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Autore: margheritanikolaevna    10/03/2013    8 recensioni
Oggi è la Giornata della Memoria: nessuno di noi ricorda l'Olocausto, eppure ognuno di noi ha il dovere di ricordarlo.
Questa strana storia è il mio personale contributo per non dimenticare.
Vi siete mai chiesti come sarebbe la nostra vita se la Seconda Guerra Mondiale non fosse andata nel modo che conosciamo?
Partecipa ai contest "Worldwide" di Yuki e "Quando l'ispirazione bussa alla porta..." di Dominil B
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mac Taylor
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Amici, eccoci qui alla fine di questa storia: il vostro seguito mi ha sinceramente sorpresa, perché non può dirsi certo un racconto leggero, e mi ha resa davvero felice.
Spero di riuscire a trasmettervi l’entusiasmo e la gratitudine che le vostre recensioni, i vostri consigli e le vostre riflessioni mi hanno suscitato.
 
 
 
Capitolo quinto
 
 
“Mi hanno detto che non vuoi parlare con nessuno” disse Stella Bonasera a voce alta, facendo sussultare l’uomo steso sulla branda, che fu l’unica a rispondere con un esausto cigolio metallico.
“Non avevi documenti con te e nessuno sembra conoscerti… pare quasi che tu venga da un altro pianeta” continuò, sperando che lo scherno aizzasse il prigioniero a risponderle.
“Invece credo che ti convenga farlo” proseguì “o altrimenti il posto dove ti manderanno ti farà rimpiangere che non ti abbiano ucciso subito”.
Mac si levò in piedi e la osservò, ancora muto.
Scosse il capo con energia e stese appena un braccio verso di lei, facendo così tintinnare le catene che gli serravano i polsi e le caviglie.
Sebbene il suo gesto le facesse intendere che aveva capito le sue parole, il suo sguardo spento errava lontano, lontano dal mondo reale.
“Dimmi chi sei” insisté Stella “E cosa volevi da me quel giorno al raduno”.
“Io… onestamente non so nemmeno perché sono venuta fin qui. So solo che avevo bisogno di parlare con te.
Rispondimi.
Ti prego”.
Stella Bonasera non aveva mai pregato nessuno in vita sua, nemmeno da bambina, neppure la direttrice dell’orfanotrofio dove aveva vissuto fino al momento di entrare nella Hitlerjugend; ma in quel momento la voce le era uscita dal petto in tumulto senza che nulla riuscisse a fermarla.
Mac Taylor la guardò ancora, sospirò e in silenzio si volse verso la parete, dandole le spalle. Gli occhi pieni di lacrime, non riuscì a fare altro che abbandonarsi ai ricordi.
 
Stella, il momento della mia fine è vicino.
Le nostre ombre si riflettono sui binari bagnati.
Durante tutta la nostra vita abbiamo lottato e sperato (e ora?).
Il tempo ci ha reso adulti, ma… ma!
Penso a quella mostra, a New York, e mi chiedo se è mai esistita o se l’ho solo sognata.
La mia mente vacilla, eppure so che non c’è nulla di più importante del nostro ultimo giorno insieme.
E ora penso a prima, penso a te.
Penso alla Stella che conoscevo.
Penso alla nostra vita e mi chiedo dove sei ora,
come sei ora
come ridi
come piangi
come dormi
come gridi
Se ovunque tu sia, perduta negli abissi del tempo e del sogno, pensi ogni tanto ai nostri giorni insieme.
Ma… adesso capisco, tutto diventa così chiaro.
Il nostro tempo è finito.
Anche se fu il migliore.
E il vento porta già l’inverno che sta arrivando.
Ti conservo nella memoria così com’eri.
Come il più bel giorno d’estate(17)
 
Stella attese ancora qualche minuto, immobile, e poi senza aggiungere altro uscì dalla cella.
 
***
 
Convincere il capitano Julius Rothe (18) che il prigioniero non era un povero demente, bensì un pericoloso sovversivo, non fu facile per Stella Bonasera.
Dovette insistere e fare appello al suo grado, riferendogli passaggi inventati di un dialogo inesistente che, disse, l’aveva sconvolta; solo dopo due ore di fitta conversazione riuscì a ottenere per l’uomo senza nome un’esecuzione rapida.
Una condanna esemplare, di valore dimostrativo per chiunque si azzardasse a
incoraggiare il dissenso - così la definì Stella - impiegando le sole parole che sapeva avrebbero convinto una volta per tutte quell’oscuro soldato di provincia.
Il detenuto accolse la notizia con indifferenza.
La mattina successiva, all’alba, si vestì e senza un fiato seguì i due militari che entrarono nella cella per portarlo via.
Oltre la porta di metallo, Mac aveva immaginato un labirinto di gallerie, scale e anditi bui. La realtà fu, invece, come sempre molto più povera: percorsero un breve vialetto fiancheggiato da stenti alberelli e, dopo aver sceso alcuni gradini, si trovarono in un umido cortile dove alcuni soldati fumavano e chiacchieravano.
Al suo arrivo, abbassarono improvvisamente la voce per una sorta di strano rispetto, come se fosse già morto, e guardandoli il poliziotto si accorse che i loro occhi sfuggivano i suoi.
Il plotone s’inquadrò.
Il condannato, in piedi contro il muro della caserma, levò lo sguardo verso l’alto e scorse alla finestra del secondo piano il viso familiare di Stella; era pallida nella luce grigiastra dell’alba e non riusciva a staccare gli occhi dal cortile.
La fissò per un istante, poi abbassò la faccia e attese.
Il sergente vociferò il comando finale.
Mac Taylor non indietreggiò, gridò il principio di un grido, mosse appena il capo.
La quadruplice scarica lo fulminò.
 
 
Epilogo
 
La prima cosa che trascinò Mac Taylor dal gorgo oscuro in cui era precipitato fu un lieve dolore al braccio sinistro; ancora confuso, cercò di muoversi ottenendo solo che una nuova e ben più lancinante fitta al costato lo convincesse dell’inopportunità del suo tentativo.
Allora provò ad aprire gli occhi e quando vi riuscì constatò che si trovava in un piccola camera in penombra; era sdraiato su un letto dal quale esalava un tenue odore di disinfettante e, guardandosi il braccio, si accorse che il fastidio che aveva provato era dovuto all’ago di una flebo infilato in vena.
Si tirò su senza riuscire a soffocare un gemito e aprì la bocca per parlare, ma non fu in grado di articolare nulla.
Tese le orecchie: nessun rumore, nessun indizio che gli consentisse di capire dove si trovava.
A un tratto una voce familiare lo fece sussultare.
Stella Bonasera entrò nella stanza e gli si avvicinò, sorridendo.
Mac Taylor istintivamente le rivolse uno sguardo carico di terrore e cercò di sottrarsi al contatto.
Lei, invece, gli posò una mano sulla spalla e disse: “Ma allora avevo sentito bene! Ti sei risvegliato finalmente”.
Poi si sedette sul bordo del letto e continuò, con voce più dolce: “Come ti senti?”.
Lui per tutta risposta continuò a fissarla con orrore e sbigottimento e si agitò, tentando di allontanarsi da lei.
 “C-cosa mi è successo?” riuscì infine ad articolare con difficoltà.
Stella sorrise di nuovo e il poliziotto si sorprese a fissare il suo viso, atteggiato in quel modo gentile, con aperto terrore.
“Non lo ricordi?” rispose lei, distogliendo lo sguardo “Beh, è normale, dopo quello che ti è accaduto.
Non preoccuparti, mi prenderò cura di te” aggiunse, levandosi in piedi.
“Adesso cerca solo di riposare”.
Fece alcuni passi verso la porta, ma prima che scomparisse Mac tentò di seguirla. Le gambe non gli ressero e sarebbe caduto sul pavimento, se Stella non fosse stata lesta a sorreggerlo.
“Aspetta!” implorò lui, la voce spezzata dall’angoscia.
“Dimmi solo una cosa, ti prego: chi ha vinto la guerra?”.
 
FINE
 
(17) Le parole sono una, lieve, parafrasi del testo della canzone „Vorbei“, che costituiva uno dei prompt che il contest richiedeva di inserire nel racconto.
(18) Il nome è un omaggio all’omonimo personaggio del racconto “Il miracolo segreto” di Jorge Luis Borges.
 
 
Sopresi? Non vi aspettavate un finale così aperto? Vi sarebbe piaciuta una storia più lunga, con una trama più articolata o una conclusione differente?
Fatemi sapere cosa ne pensate, le vostre impressioni sono sempre preziose.
Comunque non temete, la prossima storia sarà completamente diversa e… di certo più divertente!
 

  
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