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Autore: RubyChubb    23/09/2007    8 recensioni
Erin era una ragazza sorridente. Aveva appena compiuto diciannove anni, un'età abbastanza difficile, a cavallo tra l'adolescenza e la maturità. Tom, famosa rockstar, deve combattere contro i suoi fantasmi, contro le sue stesse scelte di vita, contro se stesso... --- Nuovo lavoro firmato RubyChubb!!!
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tokio Hotel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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DUDE LOOKS LIKE A LADY


Erin era una ragazza sorridente.
Aveva appena compiuto diciannove anni, un'età abbastanza difficile, a cavallo tra l'adolescenza e la maturità. Le piaceva stare all'aria aperta, le piaceva la natura. Le piaceva il sole, ma anche la pioggia; amava l'inverno, la neve, il freddo e la condensa sul vetro quando ci soffiava sopra, ma le piacevano anche il sole, l'erba verde, il caldo e il mare. Viveva ogni giorno ascoltando musica, canticchiando nella testa oppure mugolando le sue canzoni preferite. Di solito si affezionava a quelle più trasmesse alla radio e non riusciva proprio a togliersele dalla testa.
Le piaceva molto disegnare, dipingere e giocare con la creta. Era il suo passatempo preferito passare ore ed ore a ritrarre di tutto: dal soprammobile al gattino che passava, dal fiore appassito nel vaso ad uno sconosciuto che aspettava il tram. I suoi disegni stavano tutti raccolti in una cartellina che, mese dopo mese, diventava sempre più gonfia fino a scoppiare. I ninnoli che aveva sul comodino erano tutti stati fatti da lei: prendeva la creta o qualsiasi altra pasta malleabile e ne faceva un fiore, oppure una finta sveglia che segnava sempre le dodici esatte, versione notturna mezzanotte, la sua ora preferita.
Se le chiedevano che cosa le sarebbe piaciuto fare un giorno non avrebbe risposto 'l'artista', bensì avrebbe detto che le era sempre piaciuto diventare avvocato, combattere le ingiustizie e spedire in galera i criminali. Aveva un'idea molto romanticizzata di quella professione, forse le piaceva soprattutto perchè anche suo zio Otto era un avvocato ed aveva passato molto tempo delle sue vacanze dalla scuola, quando era piccola, nel suo ufficio, a guardarlo mentre lavorava.
Insomma, Erin sembrava una ragazza normale, con delle aspettative sul suo futuro del tutto plausibili, dei gusti non molto diversi da quelli dei suoi coetanei.
Eppure non lo era.
Erin, oramai, non faceva più caso ai giorni che passavano, abituata oramai ad una routine che non aveva niente di normale. Non era sempre stato così, c'erano stati giorni in cui non si era sforzata di vivere la propria vita, perchè niente era riuscita a tenerla ferma. C'erano stati giorni in cui aveva vissuto la sua vita.
Ora non più.
Erin non era nemmeno più la stessa.
Aveva sempre pensato che non ci sarebbe mai stata una medicina adatta per la sua malattia.
Le sue giornate trascorrevano passivamente, un giorno dopo l'altro, nella clinica di recupero dove l'avevano spedita i suoi genitori. La scusa ufficiale era che la ragazza aveva avuto bisogno di cure per una malattia particolare. Ma non era proprio così…



Quella mattina si svegliò di cattivo umore, proprio non voleva scendere dal letto. Aveva fatto un brutto sogno: si trovava in casa sua, nel corridoio, vestita del suo pigiama. Davanti a sé vedeva i suoi genitori, seduti sul divano, a guardare la tv imbambolati. Lei aveva iniziato a camminare per andare verso di loro, ma il pavimento le scivolava sotto i piedi e lei finiva stremata a terra, senza essersi mossa di un millimetro, mentre i suoi rimanevano sempre incollati alla tv.
Due sole le cose che avevano reso quel sogno un incubo: la televisione, oggetto da lei sempre odiato, e i suoi genitori, con i quali aveva un rapporto del tutto anormale. Accantonò il sogno in fondo alla mente e si alzò dal suo lettino, per andare in bagno a darsi una rinfrescata. Mentre si sciacquava la faccia, sentì la sveglia suonare, come sempre inutile perchè si era svegliata prima di lei.
Dopo aver rifatto il letto, si tolse il suo pigiama.
In maglietta extra large e pantaloni di una vecchia tuta, andò nella sala mensa, dove avrebbe raggiunto tutti i suoi compagni di disgrazie, come li chiamava lei. Erano lì per molti motivi, ma la prima cosa che si imparava in un posto del genere era non giudicare l'altro, perchè tutti erano sulla stessa barca, in pericolo di naufragio da un momento all'altro. Nella categorizzazione caustica di Erin, c’era un sessanta per cento di anoressiche e bulimiche, un dieci per cento di ex tossici, venuti da una struttura collegata a quella clinica, un altro dieci per cento di depressi e esauriti e un finale venti per cento di disgraziati misti, tra cui si contavano alcolisti, dipendenti da psicofarmaci e così via. Ma che bel posto per un adolescente! Per non parlare degli strani tipi che abitavano agli altri piani della clinica Sellers…
Si sedette al solito posto, vicino alla finestra, con il vassoio di fronte a sé. Attese che il latte bollente che aveva preso al bancone del self service si raffreddasse, poi vi versò il caffé, vi sbriciolò dentro alcuni biscotti e la pappa fu pronta. Fuori, il sole faceva fatica a respirare per colpa di grossi nuvoloni neri all'orizzonte, che minacciavano pioggia in arrivo.
"Giorno Erin.", disse svogliatamente la persona che le si sedette davanti.
"Giorno Gero.", gli rispose lei.
Gero era un suo coetaneo, conosciuto là dentro, che aveva avuto problemi di dipendenza da psicofarmaci, più precisamente abusava di tranquillanti, per colpa di un brutto trauma familiare, ma a lui non piaceva che se ne parlasse. Capelli a caschetto perennemente spettinato, un ciuffo impertinente sulla guancia destra, occhi chiari e sempre un sorriso sarcastico sulla faccia.
"Dov'è Bea?", le chiese lui, mentre versava dentro al latte una quantità industriale di cereali.
Aveva la fortuna di avere un conto in sospeso con la donna che riforniva il bancone della colazione: lui non avrebbe detto alla direttrice che fumava nei bagni, lei gli avrebbe dato doppia razione di quello che voleva.
"Non accanto a me.", disse lei.
"Ah, eccola, è al bancone."
Bea, invece era di qualche anno più grande di loro, e stava lì solo da circa sei mesi. Capelli rossicci, mossi, lentiggini su tutta la faccia e un’altezza sopra la media. Diagnosi: bulimia; tempo di guarigione stimato: molto. Arrivò al tavolo silenziosa, vassoio di contenuto simile a quello di Erin. Si sedette con loro e, sempre muta, iniziò a mangiare la sua colazione.
"Gero, hai visto Bea?", chiese Erin ironicamente al suo amico, facendo finta che lei non ci fosse.
"A dire il vero non l'ho neanche mai sentita.", fece lui, ignorandola a sua volta.
"Dai, piantatela.", rispose Bea, "Ho avuto una nottataccia."
"Cosa è successo?", le domandò Erin.
"Un'infermiera mi ha beccato mentre cercavo di corrompere quelli della cucina.", rispose lei, mentre spappolava un biscotto nel latte con il cucchiaio.
"Un'altra volta!", esclamò Gero, "Lo sai che se continui così ti cacciano via?"
"Lo so... ma avevo fame! Cosa ci potevo fare?", si giustificò lei.
“Ti chiudevi in camera e festa fatta!”, le disse Erin.
“Siete tutti santi quando sono io a combinare casini.”, si lamentò Bea.
“Certo che sì!”, fece Gero.
“Dai, facciamo come vuole la signorina Pound, stringiamoci in un bell’abbraccio fraterno!”, disse Erin.
“Vai a fanculo, insieme alla signorina Pound!”, disse Gero, facendo ridere Bea.
Purtroppo la volontà di quella ragazza era sempre messa a dura prova dalla sua malattia e i suoi due amici sapevano quanto era importante riuscire a farla ridere: così, nei momenti in cui era giù, tiravano fuori sempre la signorina Pound, quella che teneva le ore di psicologia di gruppo, e che forniva loro sempre buoni spunti comici. Era una signorina, benché avesse una cinquantina d’anni, bassa e grassoccia, che veniva spesso preso in giro.
“Lo sapete cosa ho sentito, mentre ero in fila per la colazione?”, disse Bea, dimenticandosi della sua disavventura notturna per riferire loro l’ultimo pettegolezzo che circolava. Non sembrava, ma i tre erano tra i più pettegoli di tutta la clinica e si divertivano a raccogliere tutte le dicerie in un quaderno, finito più volte sotto il sequestro della direttrice, altra figura molto amata dal trio.
“Perchè devi essere sempre tu ad avere l’orecchio più lungo di noi!”, protestò Gero, al quale non capitava mai di catturare le chiacchiere di passaggio.
“Tenetevi forte ragazzi! Questa è proprio bella!”, fece Bea, “Dice che al piano di sotto ci sia una celebrità!”
“E capirai!”, esclamò Erin, “Io pensavo che stessi per dirmi che quella smorfiosa di Ada fosse rimasta incinta di Gero.”
“Ah… ah… ah…”, rise sarcasticamente il ragazzo. Per qualche mese si era preso una cotta per questa stramaledetta Ada, un’altra delle ragazze del loro piano, e da quella volta Erin non faceva altro che rammentargliela per prenderlo in giro.
“Ragazzi, dico sul serio! Dice che sia arrivato qui circa due o tre settimane fa.”
“Allora è un uomo…”, disse Gero, guardando Erin come per dirle che aveva un pretesto per scherzare come faceva lei con lui.
“E quindi? Cosa ci farebbe qua un riccone quando potrebbe benissimo prendere il primo aereo e andare a curarsi in California?”, disse Erin, ponendo un quesito fondamentale. Di certo una clinica sperduta nelle zone del sud della Germania non era il posto ideale per quelli, abituati a vivere alla grande, “Qua non ci sono camere di lusso, nè camerieri personali e il cibo fa schifo. Secondo me è una balla.”
“Hai dipinto questo posto come una merda!”, disse Bea.
“Perchè? Che differenza c’è?”, fece Gero.


Prima di andare alla solita ora di terapia psicologica collettiva della signorina Pound, Erin fece un salto in camera sua, accompagnata da Gero. Bea rimase in sala colazione a ficcare il naso qua e là, non l’avrebbero poi più rivista fino al pranzo, aveva altri orari. Loro due, invece, erano entrati nella clinica più o meno nello stesso periodo e erano stati sistemati in camere una di fronte all’altra. Questo aveva aiutato la loro amicizia, cementata non solo una notevole affinità di carattere: entrambi molto strafottenti, si divertivano a prendere in giro i medici e gli psicologi, e pensavano che quel posto fosse l’inferno dipinto di santità. Tutto bianco, tutto lindo, fuori il giardino sembrava il posto più idilliaco della terra.
Tutto così falso, pensavano i due.
“Arriviamo tardi come sempre alla lezione di vita sociale della Pound?”, chiese Gero ad Erin
“Stavolta no o mi sorbirò di nuovo le sue prediche…”, fece lei, mentre apriva la porta della sua stanza.
“Ma guarda cosa ho qui…”, fece lui, tirando fuori due sigarette dalla tasca dei suoi pantaloni.
“Te le ha date Polpettone?”, disse lei, rimproverandolo con lo sguardo. Polpettone era il nome amichevole che Gero aveva dato alla vittima dei suoi ricatti a base di doppie porzioni di cibo, cioè l’impiegata della mensa.
“Certo che sì. Oramai è nelle mie mani.”, fece lui, con soddisfazione.
“Nascondile bene e non farmi passare guai. Ce le fumiamo dopo.”, disse Erin, entrando in camera.
Doveva fare la classica visitina al bagno, ma ci fu qualcosa nella sua camera che la distolse.
“Gero! Vieni a vedere… ci stanno provando di nuovo.”, disse Erin.
L’amico, sentendo quelle parole, entrò nella sua camera.
“Gesù… non sanno proprio arrendersi.”, disse lui, vedendo sull’altro letto una valigia aperta e mezza disfatta.
Erin, ogni volta che le veniva data una compagna di stanza, faceva di tutto per farla impazzire ed andare in lacrime dalla direttrice. La poverina implorava di farsi cambiare stanza e, di solito, la direttrice glielo concedeva, rammentando a Erin che prima o poi sarebbe stata punita per quello che stava facendo.
“Cosa le farai? Le metterai gli insetti nel letto oppure le infilerai nel cuscino i capelli che ti cadono?”, chiese Gero all’amica, andando a frugare nella valigia della nuova arrivata.
“No, lo scherzo dei capelli l’ho già utilizzato... però gli scarafaggi vanno sempre di moda!”, disse Erin.
Con la penultima ragazza, Erin aveva messo da parte i capelli che le rimanevano impigliati nella spazzola e non le ci volle molto prima di averne così tanti da farci una parrucca. La sua capigliatura era indomabile come lei: i suoi folti ricci neri però venivano sempre castigati da un bastoncino, che riusciva a tenerli raccolti sulla nuca.
“Deve essere una dalle taglie forti…”, disse Gero, prendendo un paio dei pantaloni che erano ripiegati nella valigia ed osservano la loro grandezza con una risatina sarcastica in faccia.
“Sicuramente un’anoressica che tenta di mascherare la sua malattia con gli abiti.”, scherzò Erin, che nel frattempo era andata in bagno.
“Adesso sarà meglio che vada, sei pestilenziale quando ti siedi sul vaso!”, fece l’altro, chiudendosi il naso con la mano.
Una volta ‘scaricato’ il suo bisogno, Erin uscì dalla stanza, non senza aver dato un’occhiata al contenuto della valigia. Eh sì, altro che anoressica, quelli erano vestiti per qualcuno dalla taglia molto forte, extra-extra-extra forte. I suoi occhi scorsero qualcosa che le fecero subito capire il motivo della sua presenza in clinica. Prese quell’oggetto, lo esaminò e se lo mise in tasca. Chiuse la stanza, recuperò Gero e andarono insieme all’ora di psicologia collettiva, presentandosi al gruppo con un grosso sorriso sulla faccia.
Altro che anoressia...


Mentre Kara, una ragazza da poco arrivata alla clinica, si asciugava gli occhi ricordando con quanta crudeltà sua madre le diceva sempre che se non avesse vinto la medaglia nella gara di nuoto sarebbe stata una fallita, inducendola così ad un esaurimento nervoso, Erin si controllava che le punte dei suoi capelli non si fossero sdoppiate. Era ovviamente molto interessata dalla storia di Kara e della sua prepotente mamma.
Gero, invece, mostrava tutto il suo falso coinvolgimento, versando lacrime di coccodrillo e attirandosi le occhiatacce della Pound.
Il gruppo, composto da una dozzina di ragazzi e ragazze, sembrava invece molto più attento dei due, che venivano spesso richiamati per il loro comportamento irrispettoso nei confronti degli altri.
“Bene Kara… per oggi può bastare.”, disse la donna, dandole un altro fazzoletto di carta, “Ragazzi e ragazze, ci vediamo dopo domani alla solita ora.”
I ragazzi si alzarono e si avviarono verso le porte.
“Erin, per cortesia, ti devo parlare.”, fece poi la donna, recuperandola mentre stava uscendo indisturbata insieme a Gero.
Lei, sentendosi richiamare, con un gesto semplice fece capire all’amico di aspettarla e tornò sui suoi passi.
“Devo parlarti di una cosa.”, fece la donna, picchiettando la mano sulla sedia accanto alla sua per dirle di sedersi lì.
“Ho fatto qualcosa di male?”, chiese Erin, che di solito era costretta trattenersi dopo quegli incontri per motivi del genere.
“Beh… sembra strano ma no, non è per questo. Come sai, ultimamente i problemi dei giovani stanno aumentando a livelli quasi esponenziali…”, disse la donna, con una vocina conciliante da nonnina con i ferri e la calza di lana in mano.
Erin stava per disconnettere il cervello e non ascoltarla, tanto era la sua solita predica.
“E negli ultimi tempi ci siamo trovati a respingere numerose richieste di aiuto, cosa che personalmente trovo inaccettabile bla bla bla bla bla…”, erano le parole che risuonavano nella testa della ragazza.
“Quindi abbiamo deciso in questo modo. Sei d’accordo con me Erin?”, disse la donna, concludendo il suo lungo discorso.
“Sì. D’accordissimo.”, rispose lei, automaticamente.
“Non è che ti dispiace?”
“Assolutamente no.”
“Molto bene, anzi, benissimo!”, disse la donna, tutta contenta, “Stai facendo dei progressi, stai migliorando il tuo carattere! Ne parlerò positivamente con la direttrice.”
“Oh, grazie mille, signorina Pound, gliene sarò molto riconoscente!”, disse Erin, alzandosi e uscendo dalla stanza.
Quando furono a distanza di sicurezza, Gero le chiese cosa le aveva detto.
“Boh, non lo so, sicuramente una stronzata.”, fece lei, mettendosi le mani in tasca.
Le prossime ore erano dedicate ai lavori manuali, quindi Erin andò verso la sala pittura e scultura, mentre Gero andò nella sala computer, dove stava da tempo curando il sito internet della clinica. Nella sua ‘vita precedente’ si era diplomato in informatica ed era capace di fare pressoché quello che voleva con un pc, soprattutto se collegato ad internet. Di recente era stato punito per aver sostituito un link contenuto nel sito della clinica per collegarlo con un sito pornografico: gli altri ragazzi lo avevano decretato eroe del mese, la direttrice gli aveva proibito di vedere la televisione per altrettanto tempo, ma con scarsi risultati disciplinari.



Passò il pranzo e Erin fu stupita nel sapere che Bea non era riuscita a sapere niente sul pettegolezzo che aveva riferito quella mattina.
“Visto? Era una cavolata!”, le ripetè.
“Mah… sarà… solo che la direttrice si sta dando un sacco da fare.”, fece lei.
“In che senso?”, domandò Gero, lasciando perdere le sue patatine fritte per dedicarsi alla chiacchiera.
“Dice che abbia provato a liberare delle camere, ma che non ci sia riuscita.”
“Liberare delle camere?!?”, disse Erin.
Se quell’arpia stava buttando fuori le sue pazienti per fare spazio a qualcuno di importante, avrebbe giurato su se stessa che avrebbe trovato il modo di annientarla. Come si poteva fare una cosa del genere? I malati erano sempre malati, indipendentemente dal loro status sociale!
“Sì, ma non prenderla sul serio perchè questa voce viene da Valium.”, fece Bea, riferendosi ad un loro compagno di disgrazie, uno che era stato beccato a dare il Valium ai gatti che giravano nel giardino della clinica, “E poi ho sentito che hanno trovato uno che si spacciava per malato, e che invece era un giornalista.”
“Ho sempre sognato essere immortalato dalla stampa mentre mi trovo qui dentro!”, disse Gero, con aria sognante.
“Ma sentite che voci girano… fino a l’altro ieri il pettegolezzo più quotato riguardava un’infermiera beccata in atteggiamenti biblici con un dottore sposato… ora mi tocca sentire queste cazzate. Non vale nemmeno la pena metterle sul quaderno.”, disse Erin.
“Già… certo che c’è gente che ha veramente poca immaginazione qua!”, fece Gero, “Queste storie sono a dir poco inventate.”


Seduta e dondolante sull’altalena, installata nel grande giardino che circondava l’eterno della clinica, Erin si era concessa il suo tipico momento di solitudine. Ne aveva sempre bisogno, almeno un’oretta al giorno, tanto per ritrovarsi con sé stessa, con i suoi problemi e i suoi fantasmi. Non capitava di rado di vederla con gli occhi lucidi, ma Erin era una che si vergognava di piangere e cercava sempre di far passare quelle lacrime per un’allergia passeggera alla natura.
“L’ora della depressione è finita! Gara di altalene!”, le gridò Gero, mentre correva verso di lei.
“Dai, lasciami un altro po’ in pace.”, fece lei, lasciando il luogo che preferiva di più per rimanere di nuovo da sola.
“Hey… che c’è? Di solito un’ora ti basta.”, disse l’altro, seguendola.
“Oggi no, quindi aria, ci vediamo stasera a cena.”, rispose Erin, con aria seccata.
“Erin...", la chiamò ancora Gergo. Poi osservò ii tratti tristi del suo viso, e comprese. "Sei stata richiamata dalla direttrice. E' così?”,le fece, incrociando le braccia.
“Vaffanculo Geronimo.”, disse lei, per farlo innervosire.
Non voleva essere chiamato mai con il suo vero nome, di solito funzionava a farlo allontanare, ma lui sembrava non arrendersi.
“Cosa hai combinato? Ma soprattutto perchè me lo hai tenuto nascosto?”, disse lui, andandole incontro.
Aveva capito in un istante cosa c’era che le faceva stare in pensiero.
“Niente, non ho fatto niente.”
“Hai offeso l’insegnante di pittura.”, continuò lui, nel tentativo di indovinare quale crimine avesse commesso la sua migliore amica.
“No…”, fece lei, continuando a camminare verso il laghetto, altro suo luogo preferito.
“Hai tagliato una ciocca di capelli ad Ada.”, ritentò il suo amico.
Da quando le aveva detto che si era preso una cotta passeggera per lei, quella povera Ada era diventata l’obiettivo preferito dei suoi scherzi.
“Magari… comunque no.”
“Hai dipinto una bara, facendo scoppiare a piangere Ada.”
“Per una volta che non le ho fatto niente!”, protestò Erin.
Quando faceva quello scherzo crudele a quella povera malcapitata, la faceva sempre correre fuori dall’aula in lacrime, perchè essere chiusa viva in una bara era un incubo ricorrente di quella poveretta. Ultimamente non funzionava più perchè Erin veniva mandata sempre in fondo alla classe di pittura, cosicché i suoi disegni non potevano essere visti altro che dalle pareti.
“Allora perchè ti preoccupi? Se non hai fatto niente vorrà dire che la direttrice non avrà da farti il culo come sempre.”
“Boh… non lo so, ma mi sento a disagio. Forse sto così proprio perchè non c’è un motivo per cui mi vuole nel suo ufficio…”, fece lei, sedendosi con l’amico su una delle panchine che circondavano il laghetto, popolato da un piccolo gruppo di anatre e anatroccoli, “Com’è andata con il sito?”, gli chiese poi, cambiando discorso.
“Benissimo… non so tra quanto se ne accorgeranno.”, disse lui, con un sorrisetto soddisfatto.
“Sei sicuro che funzionerà?”
“Certo che sì.”
“Ti beccheranno stavolta?”
“No… quella parte è tenuta da Vomito. Sono riuscito a craccare la password che ha messo per evitare che altri, in pratica solo io, possano entrare nella sua sezione e modificarla abusivamente. Così impara ad andare in giro a dire che sono un gay.”
Due come loro non potevano stare con le mani in mano e ne avevano combinata un’altra: l’idea era stata di Erin, Gero l’aveva attuata. Nella pagina dove c’erano le presentazioni di tutto il personale, molte parole erano state sostituite, facendo passare la direttrice come una squillo d’alto bordo e cose simili.
Altra occupazione preferita dai due: dare soprannomi agli altri pazienti, di solito sempre legati ad un segno particolare, che finivano poi per diventare caratteristici di quella persona. Vomito era chiamato in quel modo perchè una volta fece divertire tutta l’ora di psicologia collettiva vomitando in diretta sulla gonna a scacchi della signorina Pound.
“A proposito, mi stavo dimenticando della cosa più eccitante della giornata. Guarda cosa ho trovato nella valigia della mia nuova migliore amica.”, disse Erin, prendendo dalla sua tasca quello che aveva trovato tra i vestiti della sconosciuta che stava per disturbarle il suo sonno.
“Ohi! Ohi! Ohi! Già a rischio espulsione!”, disse Gero, prendendo la mini bottiglietta che gli stava porgendo di nascosto Erin, “Chissà cosa conterrà?”
“Mah, non saprei. Sarà anche incolore, ma non è di certo acqua.”, fece Erin sarcasticamente.
“Bottigliette del genere dovrebbero stare sui mobili, non nelle valige dei ricoverati…”, osservò Gero.
“Ecco, così ho un’arma in più per togliermela dai piedi. Ora vado dalla strega cattiva dell’est.”, fece Erin, alzandosi ed incamminandosi verso l’edificio.
“Ti aspetto qui!”, le disse l’amico.


“Avanti!”, disse svogliatamente la donna seduta dietro ad una pesante scrivania di mogano.
“Mi aveva fatto chiamare, signora direttrice?”, disse Erin, educatamente.
“Certo, siediti.”, fece lei, senza nemmeno alzare il naso dai fogli che stava esaminando.
Erin rimase silenziosamente in attesa che l’altra lasciasse la sua occupazione per darle considerazione.
“Non hai da dire niente a tua discolpa, signorina Geller?”, le disse la direttrice, alias la temuta signora Popper. Temuta da tutti, ma non da Erin.
“Non credo di aver fatto nulla di male.”, rispose Erin, con traquillità serafica.
La donna alzò finalmente gli occhi dalla carta, si tolse quegli antipatici occhialetti e li lasciò appesi al collo, tenuti da una catenina fatta di perline d’oro.
“La signorina Pound, sant’anima di questa clinica, è venuta tutta contenta a dirmi che finalmente stai cercando di fare qualcosa per il tuo brutto carattere. Per un momento ho voluto crederle, poi mi sono data della stupida. Le persone come te, Erin, non cambiano mai. Quindi cosa hai da dire a tua discolpa per aver preso in giro la nostra psicologa?”
“Beh… forse potrebbe anche crederle, in fondo non sono così cattiva come pensa.”, disse Erin.
“Stavo leggendo adesso le ultime valutazioni mensili che ti riguardano. A quanto pare non stai facendo molti progressi.”, traversò la direttrice.
Ahi ahi, pensò Erin, quando si entrava in tema di valutazioni mensili non si sapeva dove si andava a finire.
“Forse perchè sono guarita e posso uscire dalla clinica?”, azzardò.
“No, assolutamente. Il signor Bebel, il tuo psicologo, mi scrive che sei perseguitata da particolari sogni, che riguardano soprattutto i tuoi genitori, che ti senti frustrata e che sfoghi tutto questo nell’aggressività contro chi ti sta intorno. La stessa signorina Pound, dopo averti lodato, ha detto che continui ad ignorare le sue sedute, a distrarti, e a mostrarti asociale e incostante. Neanche gli altri dottori sembrano molto tuoi amici. Detto questo, devo darti la brutta notizia: avrai ancora molto tempo da passare qui, prima di guarire completamente.”
“E mi ha chiamato solo per dirmi che dovremo sopportarci ancora per molto?”, chiese Erin.
“La tua indisponenza nei confronti delle autorità è un altro grosso difetto che hai. Ma abbiamo pensato ad una cura che ti farà cambiare. Da così a così.”, disse la Popper, sottolineando l'ultima frase con la mossa tipica: la mano voltata dal palmo al dorso.
Erin rimase in silenzio, voleva sapere a cosa avevano pensato stavolta.
“Visto che ci siamo trovati un po’ a corto di spazio, avrai sicuramente notato che il letto di fronte al tuo verrà presto occupato da qualcuno.”
“Già… stavo quasi per dimenticarmene!”, disse Erin, dandosi una pacca sulla fronte, “Stavolta però faccia sparire tutti gli scarafaggi che abitano la cucina della mensa… altrimenti...”
“Non ce ne sarà bisogno. Scommetto che sarai tu a chiedere di essere trasferita. Ti do un mese di tempo.”
“Cosa? Venire qui ad implorarla di darmi un’altra stanza… è arrivata la fine del mondo?”, sbuffò Erin.
“Ci metto cento euro.”, disse la direttrice, tirando fuori da un cassetto della sua scrivania una banconota verde e appena stampata dalla zecca.
“Beh… cento euro sono tanti.”, fece Erin, sorridendo maliziosamente.
“Allora sia. Se tra un mese non ti vedrò nel mio ufficio, questi soldi saranno tuoi. Direttamente dal mio fondo pensione.”
“Accetto. Ma mi faccia capire il motivo per il quale dovrei voler fuggire.”
“Beh, il motivo è la tua stessa cura. Ma prima vorrei che tu facessi la conoscenza della persona che, in questo momento, sta occupando parte della tua stanza. Dovrebbe essere già lì da un pezzo. Quando l’avrai conosciuta, tornerai su da me e mi dirai cosa ne pensi.”


Uscì dall’ufficio della Popper, chiedendosi cosa poteva aver architettato quella mente diabolica. Si affacciò alla prima finestra che dava sul giardino, localizzò Gero e gli fischiò, mettendosi due dita in bocca. Lui la vide e, cinque minuti dopo, era da lei.
“Cosa ti ha detto?”, le domandò.
“Boh, è un mistero. Ha detto che la mia nuova coinquilina mi farà fuggire dalla mia stessa stanza. Ha pure scommesso cento euro che succederà tra un mese. Ma per piacere!”, disse Erin.
“Ce ne vorrebbe per far accadere una cosa del genere… e poi?”
“Ha detto che prima devo conoscerla, che è nella mia camera. Poi devo andare a finire di parlare con lei.”
“La grassona è già in stanza?!?”
“Sì, c’era da aspettarselo, la sua valigia era lì da stamattina. Dice che l’hanno piazzata lì perchè non c’era altro posto, nella clinica.”
“Domani metto il cartello ‘siamo al completo’ sulla homepage del sito.”, disse Gero.
“Sì, potrebbe essere utile.”, fece Erin, mentre premeva il pulsante dell’ascensore.
Una volta nell’abitacolo, premette il pulsante numero tre, che corrispondeva al piano immediatamente sotto a quello dove si trovavano fino a quel momento, cioè l’ultimo e quarto livello della clinica, dove tutti i dottori avevano i loro uffici, compresa la direttrice.
“Che ne dici del soprannome Krapfen per la tua nuova scocciatrice?”, le disse Gero.
“Uhm… puoi fare di meglio.”
“Guarda che sono il soprannomista ufficiale della clinica!”
“Allora che Krapfen sia.”, disse Erin, un attimo prima che il suono della campanellina avvertisse loro che avevano raggiunto il terzo piano.
L’ascensore stava alla parte opposta del corridoio, quindi i due dovettero camminare una ventina di metri prima di arrivare alla porta della camera di Erin.
“Entra e fai finta di aver sbagliato camera. Poi mi dice com’è.”, disse a Gero.
Il ragazzo, con molta disinvoltura, aprì la camera e vi entrò, richiudendo la porta dietro di sé. Erin stava con l’orecchio appiccicato al legno, per capire la reazione di Gero. Non sentì una parola, tranne i suoi passi che tornavano indietro. Si discostò e lo fece uscire.
“Allora? Che è quella faccia? E’ proprio grassa grassa?”, fece Erin, notando l'espressione enigmatica che era apparsa sul volto dell'amico.
“Beh…”, disse Gero, la cui faccia andava dal fantasticamente sorpreso al dannatamente sconvolto.
“Hey, non è che ti sei innamorato?”, fece Erin, dandogli una pacca sulla nuca.
“Entra e vedrai… non è proprio quello che ci si... aspetterebbe...”, esclamò Gero, riprendendosi dal parziale shock facciale.
“E che vorresti dire?”
“Innanzitutto, che Bea raccontava la verità.”
Erin lo squadrò un attimo, non comprendendo a cosa si stava riferendo l’amico. Poi fece un sospiro ed entrò nella sua stanza.


Il primo pensiero che le balzò in mente fu il seguente: ‘Quella puttana della Popper me l’ha proprio messo in quel posto, stavolta.’
La nuova scocciatrice non si prese nemmeno la briga di voltarsi quando lei era entrata. Se ne stava curva sulla sua valigia, sembrava in cerca di qualcosa che stava in quel momento nella tasca dei pantaloni di Erin, e che lei stringeva nella mano per tirarla fuori nel momento più opportuno. Notò con notevole disappunto che la sua nuova amica non aveva passato il controllo qualità: chi entrava nella clinica doveva abbandonare tante cattive abitudini, come gli tagli strani di capelli, tra cui rientravano anche i lunghi rasta della ragazza. No no no, pensò Erin, quelli dovevano proprio sparire, lo diceva il regolamento…
Dovette poi ricredersi: aveva vestiti extralarge, di dubbio gusto femminile, ma non le si addiceva più il soprannome Krapfen. Sembrava anzi abbastanza secca.
“Cercavi per caso questa?”, le disse, aspettando che si voltasse per degnarla di attenzione.
Quella non sembrò sentirla, così Erin fu costretta a ripetersi, a voce più alta.
“Stavi cercando questa, bellezza?”, le fece.
Lei si voltò.
O meglio, lui si voltò.
Erin, anche se non vedeva la tv né tanto meno leggeva i giornali, non potette non riconoscere comunque chi aveva di fronte a sé.
“Guarda, guarda, guarda…”, disse, sentendosi riempire da una valanga di soddisfazione, “Dalle stelle alle stalle, in tutti i sensi. E comunque belle occhiaie, si addicono proprio ad un alcolizzato come te.”
Chi lo avrebbe mai detto che, un giorno, chiusa in quella cazzo di clinica avrebbe avuto l’onore di conoscere uno dei componenti della boy band più famosa di tutta la Germania, alias Tokio Hotel, alias Tom Kaulitz?
Personalmente, ad Erin il suo gruppo rimaneva indifferente come la carne stantia della mensa, non si era mai interessata alla loro musica. Non conosceva niente di loro, non si sarebbe mai fatta ore di treno o bus per andare a vedere un loro concerto né avrebbe mai comprato i loro cd.
Per lei, Tom Kaulitz non era altro che un altro malato mentale, uno con una dipendenza distruttiva. Ma c’era sempre una certa soddisfazione nel vedere che anche i ricchi e famosi finivano nella merda fino al collo!
“Hai frugato nella mia borsa vero?”, sbottò lui.
“Nemmeno per idea! Questa bottiglietta stava proprio in bella vista.”, fece lei, maneggiandola.
“Ridammela.”, ringhiò il ragazzo.
“Cosa? Non ho sentito. Mi hai chiesto di ridartela?”, fece Erin, sarcasticamente, mentre la apriva, facendo scrocchiare la chiusura del tappo.
“Non ci provare o ti uccido.”, disse l’altro, comprendendo che la ragazza lo avrebbe versato a terra, o forse lo avrebbe bevuto.
“Uccidermi? Uccidere me? Non puoi, ho una squadra di guardie del corpo proprio come te, pronte a saltarti addosso e a frantumarti le costole.”
“Ridammelo!”, gridò l’altro cercando di strapparle la bottiglietta di mano, ma non fu abbastanza veloce perchè Erin se la portò alla bocca e ne bevve tutto il contenuto.
Dopo una breve lotta, il ragazzo riuscì a prenderla ma ci fu un’amara delusione generale quando scoprì che era stata completamente prosciugata.
“Maledetta puttana!”, fece l’altro, buttando la bottiglietta a terra e facendola andare in frantumi, “Che cazzo vuoi da me?”
“Innanzitutto, non ti azzardare più a chiamarmi in quel modo…”, disse Erin.
Gero prese a bussare insistentemente alla porta ed entrò, per vedere cosa erano stati quei rumori.
“E tu? Anche tu, che cazzo vuoi?”, ringhiò ancora Tom.
Ci fu uno scambio di sguardi, tra i due, a base di scintille, prima che Gero richiudesse la porta della stanza con un tonfo.
“Ascoltami,", gli ringhiò, "Non me ne importa un cazzo se sei famoso, per me suoni in un band di finocchi, ma non ti azzardare a fare stronzate. Qua non sei nessuno!”, fece l’altro, andandogli faccia a faccia per incutergli timore.
Tom, di risposta, gli dette una spinta che lo fece barcollare all’indietro. Gero fu ripreso da Erin appena un attimo prima che  potesse dargli un pugno nello stomaco.
“Gero! Calmati! Non vorrai metterti nei guai per lui!”, gli disse.
“Chi ti credi di essere? Sei solo un drogato!”, fece Tom, allontanandosi.
Erin fino a quel momento era riuscita a contenere l’amico, ma all’ennesima provocazione lui reagì, liberandosi della presa forte ma non decisa di Erin. I due si fronteggiavano, naso contro naso, senza però alzare le mani. Si guardavano e basta, attendendo che uno dei due rinunciasse alla sfida.
“Gero!”, disse ancora Erin, “Lascialo perdere.”
“E’ stato lui ad iniziare.”
“Gero… lascialo perdere…”
Gero, combattuto tra la voglia di spaccare il naso al suo avversario e la possibilità reale di essere espulso se lo avesse fatto, decise di abbassare le armi. Uscì dalla stanza sbattendo la porta e facendo sussultare Erin.
“Cosa aspetti a seguirlo?”, le disse Tom.
“Caro, questa è la mia stanza. Dico mia perchè sto qua da prima di te. Quindi tutto quello che vedi è mio, solo mio. Abbassa il tono.”, disse Erin.
“Ah si? Allora fatti cambiare stanza. Non voglio dividerla con nessuno, è un mio diritto.”
“Eh no, sarai tu a toglierti dai piedi.”, fece Erin, mentre usciva dalla stanza.
Che cosa gliene importava dei cento euro e della scommessa?
Cosa gliene importava del fatto che avrebbe perso la faccia con la direttrice?
Lei non lo voleva in camera sua, per niente al mondo.
Andò verso l’ascensore, sarebbe andata dalla direttrice e avrebbe spinto finchè lei non l’avesse accontentata.
“Vai a chiedere al capo di buttarmi fuori?”, le chiese Tom.
“Certo che sì, testa di cazzo.”
“Allora facciamo a chi arriva prima.”, fece lui.
Un novellino contro una veterana. Uno che non conosceva la clinica contro una che poteva camminarci ad occhi chiusi.
La sfida era troppo scontata.
Erin, invece di prendere l’ascensore, corse come un pazza verso le scale anti incendio, le salì a coppia e fu presto al piano superiore. Una volta rientrata, svoltò a destra, imboccando il corridoio che portava direttamente all’ufficio della Popper.
Il suo orgoglio fu notevolmente ferito quando vide che, più o meno, quell’altro deficiente era alla stessa distanza dall’ambita porta. Lo sprint finale ebbe come esito che entrambi furono troppo occupati nello sfidarsi a vicenda per riuscire a vedere che la direttrice stava uscendo dal suo ufficio proprio nello stesso momento in cui i due velocisti arrivarono alla sua porta. La donna vide la pila di cartelline che aveva in braccio fare un volo in aria e ricadere per terra, seminando tutto il suo contenuto per terra.
“Ma cosa…. Signorina Geller!”, gridò la donna., con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

 


Ben ritrovati ragazzi!!! Da quanto tempo non mi trovate in questa bellissima sezione!!!!! Non ho aspettato molto e, nel mentre che avevo finito la mia ultima storia e la stavo pubblicando, mi sono spremuta le meningi e ne ho scritta una nuova!
Una piccola delucidazione sui personaggi: chi tra i 4 era più adatto per interpretare la parte di un alcolizzato e pure un pochino stronzo dentro? Beh, la risposta esatta è Tom! Con questo non voglio dire che lo sia davvero, però leggendo qua e là mi sono fatta un'idea un po' poco buona su di lui... bravo ragazzo di provincia... vabbè, potevo prendere anche Bill, Georg o Gustav, ma con lui rendeva meglio!
La protagonista, Erin Geller, non ha niente in comune con Mac, lo si capisce molto bene. Me la sono immaginata in questo modo: una Anne Hataway con i riccioli, non so se avete presente... quella che ha fatto 'Il diavolo veste Prada'. Personaggio molto problematico, non vi consiglio di averlo come alter ego come invece ce l'ho io... uno dei miei tanti...
Il suo amico, Gero Lang è anch'egli un personaggio che non è per niente facile da gestire. Se penso a lui mi viene in mente subito Peter Petrelli, uno dei protagonisti di Heroes, telefilm strafigo, non tanto quanto Lost, che fanno su italia uno. Sicuramente lo conoscete meglio come Milo Ventimiglia, ha fatto anche Jess in Una mamma per amica... insomma, è uno che mi ispira molti pensieri ad alto rating.

Ve lo dico subito: non ci saranno storie d'amore tra Erin e Tom ! Lo nego fin dall'inizio, non iniziate con 'ma i due stanno bene insieme' usw usw... Judeau sa cosa vuol dire usw, chiedetelo a lui... sarà una storia molto molto molto drammatica, venata di sarcasmo e di un po' di comicità.

Spero che entri nei vostri cuori così come le mie storie precedenti, perchè questa storia è un dramma epico, sia per i contenuti, sia per me che la sto scrivendo... ragazzi, io non fumo e dopo due bicchieri di vino sono stesa, non ho dipendenze, a parte le fanfic, quindi non so cosa realmente stanno passando i personaggi, anche se sono io stessa che li ho creati... che ragionamento contorto... comunque sto cercando di documentarmi, spero di riuscire ad essere almeno un po' realistica... Non so nemmeno se riuscirò a pubblicare con una certa periodicità come ho sempre fatto... spero non mi metterete alla gogna!!!!

Dimenticavo!!!! TITOLO: canzone degli Aerosmith, "Dude looks like a lady" si riferisce a quando Erin e Gero pensano che il nuovo coinquilino Tom K. sia una ragazza... beh, la confusione ci sta, di solito non c'è tutta questa promiscuità nelle cliniche... ma la storia  è la storia!!! La canzone è stata usata senza scopo di lucro.... E I PERSONAGGI REALMENTE ESISTENTI E CITATI IN QUESTA STORIA NON SONO DI MIA PROPRIETA' NE' INTENDO DARE UNA RAPPRESENTAZIONE REALE DELLA LORO VITA CON I FATTI CHE ANDRO' A DESCRIVERE!!!!

Detto questo... ENJOY THIS DRAMA!!!!

-RcB-

   
 
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