Be, odio
Polissena, ma ammettiamolo non potevo non scriverci.
Spero
possiate gradire e farmi sapere cosa ne pensate (particolarmente se è un
disastro)
Buon
Lettura
RL&H
“Non storno il pianto
alla vita mia,
che più che sozzura e rovina non è:
ventura migliore la morte, per me”
(Polissena, rivolta alla madre. Euripide, Ecuba, versi 213-215)
Ekthyo (*)
Non
dimenticò mai la presa ferrea dell’argivo, ne le mani sfuggenti di sua madre.
“Figlia mia! No! Figlia mia no!” piangeva la regina di Ilio.
Una città
che era stata grandiosa e che ora non era altro che cenere ed ossa.
Il lamento
di sua madre era eco nelle sue orecchie, la vedeva lontana graffiarsi il viso dal
dolore, Ecuba aveva perso in quella sanguinosa decade la maggior parte dei suoi
figli in modo cruento.
Per uno di
essi che Polissena si dirigeva nelle terre dell’orco.
Ma una
rovinosa morte, sarebbe stata più gratificante della vita di una schiava.
Pensò a
Troilo la giovinetta e alla loro fanciullezza, mai realmente pura e candida,
erano cresciuti assieme, ancora troppo infanti per ricordare qualunque’altra
cosa se non la guerra, l’avevano sempre vista dalle alte mura della città.
Ma ancora
ingenui, spontanei e incantanti. Cassandra, l’invasata, diceva sempre che era
animata dal candore di una bimba, che la maturità non le apparteneva e che
probabilmente non avrebbe mai sfiorato la sua fresca mente di giovane.
Dolce e
spregiudicata infanzia, quanto Polissenna la rimpiangeva.
Ma
l’innocenza era decaduta assieme al suo amato fratello.
Il Pelide,
mai la sua mente l’avrebbe dimenticato quell’atroce spettacolo, l’aveva
sgozzato lì nell’altare del dio Apollo. Mai i suoi occhi avevano veduto
qualcosa di così feroce . Achille pie veloce non era un uomo era una belva
sotto le spoglie mortali.
Un semidio
era stato detto, ma dovevano averle mentito, Troilo era il figlio del sole e
come tale splendeva della sua stessa luce divina e calorosa, sotto le mura di
Troia lo chiamavano Belva della Guerra, ma non lo era, non aveva neanche
vent’anni e nessuno al mondo era stato più genuino di lui.
Oh dolce
fratello, lì dove il sole non arriva, sotto il dominio di Ade illacrimato, si
sarebbero ritrovati.
Neottolemo
se la tolse dalle spalle e posò le sue esili gambe sulla terra arida, dinanzi
una tomba, che tanto la face impallidire. “Illiaca,
tu sai chi giace in questo tumolo?” domandò lui, occhi incandescenti dalla
rabbia, una giovanile furia che non trovava pace, tanto da divorarlo dentro.
“Si” bisbigliò, la voce era stata esile,
fuggite alle sue piccole labbra di perle.
Sapeva chi
riposava lì, sapeva anche di averlo ucciso lei.
Il Pelide
Achille si era invaghito di lei, quando l’aveva vista fuggire in lacrime e
pavida come una colomba del tempio di Apollo, impotente in tutta la sua
femminile incapacità, senza poter salvare l’amato fratello dalla morte o almeno
poter mantenere onore al suo corpo inerte. Neanche quello. Nulla le era stato
possibile.
Ma Paride,
incosciente e stupido, animato dallo stesso furore di vendetta che in quel
momento ardeva negli occhi di Neottolemo dalla fulva chioma, che tanto
assomiglia a suo padre, nella stessa furente e bestiale espressione. Suo
fratello, il disgraziato, di Alessandro le propose il piano, avrebbero
organizzato un incontro perché il Pie Veloce si unisse a lei in nozze, ma su
quello stesso talamo con la stessa segretezza del rito nuziale, un esecuzione
sarebbe avvenuta.
Rancorosa
ed arrabbiata, una Polissena non più
bambina aveva scelto di immolarsi per
Troia.
E così era stato.
Aveva
incontrato l’odiato amante nel tempio e
stretto forte al suo petto l’aveva sentito spirare. Un avvelenata freccia nel
tallone, l’unico punto debole del più
forte dei guerriere che stupidamente aveva confidato a lei, la donna che
pensava avrebbe passato con lui il resto della sua vita.
Ed anche
se per la durata di quella di una farfalla il Pelide aveva speso la vita tra le
braccia della sua amata.
L’argivo
serrò la sua mano sull’esile collo, “Tanto
mio padre ti ha desiderata,
principessa” aveva detto, la sua voce era tagliente, ma nulla riusciva a
controllare il suo furore. L’aria le venne a mancare, così come la terra sotto
i piedi.
Il sole
che cominciava ed essere inghiottito in un offuscata oscurità, penso di morire
così. Ma Neottolemo lasciò la presa, facendola ruzzolare sulla terra arida,
sopra l’ossario del figlio di Teti. Si chinò al suo fianco, estraendo dalla cintola una lama lucente.
Polissena
vide in quel metallo la sua morte. Un sorriso verticale ed accattivante. “Se ti ha tanto voluta, l’onorerò donandoti
a lui” enunciò l’argivo, un sorriso
sardonico sulle sue labbra.
E lei non temé
questo, il suo destino non le era d’angoscia, quasi pensava alla morte come una
pace. Ricordava la folle Cassandra, trascinata via di forza dille che nel sonno
eterno avrebbero trovato la pace. Sapeva che era così, non aveva mai creduto
alle parole di sua sorella, ma quella aveva sempre avuto ragione.
“E sia” pronunciò solenne.
La lama
scese su di lei.
E poi fu la pace.
*(fare un
sacrificio espiatorio)