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Autore: rekichan    26/09/2007    7 recensioni
Chissà cosa lo aveva spinto a credere che gli Uchiha fossero tutti uguali.
Lo avrebbe dovuto comprendere subito che Obito, col suo sorriso incancellabile, perfino nella morte, aveva costituito una tanto improbabile quanto meravigliosa eccezione.
Così come doveva comprendere che quel ragazzino dagli occhi neri e il broncio sul volto non sarebbe mai stato come lui.
E non avrebbe più riso, perché le risate dei bambini, quelle che si rompono e si trasformano in etere fate, si erano perse per strada allo svoltare dei suoi sette anni.
No.
Decisamente, a Kakashi, quel Sasuke adolescente non piaceva.
Forse, perché erano troppo simili.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kakashi Hatake, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Oddio. La mia prima KakaSasu a capitoli.

Ragazze, io ci provo, ma non vi assicuro niente. Assolutamente n-i-e-n-t-e, specie per quanto riguarda l'OOC.

Comunque sia, partiamo con le dedicuzze:

A Linnie, per aver amato così rapidamente le KakashiSasuke.

A Bia-chan, per averle sempre adorate.

A Mika-mika, per essere l'Itachi migliore del mondo (se si staccasse dal telefono con Shisui non dispiacerebbe, però <.<)

A Ainsel, la mia gemellina.

A Ross, la mia fantastica mamma.

A tutte coloro che adorano Kakashi e Sasuke assieme.

Buona lettura.

La pioggia lava.

Purifica.

Ma ci sono cose impossibili da cancellare.

Cose irrimediabili che niente e nessuno possono pulire.

Neanche la pioggia può lavar via il rimpianto di non averlo mai sentito chiamarti:

«Sensei.»

Kakashi poteva tranquillamente affermare di aver seguito, indirettamente o meno, ogni tappa della sua crescita.

Lo aveva scorto gattonare per la vasta tenuta degli Uchiha, tentando di mettere nella piccola bocca, il cui labbro inferiore ricordava quello di un felino, qualsivoglia oggetto gli capitasse tra le mani, scatenando l’ira del fratello maggiore, incaricato della sua sorveglianza.

Di riflesso, aveva seguito perfino le sue malattie infantili – varicella, scarlattina, morbillo…- visto che Obito si lamentava sempre che “quel dannato moccioso”, come lo chiamava, aveva preso la cattiva abitudine di sgattaiolare da lui in mancanza della madre e del fratello.

Il tutto, contaminandolo con scarlattina, rosolia e varicella; soprattutto perché il secondogenito di Fugaku Uchiha sembrava avere tanta fretta di passare tutte le malattie, quanta ne aveva avuta di venire al mondo.

Tempo di nascita: 3 ore nette.

Alle 4.00 di mattina.

A Luglio.

Col caldo.

Probabilmente tutto il clan Uchiha aveva maledetto quella nottata estiva, visto che il bambino aveva deciso di annunciarsi in modo piuttosto doloroso per la povera Mikoto.

Non solo le acque si erano rotte improvvisamente, ma, quando ormai si erano alimentate le speranze che il supplizio avrebbe avuto termine in breve, il nascituro aveva deciso che, no!, l’uscita non era di suo gradimento e preferiva restare nell’utero ancora un po’, rigirandosi comodamente nel pancione della mamma.

Obito, che allora aveva appena compiuto i quattordici anni, quel 23 luglio si era presentato all’appuntamento col gruppo stranamente stanco e assonnato.

Per di più, solo l’anno successivo, l’amato frugoletto del capo famiglia aveva deciso che, in mancanza di Itachi, della mamma e di Shisui [del padre no], doveva essere Obito stesso a fargli le coccole giornaliere.

Pertanto, Kakashi non si stupì più di tanto quando Obito si riempì di bolle e fu costretto a letto insieme al piccolo.

La cosa che, invece, lo lasciò perplesso e deliziò Rin, fu trovare il baby-untore comodamente seduto tra le ginocchia di Obito, intento a leggergli una favola.

«Obito, sbaglio o eri tu quello che odiava i bambini?»

«Beh, è il figlio di Fugaku-san. Mica posso rifiutarmi di fargli da balia.»

«Tobi-chan! Tolia!»

Il bambino protestò, tirando la manica del pigiama del ragazzo.

Era prossimo ai due anni, ormai, e con l’avvento della parola la piccola peste era diventata, se possibile, ancora più assillante.

«Sì, Sasuke-chan. Un attimo…»

«Tobi?»

Kakashi alzò un sopracciglio, perplesso.

«È un bambino. Non parla bene. E poi è testardo; ha deciso che mi chiamo Tobi e non cambierà idea facilmente. Dovresti sentire il soprannome di suo fratello. Povero Itachi. Io crollerei con un moccioso che mi chiama “’niwe-chan” di continuo.» fissò i grandi occhi neri del bambino, crucciati per l’attesa. «Però è bravo.» aggiunse poi, con un moto d’orgoglio «Guarda. Sasuke-chan, dì Kakashi! Ka-ka-shi!»

Sillabò, prendendo le manine del piccolo e facendole battere tra loro ad ogni sillaba.

Sasuke storse il naso, poi decise che il gioco gli piaceva e rise di quella risata teneramente gutturale che si ha solo nell’infanzia.

«…Achi!»

Esclamò, battendo nuovamente le mani, trionfante.

«No, non Itachi! Kakashi!»

Sasuke corrugò le sopracciglia, concentrandosi.

«Ka…chi…»

«Meglio!» Obito ghignò, fissando l’amico che continuava ad osservare, impassibile, la scena. «Ora ripeti quello che ti ho insegnato ieri.»

«Kachi…baka!»

Rin rise, Kakashi sbuffò e Obito si piegò praticamente in due, prima di scompigliare i capelli al piccolo che, felice delle reazioni allegre suscitate dalla propria frase, continuava a ripetere: «Kachi bakabakabakabaka!»

«Sono fiero di te, marmocchio.»

Poi, Obito era morto e di lui era rimasto solo un nome inciso su una fredda lapide.

Kakashi continuava ad aggirarsi nei paraggi di casa Uchiha, illudendosi di risentire la voce dell’amico.

Ogni volta che si trovava di fronte a quel portone, si scopriva l’occhio.

L’occhio con cui Obito continuava a vivere e a vedere il mondo.

E pesava, quell’occhio; talmente tanto che la gravità del fardello non poteva essere alleviata dalle risate di un bambino troppo piccolo per capire come andava il mondo, unico suono che le mura di casa Uchiha lasciavano giungere alle sue orecchie di diciassettenne, troppo stanche per percepire distintamente i suoni, ma troppo allenate per non udirli.

Le risate, poi, si alternavano ai pianti di quello stesso moccioso che, lasciato solo dal fratello e dal cugino, troppo grandi per badare a lui, protestava di non trovare «Tobi-chan» a raccontargli le favole.

Poi, verso i cinque anni, non si udì più il frenetico richiamo, ma solo il fracasso dei cento abitanti e passa della tenuta degli Uchiha.

Quel giorno non aveva piovuto, però.

I saw a newborn baby with wild wolves all around it,
(...)

I saw guns and sharp swords in the hands of young children,

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Kakashi non aveva mai smesso di passare di fronte al quartiere – adesso abbandonato – degli Uchiha.

Luogo pieno di vita, con una storia alle spalle che si perdeva nelle nebbie antecedenti alla fondazione di Konoha.

Luogo, adesso, disabitato.

L’unico rumore che si poteva percepire, se si tendevano bene le orecchie, erano i passi timidi e impacciati di un bambino di otto anni che, ostinatamente, continuava a dimorare in quella casa di fantasmi.

Se vi passavi durante la notte, potevi sentirlo quasi parlare con gli spettri dei parenti defunti, o singhiozzare per la loro perdita.

Poi, come se avesse cambiato idea, o si fosse reso conto del proprio comportamento infantile, il pianto cessava ed ecco nuovamente i passettini incerti sul tatami dell’abitazione principale.

A quel punto della notte, il sibilo degli shuriken fendeva l’aria. Sbagliando bersaglio.

Le dita piccole del bambino non riuscivano né a imprimere la rotazione giusta, né ad adoperare la dovuta forza nel lancio.

Kakashi, a quel punto, scuoteva il capo e passava oltre.

Sasuke non si ricordava di Obito, o, se lo faceva, di sicuro lo mischiava alle anime degli altri morti.

E quel bambino non avrebbe più chiamato nessuno a raccontargli favole perché, il tempo del “…e vissero felici e contenti.”, era finito da tempo, ormai.

Quella notte non aveva piovuto, però.

I heard ten thousand whisperin’ and nobody listenin’,
Heard one person starve, I heard many people laughin’,


And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Era rimasto sorpreso, se non scocciato, di avere nuovamente in squadra un Uchiha.

Soprattutto quell’Uchiha.

Forse perché si aspettava di vederlo curvare gli angoli di quella bocca felina che si ritrovava, nell’infantile sorriso del bambino seduto in braccio ad Obito; forse perché aspirava all’aggrottarsi pensieroso delle sopracciglia scure prima che la vocina che aveva conosciuto se ne uscisse con il familiare: «Kashi…baka!».

Forse perché sperava che il tempo tornasse indietro, che la carica dell’orologio si fermasse, permettendogli di rivedere quegli anni trascorsi e mai vissuti.

Forse, ma non si rendeva contro che la sua vita si basava solo sui “forse”, ormai.

Forse, da quel ragazzo si aspettava un comportamento che, mai, sarebbe arrivato.

Non gli avrebbe mai rivolto la stessa devozione che Obito aveva verso il loro maestro.

Non avrebbe mai seguito appieno i suoi insegnamenti.

Non avrebbe riso, scherzato, giocato con i suoi compagni di squadra come faceva lui.

Non lo avrebbe mai – ma proprio mai – chiamato: “sensei”.

Forse, Kakashi, per il semplice fatto che Sasuke non è Obito.

Chissà cosa lo aveva spinto a credere che gli Uchiha fossero tutti uguali.

Lo avrebbe dovuto comprendere subito che Obito, col suo sorriso incancellabile, perfino nella morte, aveva costituito una tanto improbabile quanto meravigliosa eccezione.

Così come doveva comprendere che quel ragazzino dagli occhi neri e il broncio sul volto non sarebbe mai stato come lui.

E non avrebbe più riso, perché le risate dei bambini, quelle che si rompono e si trasformano in etere fate, si erano perse per strada allo svoltare dei suoi sette anni.

No.

Decisamente, a Kakashi, quel Sasuke adolescente non piaceva.

Forse, perché erano troppo simili.

«Sasuke, non puoi continuare ad allenarti così. Il chidori stanca.»

«Non mi interessa.»

Testardo. Come solo pochi possono essere.

Con un sospiro, Kakashi si sedette su una roccia, attendendo che l’allievo fosse, effettivamente, distrutto dagli allenamenti.

Poco ma sicuro, quando il giorno dopo non ce l’avrebbe fatta a muoversi per via dell’acido lattico e dei muscoli indolenziti, Sasuke avrebbe imparato la lezione.

Ovvero: non strafare o ti farai male.

Rimase ad osservarlo mentre, ostinatamente, continuava ad impastare chakra, accumulandolo sul palmo della mano destra.

Sempre di meno, sempre con più difficoltà.

I movimenti nell’impastare i sigilli si facevano sempre più lenti e impacciati, man mano che la stanchezza aumentava.

Non ce l’avrebbe mai fatta. Non l vrebbe mai fatta. si facevano sempre più lenti e impacciati, man mano che la stanchezza aumentava.

a allo svoltare dei suoi sein giornata, almeno.

«Basta così.»

Gli fermò il polso, appena illuminato di chakra azzurrino, squadrandolo con l'unico occhio visibile.

«Sei esausto, Sasuke. Non riesci neanche più ad impastare decentemente il chakra. Se vuoi morire, questo è il modo giusto per farlo.»

Sasuke lo squadrò in malo modo, tirando via, bruscamente, il braccio e massaggiandosi il muscolo, effettivamente indolenzito.

«Ti dà così fastidio ascoltare gli adulti, ogni tanto?»

A giudicare dalla sua espressione irritata, sì.

Come tutti i ragazzini, mai avrebbe ammesso di aver torto di fronte a un "grande".

Come tutti gli Uchiha, mai avrebbe ammesso di aver torto. E basta.

I met a young child beside a dead pony,
(...)
I met one man who was wounded in love,
I met another man who was wounded in hatred,

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Dio. Quante volte aveva visto il volto di quel ragazzino contrarsi in una smorfia di dolore per le ferite riportate durante l'allenamento.

Quante, ancora, aveva scorto quello sguardo orgoglioso [adulto?] scrutarlo con astio e disprezzo [ragazzo?], perchè verità troppo dolorose da accettare [bambino.] uscivano dalla sua bocca.

Quante altre erano state - e avrebbero continuato ad esserci - poi, le volte in cui aveva scorto, per qualche fugace attimo, il labbro inferiore tremare e quegli stessi occhi avvelenati dall'odio e dal rancore farsi lucidi, per poi essere strofinati bruscamente con un pugno che cancellava le lacrime, spacciate per polvere.

Quante. Quante. Quante volte aveva seguito con lo sguardo quel simbolo sulla sua schiena, fino alle porte del quartiere degli Uchiha, abitato, ormai, solo dai fantasmi, da un bambino che aveva smesso di essere tale troppo presto, da un ragazzino che aveva deciso di non essere tale e da un adulto che, ancora, non esisteva.

Tante. Tante. Tante volte.

E, ogni volta, Kakashi, non aveva saputo far altro che guardare, finché Sasuke, stufo di aspettare quel gesto [Paterno? Fraterno? O cos'altro?] che non arrivava, decise di seguire chi gli prometteva, non affetto, non amicizia, non amore, ma potere.

Perché, in fondo, era quello che cercava.

Perché, in fondo, è sempre meglio che niente.

E se ne era andato.

Anche lui, come Obito.

Il giorno in cui Sasuke era partito, pioveva, però.

«Be', direi che il tuo limite è di due colpi.»

soffiò, serafico, al dodicenne sudato e ansimante per lo sforzo.

Impassibile come sempre, ma c'era orgoglio nei suoi occhi.

«Con il chakra a tua disposizione è questo il massimo di colpi che puoi utilizzare in un giorno.»

«Cosa succederebbe se provassi ad usare più di due colpi?»

Orgoglio per le proprie capacità, orgoglio per essere riuscito.

Orgoglio che andava smorzato il prima possibile, per evitare gesti avventati.

«Il terzo colpo non si attiverebbe, ricordalo.»

«...»

«Alla peggio potresti morire, ma anche se dovessi sopravvivere, non ne varrebbe la pena...»

Fermarlo, prima che fosse troppo tardi. Prima che il potere andasse fuori controllo.

Prima che si facesse male.

«Specialmente nel tuo caso.»

Sasuke abbassò lo sguardo, mortificato.

«Va bene, Kakashi...»

Socchiuse le labbra, quasi fosse in procinto di aggiungere qualcos'altro.

Un appellativo che mai aveva utilizzato.

Kakashi attese, ma Sasuke parve ripensarci e chiuse la conversazione, lasciandosi morire in gola il "sensei".

Ora che se lo ricordava, aveva piovuto anche quel giorno.

   
 
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