illuminata di luce artificiale livida, che rende tutto grigio.

Q si appoggia di spalle alla porta chiusa dietro di sé e respira a grandi sorsate.  

Resistere.

Resisti!

James lo fissa, tutto occhi, e con la bocca che si socchiude appena e accenna a dire... cosa?

Cosa può dire uno che è stato morto per un poco?

Cosa può dire uno che ne ha ucciso inconsapevolmente un altro?


Resisti!

Perché questo discorso lo hanno fatto tante volte, e mai abbastanza.


- Quando morirò, amore, promettimi che sarai forte.   


- Farò quel che posso.


- Prometti. Niente drammi.


- Non sono così fragile.


- Nemmeno io lo ero, fino a Vesper.


- Continuerò, come hai fatto tu.


- Prometti. O la finiamo qui.


- Prometto. Sai che posso farlo.



Le promesse vanno mantenute.

Nonostante la bocca si serri per soffocare i singulti.

Nonostante le ginocchia cedano e il battente della porta scorra lungo la schiena mentre Q scivola per terra, anche se non vuole.

Anche se l’idea di continuare... continuare cosa?... è stata per tutte quelle ore una barzelletta oscena sulle labbra di un comico scadente.

Ma James non deve saperlo.

James che adesso è addosso a lui e lo sostiene per le braccia e lo afferra per la vita e lo supplica nell’orecchio no, no, vieni su, è stato un errore, non ero io, non ero io, amore, non ero io, no, resta su, no, ma poi cede insieme a lui, e scivola per terra insieme a lui, su quella terra che li deve tenere inchiodati a sé, perché deve, se no non sarebbe giusto, e deve trattenere il calore corporeo che Q sente attorno a sé, mischiato all’odore acre di bruciato e polvere che James ha addosso, e nel quale Q singhiozza a denti digrignati, perché credeva di poterlo fare... e invece non può.

Q non può promettere niente di tutto ciò che ha promesso.


Ma adesso non ha importanza.

Non in questo momento in cui tutta la vita ritorna roboante nelle sue orecchie, insieme alla circolazione sanguigna che gli esplode nelle vene.


James era morto e ora non lo è più.

Questo conta.

Non se sarà ancora suo o meno.



    ***



Notte. Casa.

Occhi spalancati nel buio.

Braccia e gambe serrate come metallo attorno a James.

Naso nel suo collo, tra i suoi capelli.

Il cuore va talmente veloce che ogni tanto perde qualche battito.

Extrasistole, le chiamano.

Un battito prematuro, ossia una contrazione del muscolo cardiaco che avviene prima del previsto, alterando la successione regolare dei battiti nel ritmo sinusale.

James ha bisogno di dormire, ma si assopisce per pochi minuti alla volta e poi torna da lui, a guardarlo a sua volta nel buio.

Non lo lascia solo.

Un agente double-oh non può farsi carico anche di questo.

Perché questo è ciò che gli farà commettere lo sbaglio definitivo.


“Dormi un po’, amore.”

Sono labbra screpolate e soffuse di dolcezza, e si posano sul suo zigomo, e poi vicino al suo orecchio, sotto la sua mandibola.

“Sì, adesso dormo. Dormo.”
Q si sistema meglio e mente con il corpo.

Rilassa le braccia, senza lasciare la circonferenza calda e rassicurante del corpo di James, ma districa le gambe dalle sue, e reclina la fronte nel suo collo.

Fingerà di dormire fino al mattino.


    ***


Al mattino, invece, scopre che a un certo punto il corpo ha ceduto e Q ha dormito veramente, per un po’.

Tanto basta a fargli riaprire gli occhi e ritrovarsi solo.


“James?”


“Double-oh-seven.”


“James!?”


“Double-oh-seven!”


“JAMES!”


“Double-oh... ”



Qui. Dice una voce da un’altra stanza. Sono qui.



Ed è in cucina che lo trova.

Seduto... no, piegato, su una panca, un gomito appoggiato ad un mobile adiacente, l’altro puntato sulla propria coscia nuda, un bicchiere di scotch in mano.

Alle sette del mattino.

Il capo è reclinato in avanti. Le belle spalle, curve.

Q tende una mano, timidamente, e sfiora con le dita le punte pallide dei capelli color miele, irte come aculei.

Ed è sempre Q che, adesso, si abbassa lentamente sulle ginocchia, al suo livello, e fa scorrere le mani attorno alla sua testa, ferma i palmi sulle sue guance non rasate, lo costringe a guardarlo.

Vede un uomo graffiato.

Vede la sue rughe, una per una, e la curva della bocca che tende all’ingiù. Vede gli occhi celesti opachi di fatica, di pensieri e caos.

Colmi di... paura.

Il suo pollice traccia una linea immaginaria sullo zigomo un po’ livido di Bond.

“Sono stanco.” dice James. La sua voce sembra provenire da un altro pianeta.

Q gli sorride lievemente, incredulo.

“E vecchio. Stanco e vecchio.”

Beve una profonda sorsata di scotch. Lo finisce tutto.

“Non dovresti stare con uno come me.”

Q gli sfila il bicchiere dalle mani e lo posa sul mobile accanto, e poi riporta i palmi attorno al suo viso, nella stessa identica posizione.

“Me ne troverei un altro. L’MI6 è pieno di gente come te.”

James sorride sarcastico.

“Morirebbe anche lui, a meno che tu non ti riferisca a Tanner.”

“Oh, dio. No.”

Per un attimo, quasi ridono insieme.

E poi l’attimo è andato.


“Voglio smettere.”


Q respira più veloce per una frazione di secondo.


James si strofina gli occhi con la base dei palmi.


“Voglio smettere.” ripete.


“Per me? James...”

Q gli tira via le mani dalla faccia. Costernato.

“Per me?”


“Per me.” mente James.

“Perché sono stanco, e non me ne frega più niente. E presto farò una cazzata.” E questa, invece, è parte della verità.

Il resto di essa lo sta fissando fuori fuoco perché non indossa gli occhiali.


James divincola un polso e accarezza la guancia delicata di Q.


“Sono a casa, e voglio restarci.”


Q non si fa domande.

Non è così stupido.

Non è tipo da gesti nobili.

Da no, non te lo permetterò, è la tua vita, James, non pensare a me, a noi.

Quando ti capita un colpo di fortuna, lo afferri, cazzo.


Si sporge piano in avanti e appoggia le labbra sottili su quelle sue, carnose e spaccate.

La punta della sua lingua lava via con leggerezza impalpabile l’aroma dello scotch, pungente e amaro, e riumidifica la pelle screpolata della bocca di James.


“Ti regalerò una penna esplosiva per festeggiare la pensione.” sussurra.


James ride.

E poi piange, stretto forte a Q.








 








 





           





 




  
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