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Autore: Lilith in Capricorn    03/03/2013    2 recensioni
Un piccolo paesino in cima ad un picco, un caldo torbido di mezzogiorno, un poeta in viaggio e l'incontro con la morte, incarnata in una misteriosa donna con artigli di aquila negli occhi.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so bene come introdurre questa storia. L'aquilegia è un fiore di cui spiego brevemente le caratteristiche all'inizio del testo e proprio le sue caratteristiche e la sua forma particolare mi hanno ispirato tre anni fa questo breve racconto misterioso con un finale sospeso.
Non sono molto legata a questa storia, comunque avevo voglia di pubblicarla, quindi spero che vi piaccia questo mio piccolo delirio!
Buona lettura!



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Sembra quasi che con la sua forma strana, i suoi colori così particolari, se le sia un po’ cercate, le tante leggende che le sono nate intorno.
A partire dal nome, che richiama sia un contenitore d’acqua (dal latino “aquilegium”), sia la regina dei rapaci, l’aquila (forse per i suoi corni che somigliano ad artigli).
 
Nessun innamorato offrirebbe questo fiore all’amata, anche perché nel linguaggio dei fiori esprime il capriccio, la lussuria più sfrenata, l’egoismo e l’ipocrisia.
Come dice il poeta Paolo Mantegazza, l’aquilegia è un «Fiore buffo, grottesco, ricco di corna, che non sarà accarezzato da donna alcuna, colto da nessun innamorato, così come volle un potente mago».
 
La tossicità di questa pianta è molto alta, è una pianta velenosa poiché il suo contenuto in glicosidi cardioattivi è altissimo, queste sostanze danneggiano principalmente il cuore e provocano crampi, difficoltà respiratorie e aritmie.
 

*****

 
Sinuose, incandescenti trasparenze si levavano languide dalle antiche pietre della piazza del borgo del paese, che quasi pareva volesse spaccarle col proprio calore, quel rovente sole allo zenit.
Non un’anima osava avventurarsi per quelle lande aride, arroventate e spazzate da soffocanti sbuffi di garbino, con la fronte madida di sudore e gli occhi schiacciati giù da una luce di tale intensità che rendeva impossibile persino osservare il cielo, qualunque orizzonte si tentasse di esplorare.
 
Qualcuno, in paese -chissà chi?- aveva detto che quel giorno il sole era come un giovane re capriccioso che costringeva a capo chino, con i suoi raggi accecanti, tutti i suoi sudditi, per ricordare loro chi era il divino sovrano, e che né i ghiacci dell’inverno passato, né le nuvole dell’autunno che di lì a qualche luna sarebbe giunto, avrebbero mai potuto spodestarlo dal suo trono celeste.
L’estate è l’età dell’oro del sole, il suo periodo di massimo splendore, quello in cui riversa sui propri domini una cornucopia di raggi, partoriti e pasciuti durante il lungo riposo invernale, come innumerevoli, invisibili, languide braccia che arroventano la terra col loro tocco incandescente, cavalcando pesanti destrieri di soffi di garbino.
 
Nessuno osava sfidare quel re capriccioso, seduto sul suo trono di zenit, a compiacersi della propria grandezza.
Nessuno osava abbandonare le proprie fresche dimore, per affrontare l’ira rovente dell’accecante astro. Nessuno. Tranne Aquilegia.
 

*****

 
L’impavido poeta era tutto preso, concentrato nello sforzo di mettere un piede davanti l’altro, scottato dall’arido terreno che il signore di tutte le luci terrestri si divertiva a decorare con intricati disegni di crepe profonde.
Facendosi coraggio si arrischiò ad alzare lo sguardo seguendo il tortuoso, erto ed irto sentiero che gli si snodava davanti ai piedi.
Non riuscì a proseguire che per qualche metro in altezza: il paese dove era diretto si stagliava dinanzi allo sfondo di un cielo troppo luminoso per i sensibili occhi umani.
Ma aveva visto alcune antiche case arroccate disperatamente su uno sperone roccioso abbastanza a lungo da potersi rincuorare un poco al pensiero che un fresco tetto e un dolce bicchiere di rinvigorente acqua non distavano ancora molto.
 
Giunto alla porta antica del paese, l’eccessiva arsura lo costrinse a concedersi una breve sosta all’ombra delle mura della parte più antica dell’insediamento.
Seduto lì, con la schiena appoggiata alla pietra calda delle mura, all’ombra della parete di un vecchio edificio bianco, osservava la stretta e lunga stradina ombreggiata dove si era appena arreso alla canicola: deserta.
 
Assolutamente deserta. E silenziosa. Che silenzio, persino il frinire delle pigre cicale era ammutolito lì, arresosi alla sonnolenza e alla stanchezza che aleggiavano nell’aria impregnata di sole estivo. Si domandò se avrebbe incontrato qualcuno, mentre si dirigeva verso il suo nuovo alloggio, fra quella sperduta, solitaria accozzaglia di edifici inerpicati su quello sperone roccioso così esposto alle bizze di agenti atmosferici di ogni genere.
 
Si domandò come si sarebbe presentata quella terra di infernale calura, una volta giunto a termine il periodo estivo, quando le nuvole, le piogge, le tempeste, le nevi ed infine i ghiacci avrebbero avuto il monopolio di quelle terre.
 
Non riusciva ad immaginarselo: quella estate così assurdamente calda e afosa per quelle zone aveva addirittura spinto qualche vecchietto superstizioso a profetizzare -con movenze e orazioni fin troppo teatrali- che Dio avrebbe deciso di scatenare le fiamme ultraterrene e senza fine degli inferi su quelle terre maledette, incendiando i raccolti e arroventando il terreno, rendendolo inadeguato all’agricoltura, per punire quel luogo così saturo di disgustosa, vergognosa malvagità, oltraggio alla divina misericordia.
 
 Quando qualche giorno prima aveva ascoltato con le proprie orecchie uno di quelle profetiche orazioni, folte di bibliche promesse di morte e devastazione, lui aveva a stento trattenuto una risata, senza però riuscire a soffocare un leggero risolino, che sarebbe immediatamente divenuto motivo di imbarazzo.
Nessuno, infatti, a parte lui, ci aveva trovato nulla di divertente.
 
«Ah, ma che ne sapete voi… voi che ne sapete di quale immondo essere abiti queste terre un tempo pure e immacolate di divina misericordia…»
Lui non aveva saputo cosa rispondere a quelle parole, se non che non aveva incontrato nessuno di così orribile e riprovevole, durante il suo breve soggiorno e che, anzi, aveva trovato i pochi abitanti di quel luogo tutti molto gentili e timorati e che non aveva notato nel paese alcuna traccia di quel male che il vecchio faceva tanto disgustoso e radicato.
Per tutta risposta l’anziano profeta aveva emesso una breve, cupa risata, del tutto priva di ogni minima traccia di allegria.
 
Mentre ricordava il curioso episodio di quel giorno, il poeta neanche si era accorto di essersi alzato da terra e rimesso in cammino lungo la viuzza deserta e di essere giunto in prossimità della piazza principale del paese.
Neanche aveva messo piede nell’assolato piazzale, che un suono lo riportò alla realtà imminente e all’afa del mezzodì: un’aquila.
 
Maestosa in cielo, con le ali spalancate e ferme, affrontava impavida l’indiscusso re celeste, facendo risuonare per le lande deserte il suo acuto, cristallino grido di battaglia.
Ora volteggiava proprio sopra la piazza, tra il campanile e gli uffici di giustizia, fra la morale santa e quella legale, disegnando sulle pietre traiettorie imprevedibili e irregolari, apparentemente volteggiando senza meta, solo per il gusto di sfidare il clima impossibile.
 
Seguendo oziosamente l’ombra scura del suo volteggiare aereo, gli occhi del poeta incontrarono all’orizzonte una seconda figura, un secondo impavido che non temeva il sole con la sua luce, con il suo fuoco.
La luce era accecante, insopportabile e rimbalzava sui candidi edifici del paese, amplificandosi e saturando l’aria.
Eppure, nonostante quel bagliore di un’intensità che pareva volesse sciogliere gli occhi a chiunque avesse osato affrontarlo, lui non poté fare a meno di spalancarla i propri, di fronte alla visione surreale che l’ombra della regina dei voli gli aveva voluto mostrare.
 
Lei stava lì, immobile. Perfettamente immobile. Anche troppo, tanto che l’avrebbe presa per una statua, se il biondo frusciare dei suoi capelli al vento non ne avesse tradito la natura umana.
Eppure, a guardarla meglio, umana non pareva proprio. No, affatto.
Quale umano avrebbe mai potuto fissare il sole?
Fissare intensamente, perdutamente, i sublimi raggi di un sole allo zenit, in piena estate, la più torrida che avesse mai assediato quei luoghi a memoria d’uomo? Nessuno, assolutamente.
 
Chiuse gli occhi per diversi secondi e se li stropicciò a pugni chiusi.
Dio, quanto era intensa la furia del sole, quel giorno! Aveva immaginato tutto, di certo. Probabilmente le incandescenti trasparenze che aleggiavano nella piazza dovevano avergli offuscato la vista.
Chissà, probabilmente persino la donna non era stata che un miraggio.
Riaprì gli occhi provati. Lei era ancora lì.
 
Avvolta nei suoi leggeri abiti neri, fissava intensamente il sole proprio sopra di sé, ad occhi spalancati.
Di nuovo, credette si avere davanti a se un monumento: quella donna aveva una pelle troppo chiara, innaturale, quasi marmorea.
Eppure respirava. Ne era certo, il movimento lento e sensuale di quei piccoli seni coperti di nero tessuto che si sollevavano e si abbassavano ritmicamente, non poteva essere frutto di una distorsione degli ondeggianti miraggi di calore.
Non seguivano lo stesso ritmo: le dita di fuoco trasparente erano devoti al vento e al sole; lei era devota solo a sé stessa e al ritmo dei propri palpiti. Lei apparteneva a sé stessa e a nessun altro.
 
Il poeta rimase lì, incantato a fissare lei e lei rimase lì, incantata a fissare il sole, ancora a lungo.
Lui doveva chiudere spesso le palpebre e massaggiarle, lei abbassava dolcemente e lentamente le sue solo di tanto in tanto, come se puntare le pupille verso la più intensa di tutte le luci fosse una cosa del tutto naturale.
Come ci riusciva? Cos’avevano i suoi occhi di diverso, di speciale?
I suoi occhi… non ne distingueva bene il colore, da lì… senza rendersene conto, fece per avvicinarsi a quell’apparizione angelica, il corpo candido di neve, i capelli leggeri d’oro solare, che il vento si divertiva a far volare nell’aria… quando si accorse di non essere sola abbassò gli occhi.
 
Gli occhi! Il poeta rimase pietrificato, immobile, incapace di proseguire, di parlare, persino di respirare.
L’aveva creduta un’illusione, l’aveva creduta una statua, l’aveva creduta un prodigio angelico… non avrebbe mai creduto che ciò che gli stava di fronte e che con tale superbia osava sfidare il re dei lumi era… un demonio!
Erano gli occhi… quegli occhi… di quel colore così strano, a metà fra il blu e il viola, mai apparso su di un volto umano… ma non era il colore la nota più inquietante a risuonare sulla pelle dal naturale pallore abbagliante: era ciò che stava dietro il colore.
 
L’aquila.
Tutta la cupidigia, il capriccio, la bramosia, l’egoismo dei micidiali, ricurvi artigli dell’avido rapace, che volava tra il campanile e il palazzo di giustizia, tra la morale santa e quella legale, ma senza curarsi né dell’una né dell’altra, senza curarsi di nulla e di nessuno, senza temere nessuna forza suprema, sfidando persino il sole, guardandolo dritto nel suo volto proibito.
Come se non esistesse nulla per lei, se non l’oggetto della sua bramosia, del suo cupo capriccio: la preda.
 
L’ignaro topolino di campagna zampetta tra le spighe bionde arse dall’astro allo zenit, del tutto incurante del grande male che dall’alto lo osserva, lo studia paziente.
L’aquila non ha fretta.
Sa che nulla può ostacolarla.
Sa che la povera bestia non può sfuggirle in alcun modo.
Il fatto che lei ancora zampetti serena fra gli aridi campi non conta nulla: è già sua a tutti gli effetti.
Perché quando l’aquila punta i propri occhi crudeli e bramosi sulla preda, in quello stesso momento, essa può dire addio alla propria esistenza.
È già morta. Solo che non se ne rende conto. Non ancora.
 
Il poeta non osò nulla. Nulla.
Non riuscì nemmeno a staccare gli occhi da lei, quando il calore si fece troppo intenso per le proprie possibilità.
L’aquila aveva già puntato gli occhi dal colore irreale sulla propria preda.
Ora non restava che aspettare il momento in cui si sarebbe lanciata in picchiata sul malcapitato.
 
«Tu devi essere mio» gli disse.
 
E in quel momento il poeta comprese che stava guardando negli occhi la propria morte.

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