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Prologo
–
Ricordo
che riuscivamo a vagare per notti intere, il tasso alcolico
esageratamente
sopra la media, la sigaretta girata sempre in bocca, senza una meta,
senza una
destinazione se non quella dell’infinito. E anche il tempo
sembrava non avere
alcuna importanza: scorreva veloce, eppure pareva scivolare lentamente,
con la
grazia tipica di uno di quei felini africani. Nulla aveva una
particolare
importanza, ma nello stesso tempo ogni cosa era essenziale e niente
poteva
essere trascurato. Vivevamo in un perenne stato di allerta dei sensi,
ricettivi
come non mai grazie agli stupefacenti. Sentivamo,
toccavamo, osservavamo, assaporavamo, inalavamo. Era tutto
un tocca e fuggi
senza fine, che sembrava averci del tutto estraniati da quella che
sembrava
essere la società. Società che ci ripudiava, ma
che, segretamente, ci
idolatrava e ci invidiava. Perché noi eravamo folli,
totalmente ed incondizionatamente
folli. Ma eravamo liberi, liberi come solo i pazzi riescono ad esserlo,
perché essi
non si pongono alcun limite, non hanno restrizioni morali o
legislative.
Eravamo
dei veri animali allo stato brado, alla conquista del mondo con le
borse in
mano e i soldi per comprare un pacco di tabacco.
Eravamo
il sogno proibito che ogni persona avrebbe voluto esaudire; gli uomini
sposati
che passavano le giornate tra lavoro e famiglia ci rivolgevano occhiate
invidiose, ma noi non ci fermavamo. Mai. Sfrecciavamo sulla strade
selvagge,
trattando la città come una giungla, cercando di
sconfiggerla e sopravvivere
tra il serpente di asfalto.
Non
avevamo alcuna meta, alcuna destinazione. Il nostro unico scopo era
oltrepassare ogni limite, divenire gli eroi ripudiati, buttare
giù tutti i muri
dei pregiudizi.
Eravamo
folli.
Folli senza
limiti.
Passavamo
le giornate tenendo nella mano sinistra Baudelaire e in quella destra
una
canna, mentre la mente iniziava a vagare per posti ignoti, inseguendo
creature
inesistenti eppure così estremamente reali da essere riviste
il giorno dopo.
Ma il
nostro reame era la notte, la notte e tutte le sue sfaccettature,
perché era in
quel lasso di tempo oscuro che la nostra luce esplodeva e abbagliava
ogni cosa
che venisse a contatto con noi. Danzavamo nel mare, mentre i suoi capelli dorati galleggiavano
sull’acqua, formando un tappeto. Danzavamo e lei cantava, con
quella sua voce
surreale, che toccava note inesistenti e ti trascinava in universi
paralleli… e
allora io non esistevo più, no, ero solo suo, suo, suo. Suo
e della sua voce irreale.
Suo e del suo profumo di erba.
E
ancora una volta venivamo accolti nei castelli dell’infinito,
mentre il mondo
ci ruotava intorno e la luna ci sorrideva silenziosa.
Mia
madre mi guardava con disprezzo ma a me non importava,
perché il tempo scorreva
veloce e lento e lei non vedeva. Lei non capiva.
Non
capiva che i limiti non erano nulla, se non barriere inventate dalle
consuetudini.
E a
noi, le consuetudini, non piacevano affatto.
Eravamo
piccole lucciole e potevamo apparire innocui, ma in realtà
risplendevamo di
luce propria, senza aver bisogno di elettricità.
Liberi,
così liberi…
Il
mondo era nostro, pronto per essere conquistato da un gruppo di giovani
anticonformisti, che cavalcavano un’utilitaria malconcia,
dotata di una piccola
radio sfruttata fino alla fine.
E noi
urlavamo nella notte, mentre la voce di Jim Morrison faceva da
sottofondo alla
nostra pazzia, al nostro essere così dannatamente in vita.
Vivi
erano i suoi occhi profondi quando ti guardava, quando ti scavava
dentro
l’anima e tu non potevi fare nulla se non lasciarti sondare,
se non farti
toccare da quelle piccole mani.
Darei
qualsiasi cosa pur di sentire ancora una volta la sensazione dei suoi
occhi nei
miei.
Anche
se il gruppo era fatto pressoché di ragazzi, lei
era il nocciolo di esso, era la ciliegina sulla torta per la
quale tutti smaniavamo. E anche quando la possedevo sapevo che era lei
a
possedere me.
Sto
ancora cercando, dopo tutti questi anni, un termine che possa
descriverla, ma
non esiste, perché lei era… lei era oltre.
Era il sale che dava condimento alla mia vita, era il mio
essere vivo.
Come
dimenticare le giornate trascorse a fare niente e a fare tutto?
Guardavamo il
cielo e ci rispecchiavamo nella sua ambiguità, nel suo non
avere una fine, nel
suo essere profondamente senza confini.
Lei si
sedeva a cavalcioni sulle mie gambe, fissava i suoi occhi nei miei, e
mormorava
con la sua voce vellutata che non c’era niente che non
avremmo potuto fare, che
la vita era solo l’inizio, che bisognava imparare il
significato del verbo vivere per
poter dire di averlo fatto.
E noi
lo abbiamo fatto.
Noi
abbiamo vissuto.
Succede
ancora, a volte, che esco in balcone, nelle notti in cui il caldo
sembra voler
sciogliere ogni cosa, e osservo l’orizzonte sopra il mare
blu.
Ed è
in
quelle notti – le notti infinite,
le
chiamavamo – che chiudo gli occhi.
Chiudo
gli occhi e le sue mani sono su di me.
Chiudo
gli occhi e bevo una birra insieme a Tom.
Chiudo
gli occhi e sfreccio, sfreccio per le
strade asfaltate.
Chiudo
gli occhi e sono senza limiti.
Chiudo
gli occhi e vivo.
*
Angolo
di Eryca
Grazie a Vì per aver betato.
Sono
tornata nella sezione Originali
Romantiche per triturarvi i cosiddetti con una nuova storia, concepita
dopo
aver passato un’intera giornata a bombardarmi il cervello con
i Doors.
Si
tratterà di una storia ambientata
durante i Sixties – i famosi e ribelli anni Sessanta
– narrata dal
protagonista, che ripercorrerà gli eventi della sua
gioventù e della sua
mistica relazione con la donna di cui si parla in questo prologo; la
loro sarà
una storia d’amore passionale, intesa e ricca di colpi di
scena, ma anche di
follie (perché è di questo che si parla).
Ci
saranno pazzie, anticonformismi,
spiritualità, droga e rock n’ roll. :D
La
vicenda si svolgerà per le strade,
durante un loro viaggio particolarissimo verso... un posto che
scoprirete se
andrete avanti a leggere! (Il sadismo di una fanwriter non ha limiti
u.u)
Per
dubbi, informazioni o per inutili
chiacchiere, ecco il mio facebook: Eryca
Efp
Fatevi
sentire in tanti e datemi i vostri
pareri, ragazzi :)
Vostra,
Eryca.