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Autore: Eris Gendei    23/09/2007    3 recensioni
Non lo so come è venuta questa fic...mi ha dato l'idea "il vangelo di Lilith" (altra fic)e una frase della mia migliore amica mi ha dato lo slancio. Ho messo rating arancione perchè l'argomento è un pò pesante, un pò fuori dagli schemi e potrebbe urtare la sensibilità di alcuni: in futuro se lo riterrò necessario lo alzerò a rosso. Nel frattempo mi farebbe piacere qualche recensione. :) Fra parentesi...il titolo non ci azzecca ma non ne trovavo uno migliore.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avrebbe potuto osservare per tutti gli attimi della sua vita l’immagine che si stagliava nitida davanti ai suoi occhi, incantandola ogni volta come se fosse la prima; la prima volta che aveva sentito la pesantezza e il gelo dell’aria invaderle il petto, gonfiatosi come non lo aveva mai sentito fare al primo respiro, e aveva sentito le sue membra formicolare, inumidite dal sangue che aveva cominciato a scorrerle lento dentro le vene; e infine aveva spalancato gli occhi.
Se li era riempita di un’immensa volta celeste accecante, ancora non sapeva che fosse il cielo, e aveva visto fronde fiorire lì, in quel momento, davanti agli occhi suoi stessi.
Ancora non sapeva che si chiamassero fronde.
Sentiva una carezza pungente sulla pelle, era l’erba, ma non era conscia di essere sdraiata sul suolo di quello che sarebbe stato il suo mondo, almeno per un po’; lei ancora non poteva sapere quale fosse il cielo e quale la terra, quale l’alto e quale il basso.
E molte volte ancora aveva provato quella stessa sensazione, sempre uguale e allo stesso modo emozionante.
“Sei ancora lì?”
Sillabò una voce strusciante, strascicata, con un tono a metà tra l’umorismo e la curiosità.
Era tornato di nuovo.
Una volta ancora per tentare di sobillarla e portarsela via, migliaia di palmi di terra più sotto, nel suo lurido tugurio che lei neanche voleva immaginare.
Era ormai diventata sua abitudine salire su qualche volta, quando gli era possibile scivolare via confondendosi tra le ombre, andare a cercarla e passare un paio d’ore in sua compagnia, seguendola nei suoi pigri spostamenti tra i sentieri dell’Eden, tentando invano di corromperla e giocando a pizzicarla come un insetto particolarmente fastidioso.
Solo perché non era dotata di quel sentimento cattivo chiamato odio Eva non lo cacciava in malo modo.
“Che cosa vuoi questa volta?” si limitò a chiedere, più per abitudine che per vero interesse.
Era diventato una specie di piccolo copione il loro, scene da ripetere all’infinito, fino alla perfezione.
Senza mai stancarsi.
“Lo sai cosa voglio…il mio obiettivo è ben radicato, non cambia facilmente…com’è che dici tu? Non sono dotato di spirito di rassegnazione?”
da strascicata la voce era diventata maliziosa.
“Corretto…” sbadigliò l’altra allontanandosi tra gli alberi lussureggianti dal tronco candido e grigiastro: adorava i salici piangenti, così dolci e malinconici, sempre piegati nell’atto di piangere le loro lacrime verdi di foglia ai loro stessi piedi o abbandonarle lungo un ruscello che carezzava loro le radici.
Qualcosa però era cambiato: nel suo modo di scostare un ramo morbido e docile dell’albero con l’avambraccio, di insinuarsi nella intima tenda delle fronde del salice, nascondendosi e mostrandosi allo stesso tempo, di accucciarsi accanto al tronco e posarvi l’orecchio per sentire la vita fremere dentro esso, per cancellare l’alone di morte e disperazione che portava l’altro con sé.
“Ma insomma…puzzo così tanto?” sbottò lui divertito nel vedere la reazione della ragazza.
Ma alla sua voce mancava qualcosa.
Anche lei se ne accorse, dimostrandolo con un brivido che le scosse leggermente le spalle prima che lei lo mascherasse.
“Cosa dire…ti nutri di cadaveri, vivi tra i morti, hai perennemente addosso l’odore nauseabondo del fuoco dannato che attizzi e del luogo orribile donde vieni.” Rispose lei con la voce tremante.
Come al solito.
“Eva, Eva…a volte mi sembri una bambina.
Come posso nutrirmi di cadaveri se nessuno muore?
Come posso vivere tra i morti se non ce ne sono?
Io sto soltanto lavorando sodo, diligentemente, per creare una casa che mi sia degna e che mi piaccia.
E’ l’unico piccolo diletto di cui vivo.
Non calunniare dunque, se non vuoi fare la mia stessa fine…ma fidati, ti piacerebbe.
Il freddo certo non soffriresti mai.”
La voce si era ora fatta melensa, carezzevole.
La giovane donna chiamata Eva si girò di scatto, gli occhi ardenti: “Mai, mai e poi mai verrei con te in quel lurido mondo in cui aleggi, in quell’orrendo tugurio in cui vivi, a bruciare la mia pelle bianca sulle fiamme dannate che rendi vive con gli alberi che depredi da questo paradiso!”
“Calma, calma…innanzitutto io non depredo ma prendo ciò che mi è dovuto.
Vorresti vedere il mio mondo distrutto forse?
Se non fossi stato cacciato ingiustamente…”
“tu non sei stato cacciato ingiustamente! Meritavi la punizione divina che ti è stata inflitta! Se non avessi tentato di uguagliare la perfezione del mio Dio che era anche il tuo Dio…”
“Quello che chiami il tuo Dio non è perfetto!!” l’aggredì lui con violenza.
“Apri gli occhi giovane Eva!! Questo giardino perfetto è soltanto un’illusione, è tu ne sei parte!! E sempre ne sarai parte se non te ne vai!!”
“Questo giardino è la perfezione, il mio Dio è la perfezione, tu sei solo…”
“Il tuo Dio non è la perfezione!! Se fosse stato perfetto non avrebbe sentito la necessità di creare te e l’altro!!”
La giovane Eva rimase attonita, silente, la mente invasa da fantasmi e pensieri non suoi che non comprendeva.
“Lucifero, tu hai perso il lume della ragione…” balbettò sconvolta, le mani tremanti e il corpo scosso da brividi.
Si aggrappò con forza al tronco dell’albero, sbucciandosi le dita sulla corteccia dura e ruvida, per sostenersi.
Le ritirò immediatamente, esaminando l’entità del danno: non aveva mai visto cosa si nascondeva sotto lo strato di pelle marmorea che fasciava il suo corpo tutto e la visione di un piccolo rivolo di sangue rosso carminio che fuoriusciva da uno dei tagli superficiali che si era procurata e che le bruciavano come mai altro aveva sentito la mandò nel caos.
“Eva…so che ora non capisci ciò che dico e che sei spaventata ma è la verità.
Credimi Eva, seguimi e il dolore che provi sulla punta delle dita sarà soltanto un ricordo, e scoprirai cose che non puoi immaginare né sperare di vedere adesso.”
La voce dell’uomo chiamato Lucifero si era fatta bassa, quasi implorante.
Un giovane emerse in quel momento dalla vegetazione ricca e verdeggiante dell’Eden e si fermò stupito a pochi passi dall’altro, al limitare della radura in cui si trovavano gli altri due.
Lucifero lo guardò con disprezzo e una punta invidia mal celata si fece largo nella sua espressione: “Cos’ha lui in più di me?” chiese con scherno, feroce.
“Lui è buono, la sua espressione è pacifica, il suo animo tranquillo…e non ha nulla a che fare con i tuoi orrendi morti.”
Lucifero si guardò le unghie di una mano con aria annoiata:”Ma insomma, quante volte devo ripeterti che non sto tra i morti? E comunque è tutto e solo questo ciò che tu cerchi in un uomo? Ti accontenti di uno sguardo vuoto e di un corpo apatico?”
Eva gli voltò le spalle di scatto, ferita e contrariata: quando lui era nei paraggi riusciva sempre a dare sfoggio del peggior suo lato e se ne vergognava.
Specialmente di farlo davanti all’uomo che lei amava.
“So cosa stai pensando…lui è l’uomo che ami. Se lui è il tuo amore io non potrei essere il tuo amante?” chiese con voce maliziosa.
“Il mio cuore è concepito per amare soltanto un uomo per volta, e così è giusto che sia e che rimanga. Non tentare di corrompermi.” Rispose acidamente Eva.
“Concepito per amare…uno solo alla volta!”
Lucifero scoppiò in una fragorosa risata dal suono distruttivo, insopportabile, che rasentava l’isterismo.
Rideva a scatti, gli occhi fissi e spalancati, una mano sul petto e una sul ventre come per contenere un dolore che sfogava ridendo.
In quel momento era lui a non capire.
“Eva…Eva…” singhiozzò nel riso “Amare…intendi forse dire che ti piace davvero startene tutto il tempo a guardare negli occhi quello lì come fai di solito?” la schernì con cattiveria pura nella voce affilata.
Eva, ferita, si allontanò a passo svelto, lunghe e leggere falcate, stringendosi i gomiti con le mani: i piedi piccoli e candidi le affondavano nell’erba morbida e setosa che ricopriva quasi tutto il suolo del suo “giardino” e gli steli sottili e fragili di piccoli arbusti verdi le solleticavano le caviglie quando lei li sfiorava.
Tentò di lasciarsi pervadere dalla tranquillità assoluta del suo mondo ma in quel momento il cinguettare degli uccellini, lo stormire delle fronde, il fruscio delle foglie che le erano sempre sembrati i suoni più belli e pacifici non avevano effetto: non che avesse una gran pietra di paragone, abituata com’era a sentire soltanto suoni soavi, ma la voce di Lucifero annientava le melodie della natura come una presenza mefitica.
Ecco: ogni volta che lo incontrava reprimere in fondo a se stessa, dove nessuno potesse scovarlo, quel suo lato non buono diventava più difficile, a volte così stancante da farla crollare addormentata ai piedi di un albero mentre cercava di liberare la mente e rilassarsi.
Ripensava alle ultime parole del suo macabro interlocutore prima che se ne andasse: parlava degli occhi.
Gli occhi di Adamo, del suo uomo.
Quegli occhi tanto belli e calmi che le trasmettevano sicurezza e pace con una sola occhiata, che la tranquillizzavano con una sola carezza dello sguardo…che non variavano mai espressione.
Riecco quella noiosa voce interiore che le suggeriva pensieri negativi e le annebbiava la ragione.
Ma questa volta non poteva, o forse non riusciva, a non darle ragione: si ritrovò a vagare con la mente in pensieri che mai avrebbe pensato di saper formulare, scartabellando tra i suoi ricordi di giorni tutti uguali, perdendosi negli anfratti stessi della sua mente.
E mentre pensava era impossibile scacciare la visione di due occhi che la fissavano, ardenti, vivi, passionali.
Chiuse gli occhi e scosse la testa cercando di eliminarli ma appena le sue palpebre si abbassarono sigillandosi con quelle inferiori quelle due pupille nere come la pece circondate da due scure iridi castane le infiammarono la testa, gli occhi, la accecarono.
Cadde riversa a terra tenendosi le mani sugli occhi, spaventata dalla sua stessa immaginazione, in preda a dei brividi molto simili a convulsioni.
Una mano gentile le toccò piano la spalla e cominciò ad accarezzarle lentamente la schiena, tranquillizzandola in pochi attimi.
Rimase stesa a terra, rannicchiata su un fianco a piangere in silenzio, le lacrime che le rigavano la pelle candida e finivano ad impregnare la terra, per qualche minuto, o forse qualche secondo, o forse addirittura qualche giorno…
Rimase a piangere finché non ebbe più lacrime e la tristezza si fosse consumata assieme a tutte le altre sensazioni.
Solo allora si alzò lentamente, con una grazia quasi meccanica, prese la mano che le aveva accarezzato la schiena per tutto il tempo della sua agonia e s’incamminò lentamente per l’Eden assieme al suo uomo, esibendo un sorriso innocente e beato.
Beatamente vuoto.

Qualcuno osservava la scena da lontano, un’espressione malinconica dipinta in volto.
“Prima o poi capirai, giovane Eva” sussurrò alla brezza, che rapì le parole annientandone il suono e portandole via.
“Arriverà il momento in cui qualcuno ti farà sbagliare e tu subirai le conseguenze del tuo errore. Forse allora, quando proverai cos’è veramente il dolore, ripenserai a me e capirai che per evitare tutto questo ti sarebbe bastato venire con me…”

La prima e ultima lacrima di Lucifero si perse tra i fili d’erba dell’Eden.
E lì dove era caduta germogliò un virgulto.
Fu l’unico frutto di Lucifero non impregnato di peccato.

  
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