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Autore: miss dark    10/03/2013    4 recensioni
Lei si sentiva bene così: lontana dagli altri, lontana dai contatti indesiderati, lontana dal rumore, dall'affanno, dalla fretta, che è sempre cattiva consigliera.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'I miei personaggi in cerca d'autore'
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Anita

 

 

 

 

 

Qualcuno, scendendo dal pullman, urtò inavvertitamente la sua tracolla verde. Lei strizzò gli occhi e non disse niente; nemmeno la sua espressione, in realtà, cambiò di molto: non si fece infastidita, stizzita, innervosita, turbata. Lei strizzò gli occhi e basta. Dietro i suoi occhiali dalla montatura trasparente, un guizzo veloce, come un pesciolino che salti all'improvviso fuori dalla boccia e si rituffi poi dentro con altrettanta agilità. Un movimento naturale.


Non aveva mai parlato molto, Anita. Diciamo che preferisse ascoltare, anche se non sarebbe corretto dire nemmeno questo. Poteva sembrare che ascoltasse attentamente, che si concentrasse, ma in realtà la sua mente era completamente assente.

Io suppongo fosse perennemente intimidita dal mondo di fuori, ma non lo affermerei con certezza. Forse era solo un'impressione data da quel tic, che poteva sembrare nervoso e che, magari, era solo naturale. Ma supponiamo che davvero fosse intimidita, che la vita le rombasse intorno con troppa foga perché lei trovasse il coraggio per viverci dentro e non di lato. Quando la vita la sfiorava più da vicino, lei, semplicemente, strizzava gli occhi. L'aveva sempre fatto, fin da bambina.

Forse l'infanzia, effettivamente, era stata l'età più critica. Mentre gli altri bambini correvano in cortile, Anita si sedeva sul muretto e guardava. Quando suonava la campanella dell'intervallo e tutti si raggruppavano intorno al bambino con più figurine, lei rimaneva in disparte, seduta al suo banco, sempre l'ultimo, in fondo, nell'angolo: lì nessuno poteva vederla, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di andare a cercarla, ma, soprattutto, da lì lei poteva vedere tutto e nulla sarebbe mai arrivato inaspettato. Lei si sentiva bene così: lontana dagli altri, lontana dai contatti indesiderati, lontana dal rumore, dall'affanno, dalla fretta, che è sempre cattiva consigliera.

Così iniziarono le visite dai dottori, ogni settimana in un ospedale diverso, ogni settimana un responso identico al precedente: la bambina sta bene, è solo un po' timida, forse bisognerebbe darle una spinta, aiutarla a socializzare un po'. Che parola tremenda, socializzare! Entrare in società, in mezzo agli altri, in mezzo al rumore, all'affanno, eccetera. Sembra come la programmazione di un computer: programmare alla socialità. Orribile.

Fu così, tuttavia, che iniziarono le attività pomeridiane: non gli sport, perché qualunque palla implicava un contatto indesiderato, qualunque fune, spalliera, trave era troppo lontana da terra perché cadere non facesse male; non la danza, perché la bambina - piccola - è proprio un po' goffa; non il coro, per carità, la bambina nemmeno parla!; non un corso di musica, flauti, chitarre, pianoforti richiedevano orecchio, talento, passione, attenzione (dicevo, io, che non era una persona attenta).

Così la stagione dei corsi terminò com'era iniziata. Grazie a Dio.

La madre si struggeva a vederla sempre chiusa in casa, sempre con la testa bassa, a disegnare, a ritagliare i giornali, a studiare, a leggere. A scrivere. Sinceramente, non potevano definirsi capolavori, le storielle che Anita scribacchiava: non era una bambina talentuosa. Che si mettessero tutti l'anima in pace. D'altronde, mica tutti possono diventare Premi Strega. E questo, forse, era un dolore in più nel cuore della madre, che, se non poteva sognarla campionessa, ballerina, cantante, musicista, aveva sperato almeno di poterla vedere pittrice, scrittrice, artista insomma. Nulla. E l'avrebbe amata comunque, la madre, ma la bambina nemmeno parlava, figurarsi se dimostrasse un po' d'affetto, se accettasse quello altrui!

La solitudine era, forse, il suo talento nascosto.


A quattordici anni iniziò il liceo: la vita, finalmente, si fece più semplice.

Ognuno si faceva i fatti propri, pensava alle proprie interrogazioni, alle verifiche, alle ricerche, alle relazioni, ai corsi per i crediti, alle attività extracurricolari, alle amiche, agli amici, alle serate, agli after, alle vacanze insieme, alla tesina, alla maturità. Nessuno si curava di chi rimaneva indietro, di chi sedeva al fondo della classe, con gli occhiali spessi, con i capelli poco curati, con i vestiti fuori moda. E Anita, finalmente, conobbe la pace: studiava, leggeva, faceva ricerche; i professori la stimavano, non consigliavano alla madre di portarla dal dottore e questa, dopo tanto penare, poté sognarla ricercatrice universitaria. Frutto di un riciclaggio infinito di sogni buttati nel cestino, talmente rimestati e manipolati da non sembrare nemmeno più un sogno, ma tant'è: ad ognuno il suo. Così la madre cominciò ad informarsi, anche lei faceva ricerche, tra le amiche, gli amici, i conoscenti: quali le università migliori, le facoltà più prestigiose, i mentori più saggi; quale la strada perché la sua bambina potesse entrare a far parte dell'Albo d'Onore?

Anita, nel frattempo, non si preoccupava, non si affrettava, continuava a fare tutto quello che aveva sempre fatto, senza l'angoscia di dover essere la migliore (tanto lo sarebbe sempre stata, volente o nolente), senza il desiderio di uscire con il massimo dei voti (chi glielo avrebbe tolto, il suo 100?), senza l'ansia di iscriversi all'università. Lei leggeva, ogni tanto scriveva ancora, studiava e viveva così, come aveva sempre vissuto, nel suo universo parallelo fatto di parole e di nozioni, uniche consolatrici di quella vita così piatta e appassita. Ma Anita non soffriva, ne avrebbe avuto motivo? Ogni contatto con la vita vera, o presunta tale, la innervosiva, stare tra i libri la rilassava: perché preoccuparsi?


La madre la iscrisse a paleontologia. Una vita votata alla ricerca, una vita proiettata al passato e non al futuro, una vita immobile in mezzo ad esseri immobili. Non avrebbe avuto bisogno di sedersi all'ultimo banco per stare al sicuro.

Per andare all'università, tuttavia, tutte le mattine doveva prendere il pullman. Restava in piedi, furtiva, dietro alla porta, per poter scendere il prima possibile, con la sua tracolla verde stretta al fianco. Ogni tanto quelli che salivano o che scendevano la sfioravano; qualcuno si voltava e le chiedeva scusa. Lei, come se fosse tutto quello che riuscisse a fare, strizzava gli occhi, rapidamente, quasi impercettibilmente, dietro agli occhiali che la miopia le aveva regalato.

Anita, forse, era felice così. Protetta da quella sua paura, lontana dal caos della vita degli altri, dalle corse, dai ritardi, dagli appuntamenti. Forse questa era la sua marcia in più, ciò che la rendeva così serena di fronte alla vita.

Anche se io non giurerei che si possa parlare di felicità.

 

 

 

  
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