DUDE LOOKS LIKE A LADY
Erin era una ragazza sorridente.
Aveva appena compiuto diciannove anni, un'età abbastanza
difficile, a cavallo
tra l'adolescenza e la maturità. Le piaceva stare all'aria
aperta, le piaceva
la natura. Le piaceva il sole, ma anche la pioggia; amava l'inverno, la
neve,
il freddo e la condensa sul vetro quando ci soffiava sopra, ma le
piacevano
anche il sole, l'erba verde, il caldo e il mare. Viveva ogni giorno
ascoltando
musica, canticchiando nella testa oppure mugolando le sue canzoni
preferite. Di
solito si affezionava a quelle più trasmesse alla radio e
non riusciva proprio
a togliersele dalla testa.
Le piaceva molto disegnare, dipingere e giocare con la creta. Era il
suo
passatempo preferito passare ore ed ore a ritrarre di tutto: dal
soprammobile
al gattino che passava, dal fiore appassito nel vaso ad uno sconosciuto
che
aspettava il tram. I suoi disegni stavano tutti raccolti in una
cartellina che,
mese dopo mese, diventava sempre più gonfia fino a
scoppiare. I ninnoli che
aveva sul comodino erano tutti stati fatti da lei: prendeva la creta o
qualsiasi altra pasta malleabile e ne faceva un fiore, oppure una finta
sveglia
che segnava sempre le dodici esatte, versione notturna mezzanotte, la
sua ora
preferita.
Se le chiedevano che cosa le sarebbe piaciuto fare un giorno non
avrebbe
risposto 'l'artista', bensì avrebbe detto che le era sempre
piaciuto diventare
avvocato, combattere le ingiustizie e spedire in galera i criminali.
Aveva
un'idea molto romanticizzata di quella professione, forse le piaceva
soprattutto perchè anche suo zio Otto era un avvocato ed
aveva passato molto
tempo delle sue vacanze dalla scuola, quando era piccola, nel suo
ufficio, a
guardarlo mentre lavorava.
Insomma, Erin sembrava una ragazza normale, con delle aspettative sul
suo
futuro del tutto plausibili, dei gusti non molto diversi da quelli dei
suoi
coetanei.
Eppure non lo era.
Erin, oramai, non faceva più caso ai giorni che passavano,
abituata oramai ad
una routine che non aveva niente di normale. Non era sempre stato
così, c'erano
stati giorni in cui non si era sforzata di vivere la propria vita,
perchè
niente era riuscita a tenerla ferma. C'erano stati giorni in cui aveva
vissuto la
sua vita.
Ora non più.
Erin non era nemmeno più la stessa.
Aveva sempre pensato che non ci sarebbe mai stata una medicina adatta
per la
sua malattia.
Le sue giornate trascorrevano passivamente, un giorno dopo l'altro,
nella
clinica di recupero dove l'avevano spedita i suoi genitori. La scusa
ufficiale
era che la ragazza aveva avuto bisogno di cure per una malattia
particolare. Ma
non era proprio così…
Quella mattina si svegliò di cattivo umore, proprio non
voleva scendere dal
letto. Aveva fatto un brutto sogno: si trovava in casa sua, nel
corridoio,
vestita del suo pigiama. Davanti a sé vedeva i suoi
genitori, seduti sul
divano, a guardare la tv imbambolati. Lei aveva iniziato a camminare
per andare
verso di loro, ma il pavimento le scivolava sotto i piedi e lei finiva
stremata
a terra, senza essersi mossa di un millimetro, mentre i suoi rimanevano
sempre
incollati alla tv.
Due sole le cose che avevano reso quel sogno un incubo: la televisione,
oggetto
da lei sempre odiato, e i suoi genitori, con i quali aveva un rapporto
del
tutto anormale. Accantonò il sogno in fondo alla mente e si
alzò dal suo
lettino, per andare in bagno a darsi una rinfrescata. Mentre si
sciacquava la
faccia, sentì la sveglia suonare, come sempre inutile
perchè si era svegliata prima
di lei.
Dopo aver rifatto il letto, si tolse il suo pigiama.
In maglietta extra large e pantaloni di una vecchia tuta,
andò nella sala
mensa, dove avrebbe raggiunto tutti i suoi compagni di disgrazie, come
li
chiamava lei. Erano lì per molti motivi, ma la prima cosa
che si imparava in un
posto del genere era non giudicare l'altro, perchè tutti
erano sulla stessa
barca, in pericolo di naufragio da un momento all'altro. Nella
categorizzazione
caustica di Erin, c’era un sessanta per cento di anoressiche
e bulimiche, un
dieci per cento di ex tossici, venuti da una struttura collegata a
quella
clinica, un altro dieci per cento di depressi e esauriti e un finale
venti per
cento di disgraziati misti, tra cui si contavano alcolisti, dipendenti
da
psicofarmaci e così via. Ma che bel posto per un
adolescente! Per non parlare
degli strani tipi che abitavano agli altri piani della clinica
Sellers…
Si sedette al solito posto, vicino alla finestra, con il vassoio di
fronte a
sé. Attese che il latte bollente che aveva preso al bancone
del self service si
raffreddasse, poi vi versò il caffé, vi
sbriciolò dentro alcuni biscotti e la
pappa fu pronta. Fuori, il sole faceva fatica a respirare per colpa di
grossi
nuvoloni neri all'orizzonte, che minacciavano pioggia in arrivo.
"Giorno Erin.", disse svogliatamente la persona che le si sedette
davanti.
"Giorno Gero.", gli rispose lei.
Gero era un suo coetaneo, conosciuto là dentro, che aveva
avuto problemi di
dipendenza da psicofarmaci, più precisamente abusava di
tranquillanti, per
colpa di un brutto trauma familiare, ma a lui non piaceva che se ne
parlasse.
Capelli a caschetto perennemente spettinato, un ciuffo impertinente
sulla
guancia destra, occhi chiari e sempre un sorriso sarcastico sulla
faccia.
"Dov'è Bea?", le chiese lui, mentre versava dentro al latte
una
quantità industriale di cereali.
Aveva la fortuna di avere un conto in sospeso con la donna che
riforniva il
bancone della colazione: lui non avrebbe detto alla direttrice che
fumava nei
bagni, lei gli avrebbe dato doppia razione di quello che voleva.
"Non accanto a me.", disse lei.
"Ah, eccola, è al bancone."
Bea, invece era di qualche anno più grande di loro, e stava
lì solo da circa
sei mesi. Capelli rossicci, mossi, lentiggini su tutta la faccia e
un’altezza
sopra la media. Diagnosi: bulimia; tempo di guarigione stimato: molto.
Arrivò
al tavolo silenziosa, vassoio di contenuto simile a quello di Erin. Si
sedette
con loro e, sempre muta, iniziò a mangiare la sua colazione.
"Gero, hai visto Bea?", chiese Erin ironicamente al suo amico,
facendo finta che lei non ci fosse.
"A dire il vero non l'ho neanche mai sentita.", fece lui, ignorandola
a sua volta.
"Dai, piantatela.", rispose Bea, "Ho avuto una
nottataccia."
"Cosa è successo?", le domandò Erin.
"Un'infermiera mi ha beccato mentre cercavo di corrompere quelli della
cucina.", rispose lei, mentre spappolava un biscotto nel latte con il
cucchiaio.
"Un'altra volta!", esclamò Gero, "Lo sai che se continui
così ti
cacciano via?"
"Lo so... ma avevo fame! Cosa ci potevo fare?", si
giustificò lei.
“Ti chiudevi in camera e festa fatta!”, le disse
Erin.
“Siete tutti santi quando sono io a combinare
casini.”, si lamentò Bea.
“Certo che sì!”, fece Gero.
“Dai, facciamo come vuole la signorina Pound, stringiamoci in
un bell’abbraccio
fraterno!”, disse Erin.
“Vai a fanculo, insieme alla signorina Pound!”,
disse Gero, facendo ridere Bea.
Purtroppo la volontà di quella ragazza era sempre messa a
dura prova dalla sua
malattia e i suoi due amici sapevano quanto era importante riuscire a
farla
ridere: così, nei momenti in cui era giù,
tiravano fuori sempre la signorina
Pound, quella che teneva le ore di psicologia di gruppo, e che forniva
loro
sempre buoni spunti comici. Era una signorina, benché avesse
una cinquantina
d’anni, bassa e grassoccia, che veniva spesso preso in giro.
“Lo sapete cosa ho sentito, mentre ero in fila per la
colazione?”, disse Bea,
dimenticandosi della sua disavventura notturna per riferire loro
l’ultimo
pettegolezzo che circolava. Non sembrava, ma i tre erano tra i
più pettegoli di
tutta la clinica e si divertivano a raccogliere tutte le dicerie in un
quaderno, finito più volte sotto il sequestro della
direttrice, altra figura
molto amata dal trio.
“Perchè devi essere sempre tu ad avere
l’orecchio più lungo di noi!”,
protestò
Gero, al quale non capitava mai di catturare le chiacchiere di
passaggio.
“Tenetevi forte ragazzi! Questa è proprio
bella!”, fece Bea, “Dice che al piano
di sotto ci sia una celebrità!”
“E capirai!”, esclamò Erin,
“Io pensavo che stessi per dirmi che quella
smorfiosa di Ada fosse rimasta incinta di Gero.”
“Ah… ah… ah…”,
rise sarcasticamente il ragazzo. Per qualche mese si era preso
una cotta per questa stramaledetta Ada, un’altra delle
ragazze del loro piano,
e da quella volta Erin non faceva altro che rammentargliela per
prenderlo in
giro.
“Ragazzi, dico sul serio! Dice che sia arrivato qui circa due
o tre settimane
fa.”
“Allora è un uomo…”, disse
Gero, guardando Erin come per dirle che aveva un
pretesto per scherzare come faceva lei con lui.
“E quindi? Cosa ci farebbe qua un riccone quando potrebbe
benissimo prendere il
primo aereo e andare a curarsi in California?”, disse Erin,
ponendo un quesito
fondamentale. Di certo una clinica sperduta nelle zone del sud della
Germania
non era il posto ideale per quelli, abituati a vivere alla grande,
“Qua non ci
sono camere di lusso, nè camerieri personali e il cibo fa
schifo. Secondo me è
una balla.”
“Hai dipinto questo posto come una merda!”, disse
Bea.
“Perchè? Che differenza
c’è?”, fece Gero.
Prima di andare alla solita ora di terapia psicologica collettiva della
signorina Pound, Erin fece un salto in camera sua, accompagnata da
Gero. Bea
rimase in sala colazione a ficcare il naso qua e là, non
l’avrebbero poi più
rivista fino al pranzo, aveva altri orari. Loro due, invece, erano
entrati
nella clinica più o meno nello stesso periodo e erano stati
sistemati in camere
una di fronte all’altra. Questo aveva aiutato la loro
amicizia, cementata non
solo una notevole affinità di carattere: entrambi molto
strafottenti, si
divertivano a prendere in giro i medici e gli psicologi, e pensavano
che quel
posto fosse l’inferno dipinto di santità. Tutto
bianco, tutto lindo, fuori il
giardino sembrava il posto più idilliaco della terra.
Tutto così falso, pensavano i due.
“Arriviamo tardi come sempre alla lezione di vita sociale
della Pound?”, chiese
Gero ad Erin
“Stavolta no o mi sorbirò di nuovo le sue
prediche…”, fece lei, mentre apriva
la porta della sua stanza.
“Ma guarda cosa ho qui…”, fece lui,
tirando fuori due sigarette dalla tasca dei
suoi pantaloni.
“Te le ha date Polpettone?”, disse lei,
rimproverandolo con lo sguardo.
Polpettone era il nome amichevole che Gero aveva dato alla vittima dei
suoi
ricatti a base di doppie porzioni di cibo, cioè
l’impiegata della mensa.
“Certo che sì. Oramai è nelle mie
mani.”, fece lui, con soddisfazione.
“Nascondile bene e non farmi passare guai. Ce le fumiamo
dopo.”, disse Erin,
entrando in camera.
Doveva fare la classica visitina al bagno, ma ci fu qualcosa nella sua
camera
che la distolse.
“Gero! Vieni a vedere… ci stanno provando di
nuovo.”, disse Erin.
L’amico, sentendo quelle parole, entrò nella sua
camera.
“Gesù… non sanno proprio
arrendersi.”, disse lui, vedendo sull’altro letto
una
valigia aperta e mezza disfatta.
Erin, ogni volta che le veniva data una compagna di stanza, faceva di
tutto per
farla impazzire ed andare in lacrime dalla direttrice. La poverina
implorava di
farsi cambiare stanza e, di solito, la direttrice glielo concedeva,
rammentando
a Erin che prima o poi sarebbe stata punita per quello che stava
facendo.
“Cosa le farai? Le metterai gli insetti nel letto oppure le
infilerai nel
cuscino i capelli che ti cadono?”, chiese Gero
all’amica, andando a frugare
nella valigia della nuova arrivata.
“No, lo scherzo dei capelli l’ho già
utilizzato... però gli scarafaggi vanno
sempre di moda!”, disse Erin.
Con la penultima ragazza, Erin aveva messo da parte i capelli che le
rimanevano
impigliati nella spazzola e non le ci volle molto prima di averne
così tanti da
farci una parrucca. La sua capigliatura era indomabile come lei: i suoi
folti
ricci neri però venivano sempre castigati da un bastoncino,
che riusciva a
tenerli raccolti sulla nuca.
“Deve essere una dalle taglie forti…”,
disse Gero, prendendo un paio dei
pantaloni che erano ripiegati nella valigia ed osservano la loro
grandezza con
una risatina sarcastica in faccia.
“Sicuramente un’anoressica che tenta di mascherare
la sua malattia con gli
abiti.”, scherzò Erin, che nel frattempo era
andata in bagno.
“Adesso sarà meglio che vada, sei pestilenziale
quando ti siedi sul vaso!”,
fece l’altro, chiudendosi il naso con la mano.
Una volta ‘scaricato’ il suo
bisogno, Erin uscì dalla stanza, non senza
aver dato un’occhiata al contenuto della valigia. Eh
sì, altro che anoressica,
quelli erano vestiti per qualcuno dalla taglia molto forte,
extra-extra-extra
forte. I suoi occhi scorsero qualcosa che le fecero subito capire il
motivo
della sua presenza in clinica. Prese quell’oggetto, lo
esaminò e se lo mise in
tasca. Chiuse la stanza, recuperò Gero e andarono insieme
all’ora di psicologia
collettiva, presentandosi al gruppo con un grosso sorriso sulla faccia.
Altro che anoressia...
Mentre Kara, una ragazza da poco arrivata alla clinica, si asciugava
gli occhi
ricordando con quanta crudeltà sua madre le diceva sempre
che se non avesse
vinto la medaglia nella gara di nuoto sarebbe stata una fallita,
inducendola
così ad un esaurimento nervoso, Erin si controllava che le
punte dei suoi
capelli non si fossero sdoppiate. Era ovviamente molto interessata
dalla storia
di Kara e della sua prepotente mamma.
Gero, invece, mostrava tutto il suo falso coinvolgimento, versando
lacrime di
coccodrillo e attirandosi le occhiatacce della Pound.
Il gruppo, composto da una dozzina di ragazzi e ragazze, sembrava
invece molto
più attento dei due, che venivano spesso richiamati per il
loro comportamento
irrispettoso nei confronti degli altri.
“Bene Kara… per oggi può
bastare.”, disse la donna, dandole un altro fazzoletto
di carta, “Ragazzi e ragazze, ci vediamo dopo domani alla
solita ora.”
I ragazzi si alzarono e si avviarono verso le porte.
“Erin, per cortesia, ti devo parlare.”, fece poi la
donna, recuperandola mentre
stava uscendo indisturbata insieme a Gero.
Lei, sentendosi richiamare, con un gesto semplice fece capire
all’amico di
aspettarla e tornò sui suoi passi.
“Devo parlarti di una cosa.”, fece la donna,
picchiettando la mano sulla sedia
accanto alla sua per dirle di sedersi lì.
“Ho fatto qualcosa di male?”, chiese Erin, che di
solito era costretta
trattenersi dopo quegli incontri per motivi del genere.
“Beh… sembra strano ma no, non è per
questo. Come sai, ultimamente i problemi
dei giovani stanno aumentando a livelli quasi
esponenziali…”, disse la donna,
con una vocina conciliante da nonnina con i ferri e la calza di lana in
mano.
Erin stava per disconnettere il cervello e non ascoltarla, tanto era la
sua
solita predica.
“E negli ultimi tempi ci siamo trovati a respingere numerose
richieste di
aiuto, cosa che personalmente trovo inaccettabile bla bla bla bla
bla…”, erano
le parole che risuonavano nella testa della ragazza.
“Quindi abbiamo deciso in questo modo. Sei
d’accordo con me Erin?”, disse la
donna, concludendo il suo lungo discorso.
“Sì. D’accordissimo.”, rispose
lei, automaticamente.
“Non è che ti dispiace?”
“Assolutamente no.”
“Molto bene, anzi, benissimo!”, disse la donna,
tutta contenta, “Stai facendo
dei progressi, stai migliorando il tuo carattere! Ne parlerò
positivamente con
la direttrice.”
“Oh, grazie mille, signorina Pound, gliene sarò
molto riconoscente!”, disse
Erin, alzandosi e uscendo dalla stanza.
Quando furono a distanza di sicurezza, Gero le chiese cosa le aveva
detto.
“Boh, non lo so, sicuramente una stronzata.”, fece
lei, mettendosi le mani in
tasca.
Le prossime ore erano dedicate ai lavori manuali, quindi Erin
andò verso la
sala pittura e scultura, mentre Gero andò nella sala
computer, dove stava da
tempo curando il sito internet della clinica. Nella sua ‘vita
precedente’
si era diplomato in informatica ed era capace di fare
pressoché quello che
voleva con un pc, soprattutto se collegato ad internet. Di recente era
stato
punito per aver sostituito un link contenuto nel sito della clinica per
collegarlo con un sito pornografico: gli altri ragazzi lo avevano
decretato eroe
del mese, la direttrice gli aveva proibito di vedere la televisione per
altrettanto tempo, ma con scarsi risultati disciplinari.
Passò il pranzo e Erin fu stupita nel sapere che Bea non era
riuscita a sapere
niente sul pettegolezzo che aveva riferito quella mattina.
“Visto? Era una cavolata!”, le ripetè.
“Mah… sarà… solo che la
direttrice si sta dando un sacco da fare.”, fece lei.
“In che senso?”, domandò Gero, lasciando
perdere le sue patatine fritte per
dedicarsi alla chiacchiera.
“Dice che abbia provato a liberare delle camere, ma che non
ci sia riuscita.”
“Liberare delle camere?!?”, disse Erin.
Se quell’arpia stava buttando fuori le sue pazienti per fare
spazio a qualcuno
di importante, avrebbe giurato su se stessa che avrebbe trovato il modo
di annientarla.
Come si poteva fare una cosa del genere? I malati erano sempre malati,
indipendentemente dal loro status sociale!
“Sì, ma non prenderla sul serio perchè
questa voce viene da Valium.”, fece Bea,
riferendosi ad un loro compagno di disgrazie, uno che era stato beccato
a dare
il Valium ai gatti che giravano nel giardino della clinica,
“E poi ho sentito
che hanno trovato uno che si spacciava per malato, e che invece era un
giornalista.”
“Ho sempre sognato essere immortalato dalla stampa mentre mi
trovo qui
dentro!”, disse Gero, con aria sognante.
“Ma sentite che voci girano… fino a
l’altro ieri il pettegolezzo più quotato
riguardava un’infermiera beccata in atteggiamenti biblici con
un dottore
sposato… ora mi tocca sentire queste cazzate. Non vale
nemmeno la pena metterle
sul quaderno.”, disse Erin.
“Già… certo che
c’è gente che ha veramente poca immaginazione
qua!”, fece Gero,
“Queste storie sono a dir poco inventate.”
Seduta e dondolante sull’altalena, installata nel grande
giardino che
circondava l’eterno della clinica, Erin si era concessa il
suo tipico momento
di solitudine. Ne aveva sempre bisogno, almeno un’oretta al
giorno, tanto per
ritrovarsi con sé stessa, con i suoi problemi e i suoi
fantasmi. Non capitava
di rado di vederla con gli occhi lucidi, ma Erin era una che si
vergognava di
piangere e cercava sempre di far passare quelle lacrime per
un’allergia
passeggera alla natura.
“L’ora della depressione è finita! Gara
di altalene!”, le gridò Gero, mentre
correva verso di lei.
“Dai, lasciami un altro po’ in pace.”,
fece lei, lasciando il luogo che
preferiva di più per rimanere di nuovo da sola.
“Hey… che c’è? Di solito
un’ora ti basta.”, disse l’altro,
seguendola.
“Oggi no, quindi aria, ci vediamo stasera a cena.”,
rispose Erin, con aria
seccata.
“Erin...", la chiamò ancora Gergo. Poi
osservò ii tratti tristi del suo
viso, e comprese. "Sei stata richiamata dalla direttrice. E'
così?”,le
fece, incrociando le braccia.
“Vaffanculo Geronimo.”, disse lei, per farlo
innervosire.
Non voleva essere chiamato mai con il suo vero nome, di solito
funzionava a
farlo allontanare, ma lui sembrava non arrendersi.
“Cosa hai combinato? Ma soprattutto perchè me lo
hai tenuto nascosto?”, disse
lui, andandole incontro.
Aveva capito in un istante cosa c’era che le faceva stare in
pensiero.
“Niente, non ho fatto niente.”
“Hai offeso l’insegnante di pittura.”,
continuò lui, nel tentativo di
indovinare quale crimine avesse commesso la sua migliore amica.
“No…”, fece lei, continuando a camminare
verso il laghetto, altro suo luogo
preferito.
“Hai tagliato una ciocca di capelli ad Ada.”,
ritentò il suo amico.
Da quando le aveva detto che si era preso una cotta passeggera per lei,
quella
povera Ada era diventata l’obiettivo preferito dei suoi
scherzi.
“Magari… comunque no.”
“Hai dipinto una bara, facendo scoppiare a piangere
Ada.”
“Per una volta che non le ho fatto niente!”,
protestò Erin.
Quando faceva quello scherzo crudele a quella povera
malcapitata, la
faceva sempre correre fuori dall’aula in lacrime,
perchè essere chiusa viva in
una bara era un incubo ricorrente di quella poveretta. Ultimamente non
funzionava più perchè Erin veniva mandata sempre
in fondo alla classe di
pittura, cosicché i suoi disegni non potevano essere visti
altro che dalle
pareti.
“Allora perchè ti preoccupi? Se non hai fatto
niente vorrà dire che la
direttrice non avrà da farti il culo come sempre.”
“Boh… non lo so, ma mi sento a disagio. Forse sto
così proprio perchè non c’è
un motivo per cui mi vuole nel suo ufficio…”, fece
lei, sedendosi con l’amico
su una delle panchine che circondavano il laghetto, popolato da un
piccolo
gruppo di anatre e anatroccoli, “Com’è
andata con il sito?”, gli chiese poi,
cambiando discorso.
“Benissimo… non so tra quanto se ne
accorgeranno.”, disse lui, con un sorrisetto
soddisfatto.
“Sei sicuro che funzionerà?”
“Certo che sì.”
“Ti beccheranno stavolta?”
“No… quella parte è tenuta da Vomito.
Sono riuscito a craccare la password che
ha messo per evitare che altri, in pratica solo io, possano entrare
nella sua
sezione e modificarla abusivamente. Così impara ad andare in
giro a dire che
sono un gay.”
Due come loro non potevano stare con le mani in mano e ne avevano
combinata
un’altra: l’idea era stata di Erin, Gero
l’aveva attuata. Nella pagina dove
c’erano le presentazioni di tutto il personale, molte parole
erano state
sostituite, facendo passare la direttrice come una squillo
d’alto bordo e cose
simili.
Altra occupazione preferita dai due: dare soprannomi agli altri
pazienti, di
solito sempre legati ad un segno particolare, che finivano poi per
diventare
caratteristici di quella persona. Vomito era chiamato in quel modo
perchè una
volta fece divertire tutta l’ora di psicologia collettiva
vomitando in diretta
sulla gonna a scacchi della signorina Pound.
“A proposito, mi stavo dimenticando della cosa più
eccitante della giornata.
Guarda cosa ho trovato nella valigia della mia nuova migliore
amica.”, disse
Erin, prendendo dalla sua tasca quello che aveva trovato tra i vestiti
della
sconosciuta che stava per disturbarle il suo sonno.
“Ohi! Ohi! Ohi! Già a rischio
espulsione!”, disse Gero, prendendo la mini
bottiglietta che gli stava porgendo di nascosto Erin,
“Chissà cosa conterrà?”
“Mah, non saprei. Sarà anche incolore, ma non
è di certo acqua.”, fece Erin
sarcasticamente.
“Bottigliette del genere dovrebbero stare sui mobili, non
nelle valige dei
ricoverati…”, osservò Gero.
“Ecco, così ho un’arma in più
per togliermela dai piedi. Ora vado dalla strega
cattiva dell’est.”, fece Erin, alzandosi ed
incamminandosi verso l’edificio.
“Ti aspetto qui!”, le disse l’amico.
“Avanti!”, disse svogliatamente la donna seduta
dietro ad una pesante scrivania
di mogano.
“Mi aveva fatto chiamare, signora direttrice?”,
disse Erin, educatamente.
“Certo, siediti.”, fece lei, senza nemmeno alzare
il naso dai fogli che stava
esaminando.
Erin rimase silenziosamente in attesa che l’altra lasciasse
la sua occupazione
per darle considerazione.
“Non hai da dire niente a tua discolpa, signorina
Geller?”, le disse la
direttrice, alias la temuta signora Popper. Temuta da tutti, ma non da
Erin.
“Non credo di aver fatto nulla di male.”, rispose
Erin, con traquillità
serafica.
La donna alzò finalmente gli occhi dalla carta, si tolse
quegli antipatici
occhialetti e li lasciò appesi al collo, tenuti da una
catenina fatta di
perline d’oro.
“La signorina Pound, sant’anima di questa clinica,
è venuta tutta contenta a
dirmi che finalmente stai cercando di fare qualcosa per il tuo brutto
carattere. Per un momento ho voluto crederle, poi mi sono data della
stupida.
Le persone come te, Erin, non cambiano mai. Quindi cosa hai da dire a
tua
discolpa per aver preso in giro la nostra psicologa?”
“Beh… forse potrebbe anche crederle, in fondo non
sono così cattiva come
pensa.”, disse Erin.
“Stavo leggendo adesso le ultime valutazioni mensili che ti
riguardano. A
quanto pare non stai facendo molti progressi.”,
traversò la direttrice.
Ahi ahi, pensò Erin, quando si entrava in tema di
valutazioni mensili non si
sapeva dove si andava a finire.
“Forse perchè sono guarita e posso uscire dalla
clinica?”, azzardò.
“No, assolutamente. Il signor Bebel, il tuo psicologo, mi
scrive che sei
perseguitata da particolari sogni, che riguardano soprattutto i tuoi
genitori,
che ti senti frustrata e che sfoghi tutto questo
nell’aggressività contro chi ti
sta intorno. La stessa signorina Pound, dopo averti lodato, ha detto
che
continui ad ignorare le sue sedute, a distrarti, e a mostrarti asociale
e
incostante. Neanche gli altri dottori sembrano molto tuoi amici. Detto
questo,
devo darti la brutta notizia: avrai ancora molto tempo da passare qui,
prima di
guarire completamente.”
“E mi ha chiamato solo per dirmi che dovremo sopportarci
ancora per molto?”,
chiese Erin.
“La tua indisponenza nei confronti delle autorità
è un altro grosso difetto che
hai. Ma abbiamo pensato ad una cura che ti farà cambiare. Da
così a così.”,
disse
Erin rimase in silenzio, voleva sapere a cosa avevano pensato stavolta.
“Visto che ci siamo trovati un po’ a corto di
spazio, avrai sicuramente notato
che il letto di fronte al tuo verrà presto occupato da
qualcuno.”
“Già… stavo quasi per
dimenticarmene!”, disse Erin, dandosi una pacca sulla
fronte, “Stavolta però faccia sparire tutti gli
scarafaggi che abitano la
cucina della mensa… altrimenti...”
“Non ce ne sarà bisogno. Scommetto che sarai tu a
chiedere di essere
trasferita. Ti do un mese di tempo.”
“Cosa? Venire qui ad implorarla di darmi un’altra
stanza… è arrivata la fine
del mondo?”, sbuffò Erin.
“Ci metto cento euro.”, disse la direttrice,
tirando fuori da un cassetto della
sua scrivania una banconota verde e appena stampata dalla zecca.
“Beh… cento euro sono tanti.”, fece
Erin, sorridendo maliziosamente.
“Allora sia. Se tra un mese non ti vedrò nel mio
ufficio, questi soldi saranno
tuoi. Direttamente dal mio fondo pensione.”
“Accetto. Ma mi faccia capire il motivo per il quale dovrei
voler fuggire.”
“Beh, il motivo è la tua stessa cura. Ma prima
vorrei che tu facessi la
conoscenza della persona che, in questo momento, sta occupando parte
della tua
stanza. Dovrebbe essere già lì da un pezzo.
Quando l’avrai conosciuta, tornerai
su da me e mi dirai cosa ne pensi.”
Uscì dall’ufficio della Popper, chiedendosi cosa
poteva aver architettato
quella mente diabolica. Si affacciò alla prima finestra che
dava sul giardino,
localizzò Gero e gli fischiò, mettendosi due dita
in bocca. Lui la vide e,
cinque minuti dopo, era da lei.
“Cosa ti ha detto?”, le domandò.
“Boh, è un mistero. Ha detto che la mia nuova
coinquilina mi farà fuggire dalla
mia stessa stanza. Ha pure scommesso cento euro che
succederà tra un mese. Ma
per piacere!”, disse Erin.
“Ce ne vorrebbe per far accadere una cosa del
genere… e poi?”
“Ha detto che prima devo conoscerla, che è nella
mia camera. Poi devo andare a
finire di parlare con lei.”
“La grassona è già in
stanza?!?”
“Sì, c’era da aspettarselo, la sua
valigia era lì da stamattina. Dice che
l’hanno piazzata lì perchè non
c’era altro posto, nella clinica.”
“Domani metto il cartello ‘siamo al
completo’ sulla homepage del sito.”,
disse Gero.
“Sì, potrebbe essere utile.”, fece Erin,
mentre premeva il pulsante
dell’ascensore.
Una volta nell’abitacolo, premette il pulsante numero tre,
che corrispondeva al
piano immediatamente sotto a quello dove si trovavano fino a quel
momento, cioè
l’ultimo e quarto livello della clinica, dove tutti i dottori
avevano i loro
uffici, compresa la direttrice.
“Che ne dici del soprannome Krapfen per
la tua nuova scocciatrice?”, le
disse Gero.
“Uhm… puoi fare di meglio.”
“Guarda che sono il soprannomista ufficiale della
clinica!”
“Allora che Krapfen sia.”, disse Erin, un attimo
prima che il suono della
campanellina avvertisse loro che avevano raggiunto il terzo piano.
L’ascensore stava alla parte opposta del corridoio, quindi i
due dovettero
camminare una ventina di metri prima di arrivare alla porta della
camera di
Erin.
“Entra e fai finta di aver sbagliato camera. Poi mi dice
com’è.”, disse a Gero.
Il ragazzo, con molta disinvoltura, aprì la camera e vi
entrò, richiudendo la
porta dietro di sé. Erin stava con l’orecchio
appiccicato al legno, per capire
la reazione di Gero. Non sentì una parola, tranne i suoi
passi che tornavano
indietro. Si discostò e lo fece uscire.
“Allora? Che è quella faccia? E’ proprio
grassa grassa?”, fece Erin, notando
l'espressione enigmatica che era apparsa sul volto dell'amico.
“Beh…”, disse Gero, la cui faccia andava
dal fantasticamente sorpreso al
dannatamente sconvolto.
“Hey, non è che ti sei innamorato?”,
fece Erin, dandogli una pacca sulla nuca.
“Entra e vedrai… non è proprio quello
che ci si... aspetterebbe...”, esclamò
Gero, riprendendosi dal parziale shock facciale.
“E che vorresti dire?”
“Innanzitutto, che Bea raccontava la
verità.”
Erin lo squadrò un attimo, non comprendendo a cosa si stava
riferendo l’amico.
Poi fece un sospiro ed entrò nella sua stanza.
Il primo pensiero che le balzò in mente fu il seguente:
‘Quella puttana
della Popper me l’ha proprio messo in quel posto, stavolta.’
La nuova scocciatrice non si prese nemmeno la briga di voltarsi quando
lei era
entrata. Se ne stava curva sulla sua valigia, sembrava in cerca di
qualcosa che
stava in quel momento nella tasca dei pantaloni di Erin, e che lei
stringeva
nella mano per tirarla fuori nel momento più opportuno.
Notò con notevole
disappunto che la sua nuova amica non aveva passato il controllo
qualità: chi
entrava nella clinica doveva abbandonare tante cattive abitudini, come
gli
tagli strani di capelli, tra cui rientravano anche i lunghi rasta della
ragazza. No no no, pensò Erin, quelli dovevano proprio
sparire, lo diceva il
regolamento…
Dovette poi ricredersi: aveva vestiti extralarge, di dubbio gusto
femminile, ma
non le si addiceva più il soprannome Krapfen. Sembrava anzi
abbastanza secca.
“Cercavi per caso questa?”, le disse, aspettando
che si voltasse per degnarla
di attenzione.
Quella non sembrò sentirla, così Erin fu
costretta a ripetersi, a voce più
alta.
“Stavi cercando questa, bellezza?”, le fece.
Lei si voltò.
O meglio, lui si voltò.
Erin, anche se non vedeva la tv né tanto meno leggeva i
giornali, non potette
non riconoscere comunque chi aveva di fronte a sé.
“Guarda, guarda, guarda…”, disse,
sentendosi riempire da una valanga di
soddisfazione, “Dalle stelle alle stalle, in tutti i sensi. E
comunque belle
occhiaie, si addicono proprio ad un alcolizzato come te.”
Chi lo avrebbe mai detto che, un giorno, chiusa in quella cazzo di
clinica
avrebbe avuto l’onore di conoscere uno dei componenti della
boy band più famosa
di tutta
Personalmente, ad Erin il suo gruppo rimaneva indifferente come la
carne
stantia della mensa, non si era mai interessata alla loro musica. Non
conosceva
niente di loro, non si sarebbe mai fatta ore di treno o bus per andare
a vedere
un loro concerto né avrebbe mai comprato i loro cd.
Per lei, Tom Kaulitz non era altro che un altro malato mentale, uno con
una
dipendenza distruttiva. Ma c’era sempre una certa
soddisfazione nel vedere che
anche i ricchi e famosi finivano nella merda fino al collo!
“Hai frugato nella mia borsa vero?”,
sbottò lui.
“Nemmeno per idea! Questa bottiglietta stava proprio in bella
vista.”, fece
lei, maneggiandola.
“Ridammela.”, ringhiò il ragazzo.
“Cosa? Non ho sentito. Mi hai chiesto di
ridartela?”, fece Erin, sarcasticamente,
mentre la apriva, facendo scrocchiare la chiusura del tappo.
“Non ci provare o ti uccido.”, disse
l’altro, comprendendo che la ragazza lo
avrebbe versato a terra, o forse lo avrebbe bevuto.
“Uccidermi? Uccidere me? Non puoi, ho una
squadra di guardie del corpo
proprio come te, pronte a saltarti addosso e a frantumarti le
costole.”
“Ridammelo!”, gridò l’altro
cercando di strapparle la bottiglietta di mano, ma
non fu abbastanza veloce perchè Erin se la portò
alla bocca e ne bevve tutto il
contenuto.
Dopo una breve lotta, il ragazzo riuscì a prenderla ma ci fu
un’amara delusione
generale quando scoprì che era stata completamente
prosciugata.
“Maledetta puttana!”, fece l’altro,
buttando la bottiglietta a terra e
facendola andare in frantumi, “Che cazzo vuoi da
me?”
“Innanzitutto, non ti azzardare più a chiamarmi in
quel modo…”, disse Erin.
Gero prese a bussare insistentemente alla porta ed entrò,
per vedere cosa erano
stati quei rumori.
“E tu? Anche tu, che cazzo vuoi?”,
ringhiò ancora Tom.
Ci fu uno scambio di sguardi, tra i due, a base di scintille, prima che
Gero
richiudesse la porta della stanza con un tonfo.
“Ascoltami,", gli ringhiò, "Non me ne importa un
cazzo se sei famoso,
per me suoni in un band di finocchi, ma non ti azzardare a fare
stronzate. Qua
non sei nessuno!”, fece l’altro, andandogli faccia
a faccia per incutergli
timore.
Tom, di risposta, gli dette una spinta che lo fece barcollare
all’indietro.
Gero fu ripreso da Erin appena un attimo prima che potesse
dargli un
pugno nello stomaco.
“Gero! Calmati! Non vorrai metterti nei guai per
lui!”, gli disse.
“Chi ti credi di essere? Sei solo un drogato!”,
fece Tom, allontanandosi.
Erin fino a quel momento era riuscita a contenere l’amico, ma
all’ennesima
provocazione lui reagì, liberandosi della presa forte ma non
decisa di Erin. I
due si fronteggiavano, naso contro naso, senza però alzare
le mani. Si
guardavano e basta, attendendo che uno dei due rinunciasse alla sfida.
“Gero!”, disse ancora Erin, “Lascialo
perdere.”
“E’ stato lui ad iniziare.”
“Gero… lascialo perdere…”
Gero, combattuto tra la voglia di spaccare il naso al suo avversario e
la
possibilità reale di essere espulso se lo avesse fatto,
decise di abbassare le
armi. Uscì dalla stanza sbattendo la porta e facendo
sussultare Erin.
“Cosa aspetti a seguirlo?”, le disse Tom.
“Caro, questa è la mia stanza. Dico mia
perchè sto qua da prima di te. Quindi
tutto quello che vedi è mio, solo mio. Abbassa il
tono.”, disse Erin.
“Ah si? Allora fatti cambiare stanza. Non voglio dividerla
con nessuno, è un
mio diritto.”
“Eh no, sarai tu a toglierti dai piedi.”, fece
Erin, mentre usciva dalla
stanza.
Che cosa gliene importava dei cento euro e della scommessa?
Cosa gliene importava del fatto che avrebbe perso la faccia con la
direttrice?
Lei non lo voleva in camera sua, per niente al mondo.
Andò verso l’ascensore, sarebbe andata dalla
direttrice e avrebbe spinto finchè
lei non l’avesse accontentata.
“Vai a chiedere al capo di buttarmi fuori?”, le
chiese Tom.
“Certo che sì, testa di cazzo.”
“Allora facciamo a chi arriva prima.”, fece lui.
Un novellino contro una veterana. Uno che non conosceva la clinica
contro una
che poteva camminarci ad occhi chiusi.
La sfida era troppo scontata.
Erin, invece di prendere l’ascensore, corse come un pazza
verso le scale anti
incendio, le salì a coppia e fu presto al piano superiore.
Una volta rientrata,
svoltò a destra, imboccando il corridoio che portava
direttamente all’ufficio
della Popper.
Il suo orgoglio fu notevolmente ferito quando vide che, più
o meno, quell’altro
deficiente era alla stessa distanza dall’ambita porta. Lo
sprint finale ebbe
come esito che entrambi furono troppo occupati nello sfidarsi a vicenda
per
riuscire a vedere che la direttrice stava uscendo dal suo ufficio
proprio nello
stesso momento in cui i due velocisti arrivarono alla sua porta. La
donna vide
la pila di cartelline che aveva in braccio fare un volo in aria e
ricadere per
terra, seminando tutto il suo contenuto per terra.
“Ma cosa…. Signorina Geller!”,
gridò la donna., con tutta l’aria che aveva nei
polmoni.
Ben
ritrovati
ragazzi!!! Da quanto tempo non mi trovate in questa bellissima
sezione!!!!! Non
ho aspettato molto e, nel mentre che avevo finito la mia ultima storia
e la
stavo pubblicando, mi sono spremuta le meningi e ne ho scritta una
nuova!
Una piccola delucidazione sui personaggi: chi tra i 4 era
più adatto per
interpretare la parte di un alcolizzato e pure un pochino stronzo
dentro? Beh,
la risposta esatta è Tom! Con questo non
voglio dire che lo sia davvero,
però leggendo qua e là mi sono fatta un'idea un
po' poco buona su di lui...
bravo ragazzo di provincia... vabbè, potevo prendere anche
Bill, Georg o
Gustav, ma con lui rendeva meglio!
La protagonista, Erin Geller, non ha niente in
comune con Mac, lo si
capisce molto bene. Me la sono immaginata in questo modo: una Anne
Hataway con
i riccioli, non so se avete presente... quella che ha fatto 'Il diavolo
veste
Prada'. Personaggio molto problematico, non vi consiglio di averlo come
alter
ego come invece ce l'ho io... uno dei miei tanti...
Il suo amico, Gero Lang è anch'egli un
personaggio che non è per niente
facile da gestire. Se penso a lui mi viene in mente subito Peter
Petrelli, uno
dei protagonisti di Heroes, telefilm strafigo, non tanto quanto Lost,
che fanno
su italia uno. Sicuramente lo conoscete meglio come Milo Ventimiglia,
ha fatto
anche Jess in Una mamma per amica... insomma, è uno che mi
ispira molti
pensieri ad alto rating.
Ve lo dico subito: non ci saranno storie d'amore tra
Erin e Tom !
Lo nego fin dall'inizio, non iniziate con 'ma i due stanno bene
insieme' usw
usw... Judeau sa cosa vuol dire usw, chiedetelo a lui...
sarà una storia
molto molto molto drammatica, venata di sarcasmo e di un po' di
comicità.
Spero che entri nei vostri cuori così come le mie storie
precedenti, perchè
questa storia è un dramma epico, sia per i contenuti, sia
per me che la sto
scrivendo... ragazzi, io non fumo e dopo due bicchieri di vino sono
stesa, non
ho dipendenze, a parte le fanfic, quindi non so cosa realmente stanno
passando
i personaggi, anche se sono io stessa che li ho creati... che
ragionamento
contorto... comunque sto cercando di documentarmi, spero di riuscire ad
essere
almeno un po' realistica... Non so nemmeno se riuscirò a
pubblicare con una
certa periodicità come ho sempre fatto... spero non mi
metterete alla gogna!!!!
Dimenticavo!!!! TITOLO: canzone degli Aerosmith, "Dude looks like a
lady" si riferisce a quando Erin e Gero pensano che il nuovo
coinquilino
Tom K. sia una ragazza... beh, la confusione ci sta, di solito non
c'è tutta questa
promiscuità nelle cliniche... ma la storia
è la storia!!! La canzone è
stata usata senza scopo di lucro.... E I PERSONAGGI
REALMENTE ESISTENTI E
CITATI IN QUESTA STORIA NON SONO DI MIA PROPRIETA' NE' INTENDO DARE UNA
RAPPRESENTAZIONE REALE DELLA LORO VITA CON I FATTI CHE ANDRO' A
DESCRIVERE!!!!
Detto questo... ENJOY
THIS DRAMA!!!!
-RcB-